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PREMESSA
Per molti la Bibbia è un testo sacro. Ma mi commuove più di quel valore in sé, il sacro
aggiunto, l‟opera degli innumerevoli lettori, commentatori, sapienti che hanno dedicato a
quel libro il tempo migliore della loro vita. Il sacro in sé della Bibbia è diventato,
attraverso di loro, una civiltà.
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Parlare di Bibbia a teatro può generare molti equivoci. C‟è chi già sbuffa di noia
prevedendo di vedere attori in tunica – se non addirittura con ali sulle spalle –
esibirsi in liturgie dimenticate, preghiere pronunciate in chissà quale lingua
polverosa e arcaica; subito si riaffaccia prepotentemente al pensiero la lunga e
articolata storia di incomprensioni tra Chiesa e teatro, senza però ricordare i
numerosi punti di contatto tra le due, ad esempio in certa terminologia
reciprocamente mutuata.
Per sviluppare questa tesi è stato necessario scartare alcune ipotesi di lavoro: una,
di competenza più drammaturgica, è l‟esame delle innumerevoli opere teatrali e
spettacoli basati sul testo biblico o sui suoi personaggi; un‟altra è l‟analisi
storiografica del rapporto tra cultura ebraica e teatro, seguendo l‟intreccio tra
liturgia e pratiche performative, magari suggerendo, chissà, una storia del teatro
che non origini soltanto dai tragici greci. La pista privilegiata è stata invece
l‟impostazione di problemi e prospettive, esponendo snodi teorici e temi di
convergenza tra esegesi biblica e teatro. La Bibbia è in sé un libro mostruoso, di
difficile catalogazione, sia per il peso che ha occupato nella cultura occidentale
che per problemi testuali oggettivi, come l‟eterogeneità dei generi utilizzati e
persino delle lingue. L‟uso da parte dello studioso di questa fonte particolarmente
pericolosa non può essere ingenuo né immediato. Non ho quasi mai citato passi
biblici nel corso della tesi, proprio perché l‟oggetto dell‟analisi non sono le storie
e i contenuti del libro ma la loro genesi, la stratificazione e il valore assunto nella
cultura occidentale. Illuminante in questo senso è un‟indicazione metodologica
esposta da Raimondo Guarino in un suo saggio sul rapporto tra libro e teatro.
Il nesso con il teatro non sta nella lettura di uno spettacolo virtuale contenuto nel testo. Il
valore documentario di un testo drammatico si verifica nelle connessioni della sua
produzione, e delle sue destinazioni. […] Lo storico del teatro non solo non deve
trascurare gli studi letterari, ma deve coltivarli a un livello di conoscenza dei supporti e
delle tipologie dei testi che non è soltanto quello dell‟esercizio interpretativo, ma quello
della consapevolezza complessiva dei fattori materiali della scrittura e della stampa e
degli usi della lettura. […] Più del rapporto tra i testi e gli spettacoli che li hanno
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impiegati, l‟oggetto rilevante e attingibile è la relazione tra universo teatrale e pratiche di
scrittura e lettura.
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Proprio a partire dalla pratica di scrittura e lettura riferita alla Bibbia è emersa una
parola chiave della tesi, ermeneutica, ponte privilegiato per il raffronto tra teatro e
teologia. Partendo da un paradigma di regista interprete, quello del regista
filosofo, ho pensato a una sorta di “regista-teologo”, un interprete consapevole
delle categorie e delle modalità interpretative scaturite dal testo biblico ma poi
diventate patrimonio comune di tutto l‟Occidente. Ecco allora che alcuni
strumenti significativi dell‟arte registica come il dialogo, la traduzione, il silenzio
e la lettura, possono essere riconsiderati in una simile prospettiva.
Nel primo capitolo ci si chiede quale interesse abbia la questione ermeneutica per
chi si occupa di teatro, delineando alcune articolazioni del rapporto tra teatro e
conoscenza. Un capitolo è dedicato al rapporto tra categorie come rivelazione e
ragione, corpo e spirito, dramma e teologia, incrociando tra loro filosofia, fede e
teatro. Seguono tre capitoli per capire come il dialogo, la traduzione e l‟uso del
silenzio sono utilizzati nel processo ermeneutico registico. Infine, si cerca di
delineare alcune prospettive per ulteriori studi sull‟argomento. Il pericolo corso in
queste pagine è di affrontare tematiche troppo lontane sia dalla prassi scenica che
dall‟interesse degli studi teatrali accademici, non solo per la pesante eredità
ideologica che entrambe rischiano di far prevalere nelle rispettive competenze e
nei loro momenti di convergenza, ma anche per la condizione d‟incertezza
tassonomica della regia contemporanea: nonostante il moltiplicarsi di regie e di
scuole per registi, la funzione di questa figura è tutt‟altro che pacificamente
attestati. Consola che proprio la Bibbia compaia come immagine guida di un libro
dedicato da Claudio Meldolesi e Renata Molinari non al regista ma al dramaturg;
un‟immagine che diventa non solo simbolo o riferimento blasonato alla cultura o
alla spiritualità, ma un motivo concreto, direi terrestre, per continuare a mettere il
Libro dei Libri a contatto con la pratica e il pensiero degli uomini di teatro.
Da ciò siamo stati indotti ad assumere qui l‟immagine delle ruote, dato che l‟arte teatrale
è di per sé ripensabile appunto all‟ombra del “Libro con le ruote”, mutatis mutandis:
essendo stata detta così la Bibbia da Gregorio Magno perché soccorritrice dei fedeli;
mentre il dramaturg ci si è conseguentemente riproposto quale addetto al buon
funzionamento delle ruote teatrali ovvero a favorire la loro disposizione a connettere la
scena, il testo o partitura e gli spettatori.
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1. ERMENEUTICA E REGIA TEATRALE
Il teatro e le Idee
Il Teatro di Bruno è Teatro del Sole, da intendere all‟interno del suo sistema eliocentrico: egli
ritiene che la fonte principale della luce proietti sul mondo delle ombre. Per risalire dalle
ombre alla luce si dovrebbe percorrere un cammino che porta dalle ombre alle immagini, dalle
immagini alle idee, da queste al simbolo, indi al Dio unico. L‟unico modo possibile di
avvicinarsi alle idee è il teatro.
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Il teatro occidentale, nella moltitudine di espressioni e forme alle quali ha dato
vita fin dalle origini, si dibatte alla ricerca di un equilibrio tra filosofia e
spettacolo, tra accertamento di un contenuto di verità e intrattenimento, tra il
tempo sospeso della festa e il tempo perpendicolare delle idee. Ci troviamo di
fronte a una filosofia materiale quanto a una pratica ermeneutica: la necessità di
far convivere pensieri e azioni, oggetti e visioni, rende la scena uno strumento di
verifica ideale delle aporie di ogni filosofia disincarnata e di ogni gioco
pretestuoso. La conoscenza a teatro assume spesso, soprattutto nel XX secolo, i
caratteri di una rivelazione; in ogni opera ed evento serpeggia qualcosa di simile
all‟antica hybris, una tensione tra la domanda umana e la risposta divina in un
avvenimento completamente terreno, al quale lo spettatore partecipa sperando
sempre di intuire un ulteriore frammento del mistero, tragico lirico o grottesco che
sia, della propria esistenza. Il teatro diventa così una riserva contro tutte le
filosofie aprioristiche, mantenendo alto il proprio carattere esistenziale verso tutti
i sistemi totalizzanti.
Non è casuale sottolineare l‟interesse anche pratico, drammaturgico o critico, che
molti filosofi e pensatori di ogni tempo, da Bruno a Rousseau, da Kierkegaard a
Benjamin, hanno mostrato per il teatro come supporto alla loro speculazione
ermeneutica, avvertendo profondamente l‟urgenza di superare l‟astrattezza tecnica
di un discorso meramente filosofico per trasmettere le proprie ricerche etiche,
filosofiche, religiose in una modalità espressiva più immediata ed efficace. Nella
Francia della prima metà del Novecento, tra Sartre, Camus e Malraux, troviamo
anche Gabriel Marcel. Far rappresentare un dramma, per l‟autore di Être et Avoir,
è un atto che comporta profonde responsabilità: i testi teatrali, strumenti
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d‟indagine sulla condizione umana in forma diretta, si propongono di maturare
concretamente nello spettatore la consapevolezza di un ordine e un disordine non
altrimenti concettualizzabili. È interessante notare in quali termini si snodi il
rapporto tra le opere drammatiche e i testi speculativi, permeato non solo da
reciproca dipendenza, ma dalla funzione propedeutica dei drammi verso il corpus
filosofico. Marcel afferma che il suo pensiero risulta approfondito e chiarito nei
drammi; per configurare questo rapporto, ricorre a una metafora interessante,
quella delle “isole”. Se il corpus dei suoi scritti teorici corrisponde alla parte
continentale estesa e compatta di un territorio, ad esempio quello greco, i drammi
si configurano come il gruppo di isole che l‟attornia, il ponte per giungere al
continente.
Se allontanandoci da quella drammaturgica ci concentriamo sulla funzione
registica, ci accorgiamo che la vocazione del teatro a porsi come un‟ermeneutica,
dove il dramma diventa strumento di conoscenza, si colloca tra le principali
ragioni d‟essere del regista, che Copeau definisce proprio come lo specialista di
un metodo interpretativo, figura che viene inizialmente in soccorso all‟autore e
risulta poi essergli indispensabile.
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Ma le modalità di applicazione del metodo,
oltre alla scelta del metodo stesso, ci rivelano una complessità di orientamenti che
si esprimono nei molti teatri nati (e morti?) nel ventesimo secolo ad opera di
registi. Suggestiva la contrapposizione proposta da Roberto Alonge già nel
sottotitolo di un suo libro: scopritori di enigmi, poeti della scena.
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Nell‟esperienza
interpretativa, possiamo vedere i registi dibattersi tra la pratica del commento e la
disciplina dell‟interpretazione, divisi, per dirla con Walter Benjamin, tra la
meticolosa indagine di un chimico e lo sforzo poetico verso la gnosi di un
alchimista. Potremmo così sommariamente definire due principali tendenze della
regia del Novecento: quella dei registi-ermeneuti, ancorati a un percorso critico di
stampo più analitico, e quella dei registi-metafisici che percorrono i misteriosi
sotterranei della verità ontologica. Ne conseguono due modalità di messa in scena,
la prima più attenta allo svelamento, la seconda alla ri-velazione.
Sono ovviamente in gioco antitetiche ontologie teatrali: da un lato la scena come luogo
ermeneutico della rappresentazione (o mistificazione), dall‟altro la scena come spazio
metafisico dell‟identità assoluta (o verità).
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Registi senza idee
Niente è più terrificante di un regista che ha delle idee. Il suo ruolo non è di avere delle
idee, ma di comprendere e rendere quelle dell‟autore, non forzarle né attenuarle in nulla,
tradurle con fedeltà nel linguaggio del teatro.
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Come Copeau in queste parole del 1926, anche altri registi e teorici del teatro
sembrano essere d‟accordo: il teatro ha una testa, in certi casi anche un cervello,
ma sul palcoscenico bisogna stare attenti a farsi venire delle idee. Questo si
riferisce sia al lavoro di messa in scena, per cui avere delle idee può significare
avere idee a priori su uno spettacolo, sia nella pratica interpretativa del performer.
Nel rapporto con l‟autore del testo da rappresentare questo rischio si manifesta al
massimo grado, tanto più che l‟artista francese individuerà come caratteristica
fondamentale del buon regista la sincerità, una facoltà che rifugge da una mera
articolazione razionale ma che si dimostra ugualmente valida e funzionale a una
competente cognizione del testo. “È la sincerità a introdurci nella conoscenza
profonda”, scrive nel 1938 in un saggio dal titolo L‟interpretazione delle opere
drammatiche del passato; ma ben presto aggiunge “questa conoscenza stessa
permane quasi indefinibile”. E proseguendo nel tentativo di caratterizzazione di
tale strumento, la definisce come “una facoltà di contatto, una intuizione naturale,
una rivelazione che, oserei dire, è di essenza musicale”.
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Denunciata la necessità
di un approccio non freddamente razionalistico, Copeau fatica però a chiarire in
termini condivisibili cosa possa sostituire, o meglio, guidare le idee nel lavoro
registico. L‟evoluzione del suo pensiero e della sua pratica scenica lo porteranno a
nuovi tentativi. L‟improvvisazione e il sistema pedagogico che ne conseguirà
possono essere viste come una sorta di “via negativa” nel rapporto con il
contenuto di verità dell‟opera; sospeso il principio unificante dell‟autore, si avvia
verso un percorso di tipo dialettico, rivedendo il rapporto con il testo, negato
addirittura all‟inizio del lavoro, anche se solo funzionalmente, rendendolo opera
aperta e occasione per l‟improvvisazione.
Anche un regista come Peter Brook, legato alla narrazione, quella dei classici
elisabettiani come quella dei miti orali di ogni terra, sembra condividere il
principio dell‟insufficienza delle idee. La presenza di un impulso profondo,
irrazionale, al limite tra le percezioni dei diversi sensi, odore o ombra che sia, è
ciò che Brook individua come motore primo del lavoro di prova dei suoi
spettacoli. Rifiutando le strutture, il viaggio verso (e a bordo di) questa forza
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informe e provvisoria è alla base della creazione artistica, caratterizzata da
estrema disponibilità ai contributi esterni, senza una chiave ermeneutica
predisposta che già nei primi giorni di prove penzoli in bella mostra, spada o
àncora, sulla testa della compagnia.
Ecco perché nelle prime fasi tutto è aperto e io non impongo mai nulla. In un certo senso
questa è la tecnica opposta a quella in cui il regista, il primo giorno, fa un bel discorso per
spiegare di che cosa tratta il testo e come intende affrontarlo. Anch‟io lo facevo anni fa,
ma in seguito mi accorsi che era un modo balordo di iniziare.
Ora, invece, cominciamo con degli esercizi, con una festa, con qualsiasi cosa, ma non con
le idee.
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La costante apertura e disponibilità del sistema creativo sottolineata da molti
registi non evita però che la ricerca si coaguli in un risultato spettacolare, a volte
unico, a volte molteplice. Non viene elusa la scelta di un percorso lineare di
conoscenza, ma ribadita la necessità di rendere personale – vitale, esistenziale,
irripetibile, inseparabile dal gruppo – il processo svolto e l‟evento realizzato. In
tale prospettiva la piena comprensione di un fenomeno può significarne la morte,
mostrandosi il contenuto come la cristallizzazione del processo. “Lo spettacolo
non può essere un ideale. Dovrebbe essere ricerca, conoscenza. Se non s‟è più
alcun mistero, non c‟è più niente da conoscere, bisogna toglierlo dal cartellone.”
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Così Grotowski a proposito della nascita del suo estremo spettacolo, Apocalypsis
cum figuris, dopo il quale lo svolgersi della ricerca diventerà primaria, pur se non
esclusiva, rispetto all‟evento. È il sommo ribaltamento di quanto alcuni registi
compiono nelle loro messe in scena, cioè partire da un‟idea di realizzazione
scenica (modello interpretativo, schema organizzativo, attribuzione di significati,
riduzione o trasposizione) alla quale adattare successivamente le componenti
materiali del teatro: un‟immagine mentale, costituita a priori rispetto alla relazione
con luoghi e persone coinvolte nel processo creativo, sostituisce la relazione e
l‟accadere. Sembra più l‟esposizione di un sapere su un oggetto (testo,
personaggio, ambiente) che la conquista di una conoscenza attraverso il teatro.
Contro un tale regista-filologo si batte anche Brook parlando del Teatro Mortale.
In un teatro vivo ogni giorno affronteremmo le prove verificando le scoperte del giorno
precedente, pronti a credere che la verità del dramma sia sfuggita ancora una volta. Il
Teatro Mortale, invece, si accosta ai classici partendo dal presupposto che qualcuno, non
si sa bene dove, abbia capito e stabilito come deve essere rappresentato il dramma.
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L‟ermeneutica registica, quindi, sembra sempre più sporcarsi le mani per pulirsi le
tempie, rifiutando le strutture idealistiche, spostandosi dalla biblioteca al
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laboratorio, dal museo alla palestra. L‟aspetto artigianale caratterizza anche la
nascita della regia. Basti pensare al termine francese nato per designare la nuova
professione, régisseur, che si riallaccia al senso d‟amministrazione e comando ma
declinato nel senso di dominio pratico e materiale. Nell‟ambito protoregistico
emerge forse con i Meininger la piena consapevolezza della compresenza, ma
anche di una possibile separazione, tra interpretazione e realizzazione.
Il lavoro del regista è al servizio dell‟autore, punta a svelarne e a restituirne il messaggio
profondo e autentico. Non c‟è solo la parte materiale, ma anche quella immateriale
dell‟interpretazione.
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Al centro della riflessione di un altro precursore, Ludvig Josephson (1832 –
1899), troviamo la differenza tra atto estetico e mestiere, distinti dalla presenza o
meno di quello che viene da lui definito come il “principio della Devozione”.
Approdando alla cosiddetta “scuola di Motigny”, troviamo un altro anticipatore
della rivoluzione (o riforma) registica, Desiré Paul Parfouru, detto Porel, (1843 –
1917): il processo creativo, così come descritto da Franco Perelli, riprende in lui
la contrapposizione e la ricerca di unità tra le diverse funzioni registiche in
un‟unica figura. La messa in scena viene stabilita nei minimi dettagli (entrate,
uscite, posizioni della mobilia e dell‟attrezzeria), prevedendo un‟interpretazione
globale dell‟idea espressa dal drammaturgo; le prove vengono svolte come vere e
proprie lezioni, arricchite da precisazioni sulle intonazioni, sulla gestualità e
soprattutto sul significato da attribuire a ogni parola del copione. Avviene così che
[…] logos e opsis, messinscena “immateriale” e “materiale”, guida sapiente dell‟attore e
cura attenta e talora sperimentale dell‟allestimento tendono a una sintesi che già delinea
distintamente i tratti della moderna demiurgica registica.
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L‟ermeneuta irriverente tra critica e commento
Si pensi di conoscere una persona, bella e attraente, ma chiusa in sé, perché cela un
segreto. Sarebbe riprovevole voler penetrare in essa con la forza. Ma sarà lecito indagare
se essa abbia fratelli o sorelle, e se il loro carattere non contribuisca a illuminare ciò che
essa ha di enigmatico. Allo stesso modo la critica va in cerca di fratelli e sorelle
dell‟opera d‟arte. E tutte le opere genuine hanno le loro sorelle nel regno della filosofia.
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La dicotomia proposta in precedenza in ambito registico rispecchia in realtà una
più generalizzata biforcazione di orientamenti gnoseologici che troviamo
riproposta in altri ambiti artistici e scientifici, opportunamente declinata. Questi
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due diversi sentieri ermeneutici possono essere sintetizzati nella coppia di termini
“critica/commento”. Nel suo saggio del 1924 su Le affinità elettive di Goethe,
Walter Benjamin, dopo aver definito i due termini della nostra questione (“la
critica cerca il contenuto di verità di un‟opera d‟arte, il commentario il suo
contenuto reale”) rappresenta tale dissomiglianza con una suggestiva metafora.
Si può paragonare il critico al paleografo davanti a una pergamena il cui testo sbiadito è
ricoperto dai segni di una scrittura più forte che si riferisce ad esso. Come il paleografo
deve cominciare dalla lettura di quest‟ultima, così il primo atto del critico ha da essere il
commento. […] Se si vuol concepire, con una metafora, l‟opera in sviluppo nella storia
come un rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come
l‟alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l‟altro
solo la fiamma custodisce un segreto: quello della vita. Così il critico cerca la verità la cui
fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del
vissuto.
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I nodi che affronta Benjamin nel seguito del suo saggio diventano questioni
fondamentali in ogni scienza dell‟interpretazione: molteplicità ermeneutica,
organicità di un sistema di conoscenza, rapporto tra verità e ideale. Più che un
discorso critico di ispirazione dialettica, se è vero che l‟ombra è funzionale alla
luce di un testo, sembrerebbe qui affiorare una prospettiva escatologica, tra cabala
e marxismo. Nella Germania degli anni Trenta, dove l‟ironia e la disperazione
possono coesistere, come in Brecht, nasce così un tentativo quasi mistico di
fissare in un atto, quello critico, la tensione verso la trascendenza. L‟ermeneuta
che si pone davanti ai fenomeni e alle opere come a pergamene – il richiamo ai
“palinsesti” di Genette è immediato – decifra una trama sovrapposte di scritture, e
l‟oggetto finale della sua attività è fatto di caratteri quasi invisibili, quasi
dimenticati: considerati forse inutili, perché ricoperti da una grafia più evidente,
immediata, ma che non è la parola originaria. Abbiamo così nell‟attività critica
“una sorta di operazione animistica, una scienza che conserva della magia la
carica inventiva e metamorfica”
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.
La critica, per raggiungere il cuore del documento, ha dunque bisogno di un
commentario. Alla domanda se quest‟ultimo possa fare a meno della prima,
Benjamin risponde che il commento, anche se preliminare alla critica, le rimane
subordinato. Il rapporto tra filologia e critica diventa complementare: non si può
comprendere un testo se non se ne se esegue un commento, cioè un‟analisi
filologica dei temi e dei termini, ma al soggetto impegnato nella lettura si
manifesta un contenuto di verità in base alla riflessione sulla propria attualità,
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tanto più significativo quanto più immerso nel contesto della sua ricezione
contemporanea. Tra passato (dello scrittore) e presente (del lettore) si genera una
nuova dialettica. La genesi di un‟opera diventa poi, nella storia della letteratura,
secondaria rispetto alla sfera complessiva del destino attivo dell‟opera stessa,
della sua ricezione da parte dei contemporanei, delle sue traduzioni e della sua
fama. Più che con le forme e con le questioni metodologiche, per Benjamin i
critici dovrebbero scontrarsi con l‟opera, assurta a vero e proprio microcosmo, o
meglio, “microeone”.
Poiché non si tratta di presentare le opere della letteratura nel contesto del loro tempo, ma
di presentare, nel tempo in cui sorsero, il tempo che le conosce, e cioè il nostro. In questo
modo la letteratura diventa un organon della storia, e il compito della storia della
letteratura è appunto quello di renderla tale (e non già di fare della letteratura il campo e
la materia della storia).
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Molteplicità e Sistema
L‟ermeneutica elaborata da Carlo Emilio Gadda si svolge all‟ombra del dramma.
Non solo per l‟ansia frustrata di concretizzare un contributo personale al dibattito
filosofico coevo, né per il travaso continuo e vicendevole tra i suoi scritti
filosofici, i tentativi teatrali abortiti e il corpus narrativo. Nel suo tentativo più
compiuto di speculazione sistematica, la Meditazione milanese, Gadda
drammatizza fortemente il rapporto tra i componenti della riflessione metafisica e
gnoseologica, stabilendo la sua piena appartenenza alla dilaniata modernità con la
definizione di un‟ermeneutica a soluzioni multiple e il rapporto conflittuale tra
sistema e metodo. Una prima metafora sulla attività dell‟ermeneuta è proprio
quella del duello, la cui origine affonda già nella remota tradizione patristica che
proponeva al fedele un continuo scontro con la parola biblica, come tra Giacobbe
e il suo angelo.
L‟attore del giudizio e la cosa giudicata, lo scrittore e la scritta, il narratore e la narrata, e‟
stanno fra loro come combattenti in duello, di cui l‟uno si creda aver sospinto al muro
(acculé au mur) il su‟ rivale. Il giudizio, la rappresentazione, la Vorstellung (il duello) non
può celebrarsi, è ovvio, senza il consistere e il convenire dei due.
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Gadda riconosce che la passione ermeneutica e un certo amore di sé facciano
spesso credere all‟uomo di aver costretto al muro l‟oggetto dell‟indagine,
considerandosi il soggetto come il duellante migliore se non il vincitore;
chiaramente, accade spesso il contrario, così che la cosa sondata spinga il critico a
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giudizi senza uscita che diventano errori, pur se obbligati, nell‟articolazione del
pensiero sul mondo.
Un sistema può essere per Gadda deformato e riconfigurato da ogni nuova
relazione che vi viene introdotta. Se questo sistema è quello della conoscenza,
abbiamo la creazione di una sorta di mostro a più teste, una catena di monti che
offre in ogni cima diversi punti di osservazione sui monti circostanti ma che lo
scalatore, in ognuno di essi, vedrà alterarsi ogni volta secondo una rinnovata
visuale. Se le molteplici interpretazioni sul sistema esaminato (che sia il sistema
totale o un qualunque sistema di relazioni) si svolgono contemporaneamente,
annullando la successione cronologica della formulazione dei giudizi, possiamo
collocare davvero l‟atto interpretativo come fuori non solo dalla verità ma anche
dal tempo.
Io devo necessariamente proporre qui lo sgradevole tema della Molteplicità dei significati
d‟un tessuto reale – e affermare che la pulsante deformazione logica (pensata fuori del
tempo) implica di necessità questa attuazione d‟un ermeneutica a soluzioni multiple:
come un enigma che avesse un numero infinito di soluzioni.
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E proprio il sistema, l‟ente posto da Hegel come monumento dell‟Occidente
tramontante e demolito dalla filosofia dopo l‟apogeo idealistico, diventa per
Gadda oggetto di nostalgia e insieme vera chiave di accesso a ogni tentativo
ermeneutico. La stessa Meditazione viene concepita come un trattato sistematico,
né puramente aforistico né confusamente eclettico, dove si difende la necessità e
la possibilità di un sistema, elemento maltratto dai molti che non riescono a
coglierne la portata unificatrice e necessaria, ridotto da alcuni a una sorta di
mostruoso condominio dove si intessono pettegolezzi, una sorta di serva
linguacciuta che coinvolge nel suo ciarlare maligno ogni coinquilino di quel
palazzo che è l‟universo.
Il metodo, infine, è per Gadda un‟illusione necessaria. Infatti la realtà, così come
il processo euristico, precede il metodo, che non può far altro che assommare e
ordinare posizioni reali e tappe del cammino verso la verità, non potendo così che
rivelarsi esso stesso come realtà. Nel processo euristico non esiste quindi un
metodo: solo il processo in sé esiste. L‟unica differenza nell‟avere un metodo o no
è risolta in una questione di forma e di eleganza, in uno strumentario critico
meglio attrezzato.
Il sistema che ha un metodo non è lo stesso di quello che non l‟ha: è un sistema diverso,
più ricco, dotato di infinite relazioni concernenti una selezione critica. Dotato di fagociti
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logici. I fagociti dell‟organismo e i gatti che divorano la topaglia dell‟organismo casa non
sono che relazioni critiche nel sistema che li alberga. La casa che ha gatti è un
„elegantius‟ rispetto alla stessa casa ove imperano i topi. I due sistemi sono diversi.
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Ermeneutica e linguaggio
La frattura epistemologica postmoderna si riverbera forse con drammaticità senza
pari, quasi un‟enciclopedica agonia, nella sfera del linguaggio. Un libro dedicato
da Michel Foucault all‟analisi delle grandi fratture nel sapere occidentale, quella
che inaugura l‟età classica e quella che avvia l‟era moderna, non può che avere
come titolo Le parole e le cose: tra le due non c‟è più l‟originaria corrispondenza
biunivoca, la distanza tra loro si fa abissale. Nell‟era moderna, il linguaggio passa
in secondo piano rispetto alla storia, diventandone una figura e venendo
influenzato dal tempo, così come le cose sono isolate e ordinate dalla storia: non è
più possibile concepire “il linguaggio come quadro spontaneo e quadrettatura
iniziale delle cose e come tappa indispensabile fra la rappresentazione e gli
esseri”.
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Fino al XVI secolo, momento di svolta per il sapere occidentale, è
ancora conservato il rapporto tra le cose e le parole solo perché è ancora possibile
il Nome, e le parole si dimostrano effettivi segni delle cose.
Non esiste differenza tra i contrassegni visibili da Dio deposti sulla superficie della terra,
per farcene conoscere gli interni segreti, e le parole leggibili che la Scrittura, o i saggi
dell‟Antichità, rischiarati da una luce divina, hanno deposto nei libri che la tradizione ha
salvato. Il rapporto con i testi è di natura identica al rapporto con le cose; in entrambi i
casi, se ne ricavano solo segni.
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La Divinatio e l‟Eruditio convergono verso un‟unica ermeneutica che si sviluppa,
in rispondenza a figure simili, su due piani diversi: se la prima si muove dal segno
muto alla cosa in sé, interpellando la natura, attraverso l‟altra riacquistano vita
tutti i linguaggi dimenticati o addormentati, accendendo le parole sepolte nel
marmo del grafismo inespressivo. Sembrano prospettarsi due modalità di
conoscenza: la via dell‟identico, che approfondisce il reale in un percorso
coerente, continuo ma senza fine, e la via del diverso, che procede per fratture e
istanti. Questa duplicità si affianca alla differenza tra ermeneutica (il sapere e la
pratica del far parlare i segni e svelarne il senso) e la semiologia, che mira a
distinguere la posizione dei segni, definendo ciò che li rende tali, i loro legami, le
leggi che li uniscono. Nel XVI secolo, ermeneutica e semiologia sono ancora
sovrapposte: entrambe cercano il senso in ciò che si somiglia.
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Per questa attività il supporto e il veicolo fondamentale rimane il Testo, sia esso
quello delle Scritture, della Natura o dell‟Uomo. Sopravvive ancora, nell‟età
classica, l‟idea di un Ur-Testo primitivo: solo grazie a questa presenza sotterranea
è possibile fondare e convalidare un commento, sia come punto di partenza che
come meta di arrivo di ogni sforzo conoscitivo. Ma con la grande frattura
epistemologica secentesca questo primo Testo si cancella insieme al complesso
delle parole inscritte dall‟origine nel cuore (o sulla superficie) delle cose; tutto
quello che rimane all‟ermeneuta è una rappresentazione, manifestata attraverso
segni verbali articolati tra loro a formare discorsi.
All‟enigma d‟una parola che un secondo linguaggio deve interpretare si è sostituita la
discorsività essenziale della rappresentazione: possibilità aperta, ancora neutra e
indifferente, ma che il discorso avrà per compito di completare e fissare. […] Il commento
ha ceduto il posto alla critica.
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La critica si carica quindi di un‟ambiguità che non può eludere: interroga il
linguaggio come se fosse puro spettacolo, complesso di meccanismi, gran gioco
autonomo dei segni; ma non può al tempo stesso evitare di rivolgergli la domanda
circa la sua verità o la sua menzogna.
L‟opposizione tra commento e critica consiste nel fatto che quest‟ultima, secondo
Foucault, profana il linguaggio, perché lo anatomizza, lo pone tra copia e verità,
privandolo della certezza ontologica di emanazione dell‟Essere. Il commento,
invece, rende sacro il linguaggio, rispettando il Testo preliminare, indagando il
mistero senza sezionarlo. Torniamo così a ribadire la contrapposizione tra rispetto
e dissacrazione, tra analisi e visione, che contraddistingue ogni conoscitore e ogni
uomo di fronte al linguaggio, e tra questi il regista, figura singolarmente tesa a
sintetizzare critica e commento, navigatore fedele e cercatore audace.
Tra l‟ermeneuta pedestremente attestato su un rispetto filologico del testo e
l‟atteggiamento irriverente di chi usa la partitura testuale per dar vita a forme di
spettacolo puro, c‟è un bilico sottile presso cui dovrebbe trovare dimora il regista
genuino.
Situata tra gli opposti poli dell‟assoluta autonomia e dell‟opaca imitazione, l‟arte
registica, in quanto traslazione in suono, gesto, spazio, linea, colore di ciò, che nella
texture originaria, è affidata alla sola parola, è creazione seconda […]
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