Introduzione
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INTRODUZIONE
Se è vero che la statuetta d’oro degli Oscar basti a sancire la fama
internazionale della fortunata pellicola che se lo sia guadagnata,
possiamo iniziare supponendo che tutti qui conosciamo la storia della
sala cinematografica più discussa del mondo, il piccolo cinema
Paradiso, abbastanza da poter capire perché un’analisi sul cinema
siciliano contemporaneo debba pagare il suo dazio a quest’opera
partendo proprio da lei.
Ed, in effetti, questa non è la prima tesi che faccia coincidere la data di
nascita di Nuovo Cinema Paradiso, 1988, con la rinascita del cinema
italiano contemporaneo e con la nascita di un nuovo cinema siciliano.
1988: un regista di nome Peppuccio Tornatore, con alle spalle tanti
documentari e un solo lungometraggio, riesce ad avere l’appoggio di
una produzione, la Cristaldi Film, per girare un film in cui prenderci in
giro, o forse, in cui misurare la nostra fede.
Così ci fa innamorare di un piccolo cinematografo di provincia, del
suo modesto pubblico, e dei suoi due più affezionati proiezionisti, il
vecchio Alfredo e il giovane Totò, ci fa vivere l’emozione di essere
dentro quella sala attraverso le immagini di un film di quelli che al
Paradiso ci sarebbe stato, ci fa vivere la paura di averlo perso tra le
fiamme in un incendio per poi darci la gioia di rivederlo ricostruito…
e poi ci da l’immagine della sua demolizione, secca e spietata, senza
nessun altro suono di commento che quello della sua esplosione.
Ma per i romantici che cercano oltre le macerie ancora un segno di
speranza, mentre un pazzo attraversa la scena in quel momento, forse
come ultimo monito alla follia di credere nel sogno del cinema, per chi
non si ferma e va oltre appare tra la polvere un messaggio travestito da
Introduzione
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cartello pubblicitario o un cartello pubblicitario travestito da
messaggio:
IL PARADISO PUO’ ATTENDERE… ALLACCIA UNA KLIPPAN
Ora, cosa si nasconda metaforicamente dietro questa Klippan noi
vorremmo stabilirlo solo alla fine di questa analisi, ma certo è che
molti, in quel momento, hanno visto oltre le macerie del Paradiso, se è
vero che il film di Tornatore ha gridato il suo “Dio lo vuole” ad un
esercito di cineasti mai visto partito dalla Sicilia per la Sicilia allo
scopo di rifondare il cinema italiano.
In realtà quella che abbiamo appena fatto è una narrazione un po’
mistagogica di un fenomeno che chiaramente ha b a s i b e n p i ù
scientifiche e ragioni ben più pratiche.
Perché innanzitutto è difficile stabilire con certezza una linea di
confine tra il nuovo e il vecchio cinema italiano, perché lo stesso
Tornatore viene da esperienze precedenti il suo successo che non
possono essere tagliate fuori dal panorama del nuovo cinema italiano,
e di quello più particolarmente siciliano, in quanto veri e propri
fenomeni culturali. Con questo intendiamo alludere alle numerose
esperienze in super8 e alla diffusione sempre più larga di un’idea di
cinema indipendente sviluppatasi sull’onda del video che ha trovato la
sua celebrazione nel successo della televisione e che ha mosso molti
artisti e centri culturali verso la fine degli anni ’70 verso una nuova
concezione dell’arte audiovisiva. La Sicilia vanta già verso la fine
degli anni ‘80 la più alta densità di questo fenomeno sul panorama
nazionale, che si concentra soprattutto nei tre grandi centri culturali
dell’isola: Palermo, Catania e Messina.
E’ un periodo di gestazione in cui si prepara attraverso l’esplorazione
dei nuovi media, l’elevata produzione di cortometraggi, la
partecipazione ai più importanti festival e l’istituzione di nuovi, quello
che qui chiamiamo “nuovo cinema siciliano”.
Introduzione
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Nonostante però questi artisti abbiano scelto un principio comune di
partenza, che è quello di fare del cinema che sia vero mezzo di libera
espressione dell’autore, e abbiano scelto di partire tutti sullo stesso
treno, o per lo meno, nello stesso periodo, non si può cedere alla
debolezza di racchiudere queste esperienze sotto il programma di un
movimento artistico o una scuola specifica che corrisponda al cinema
siciliano.
Perché pur essendo numerosi e concentrati in pochissimi centri,
raramente questi artisti hanno cercato dei punti d’incontro, preferendo
sviluppare il loro lavoro nella piena autonomia e perseguire la loro
strada senza preoccuparsi minimante di quale fosse l’orientamento
comune, se un orientamento comune ci fosse stato.
In un atteggiamento che crediamo sia un po’ obbligato per un cinema
nato sull’obbiettivo di perseguire la massima libertà d’espressione del
singolo, e che rispecchia un po’ la situazione del cinema
contemporaneo (si è spesso parlato di “arcipelaghi”), i risultati sono
un’estrema varietà d’esperienze che andrebbero valutate singolarmente
per stabilirne la validità. Prova tangibile ne è il fatto che a candidarsi
oggi tra i principali deputati del cinema siciliano in Italia e nel mondo
siano due esperienze diametralmente opposte per modi e per intenti
quali quella del già nominato Tornatore e degli irriverenti palermitani
Ciprì e Maresco.
Ma se nulla accomuna questi artisti fuorché la loro appartenenza di
nascita alla terra degli agrumi e dei miti, e la voglia di fare del cinema,
perché parlare di cinema siciliano? Esiste veramente un cinema
siciliano? Ed esiste un nuovo cinema siciliano? E se si, in cosa si
differenzia dal vecchio?
Si potrebbe scegliere di deviare le nostre responsabilità giustificandoci
col fatto che non siamo i primi a parlare di cinema siciliano.
Introduzione
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Già nel 1954 Eugenio Bonanno scrive un volume dal titolo “Il cinema
in Sicilia” parlando di “cinema siciliano” e profilandone uno studio
analitico per la possibile elaborazione di una sua storia. Compito
portato a termine in maniera esaustiva negli ultimi anni – almeno per
quel che riguarda il vecchio cinema siciliano - da Sebastiano Gesù nel
suo volume “La Sicilia e il Cinema” del 1992 in cui spaziando dal
cinema muto alle più importanti produzioni entrate a far parte della
storia del cinema nazionale, volge u n o s g u a r d o a n c h e a l l a g r a n d i
produzioni d’oltre confine che si sono sviluppate sulla Sicilia e sulla
sua cultura (si pensi alla serie dei Padrini di Coppola e a “Il Siciliano”
di Michael Cimino). Ma di cinema siciliano abbiamo letto anche tra le
proposte di chi ha creduto nel sogno di fare della Sicilia una piccola
Hollywood autosufficiente con cui costruire una storia del cinema
degna della tradizione culturale dell’isola. E lo scrittore Gesualdo
Bufalino vantando la fertilità dei binomi Sicilia- letteratura e Sicilia-
cinema, diceva che si poteva avere una controprova dell’importanza
del cinema siciliano provando ad immaginare di sottrarre al
patrimonio del cinema italiano le immagini di film come “La terra
trema” di Visconti o “Divorzio all’italiana” di Germi.
A questo punto viene spontaneo chiedersi cosa s’intenda recintare
sotto l’espressione di cinema siciliano, considerando che se n’è parlato
indifferentemente per film di autori siciliani ambientati in Sicilia come
per film di autori non siciliani ma ambientati in Sicilia, come per i
nuovi autori siciliani cui abbiamo accennato, che non sempre, come
vedremo, hanno resistito per il loro lavoro, all’“aria di continente”. O
che non sempre hanno potuto farlo, considerando che finora la Sicilia
come istituzione ha offerto ben poco ai cultori del cinema rispetto alle
altre regioni.
Certo l’assunzione dal titolo di “cinema siciliano” deve andare oltre
una somma degli atti di nascita dei singoli autori di un film, che come
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sappiamo, è sempre frutto di un lavoro collettivo, né può fermarsi a un
atto di nascita del film stesso in un set siciliano, che contribuisca al
patrimonio narrativo e immaginativo del film non più che con qualche
fico d’India sparso qua e là e sfondi di porticcioli e coste
Mediterranee; così come tanto meno vale fermarsi a stabilire dei limiti
in termini di relazioni tra i due fattori, che presenterebbe una gran
quantità di casi svariati tra loro.
E’ anche vero però che in Italia il cinema regionale, inteso come
produzione filmistica che si avvale esclusivamente (o quasi) di risorse
artistiche ed economiche interne al suo territorio, è un fenomeno che
esiste concretamente e ha una sua storia durante la quale continua a
intrecciarsi e a slegarsi continuamente con il cinema più comunemente
italiano.
In un suo interessantissimo saggio pubblicato su Immagine nel 1998
Vittorio Martinelli denunciava il cinema regionale come una realtà
ignorata dagli storici del cinema e dai critici, ma esistente. Martinelli
in realtà si riferiva più specificamente agli anni Venti, anni in cui il
cinema italiano versa in una profonda crisi per via del fallimento
dell’UCI, l’Unione Cinematografica Italiana costituita dalle principali
case di produzione italiane allo scopo di creare un circuito di
produzione e distribuzione che fronteggiasse l’invasione del cinema
americano diventata ormai insostenibile, specie dopo che gli USA
avevano interdetto ogni importazione dall’Europa per via, dissero loro,
della guerra. Come Martinelli sottolinea, gli storici del cinema italiano
preferiscono sorvolare su questo coma che caratterizzò la nostra
produzione saltando direttamente al sonoro e alla nuova Cines. Ma se
negli anni che seguirono questa triste avventura, il cinema italiano
continuò a esistere, fu proprio grazie ai pochi sopravvissuti che
avevano preferito non imbarcarsi nell’impresa dell’UCI, e soprattutto,
grazie al cinema regionale, finanziato da produttori regionali e fatto
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da improvvisati artigiani del cinema, fotografi e autodidatti, e artisti di
fama locale.
E’ chiaro che non si può non riconoscere il primo posto al cinema
napoletano che con più di centocinquanta film ha scritto più di tutti la
storia del cinema italiano tra la fine della prima guerra mondiale e la
nascita del sonoro, ma Martinelli dimostra come ogni regione, fino
all’ex-colonia Libiana, godesse di una propria attività di produzione
cinematografica. E anche se i risultati raramente furono di alta
valenza, si deve riconoscere a queste varie forme di cinema regionale,
tanto poi combattute e represse dal dirigismo fascista e dalla censura,
l’aver mantenuto in vita il cinema italiano e l’averne condizionato sia
pure in maniera maggiore per alcune regioni rispetto ad altre, i
successivi sviluppi nella storia ufficiale del cinema italiano.
Abbiamo motivo di credere che il fenomeno appena descritto non
rimanga di per sé isolato nella storia del cinema italiano e che ogni
qualvolta questo si sia trovato in uno stato di crisi, abbia ricevuto aiuto
da un cinema più espressamente regionale.
In fondo non faremmo che ribadire dichiarazioni già sentite se
affermiamo che in un certo senso il tanto acclamato neorealismo per
cui il cinema internazionale ci ricorda, viene proprio da certo cinema
regionale quale si potrebbe definire il cinema dialettale romano di
Aldo Fabrizi e compagnia, che ebbe le sue fortune, grazie, oltre che
all’indiscussa validità dei suoi autori, alla centralità che Roma
acquistava nel cinema italiano per l’unicità delle sue strutture di
formazione e produzione.
Potrebbero esserne una controprova le dichiarazioni di chi accusa i
successi oltreoceano di film quali “Il Postino” di Redford e il già citato
“Nuovo Cinema Paradiso” di chiara ambientazione provinciale,
imputandolo a un’idea di cinema italiano diffusa all’estero legata
ormai indissolubilmente, come un’eterna condanna, alle immagini del
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cinema neorealista. Sicché andrebbero favoriti agli Oscar quei film che
riscoprono temi e ambientazioni popolari e quelle colonne che tanto
ricordano agli americani, eterni turisti, il folklore delle nostre regioni.
Del resto, i programmi delle più famose e malriuscite opere di
investimento nella produzione cinematografica vedono, con eccessiva
speranza, nelle regioni, un punto di partenza fertile per un opera di
rinnovamento del cinema italiano. Basti per tutti una citazione tratta,
per il nostro caso, dal programma della OFS, l’Organizzazione
Filmistica Siciliana, formatasi nell’immediato dopoguerra e destinata
a fallire come tante altre compagne di avventura, nell’arco di pochi
anni, nonostante forse non avesse visto poi così male quando diceva
che:
Solo dalla retta interpretazione dello spirito regionale si può pervenire alla
caratterizzazione di un cinema nazionale. Questo è l’esempio che ci danno le più
quotate cinematografie del mondo, questo è l’esempio che ci da la nostra
letteratura.
Peccato che poi tra i film che la OFS produrrà e la letteratura di Verga,
al di là di un parallelismo di temi, in termini di qualità passi poi
l’abisso.
Tuttavia, un’ultima prova di quanto questa affermava si potrebbe
riscontarla proprio nel cinema italiano contemporaneo. Accusato di
non essere più capace di comunicare, considerato privo di una propria
essenza oltre che di opere valide e di linguaggi nuovi, sopraffatto dalla
televisione e da nuove forme di scrittura dell’audiovisivo, il cinema
italiano oggi torna ad aver bisogno del cinema regionale, a rifugiarsi
nelle province, mascherandosi delle loro unicità per sentirsi unico.
Basterebbe fare un semplice sondaggio tra le case di produzione per
dimostrare che torna di moda il cinema dialettale, cinema di luoghi
precisi e di tradizioni.
Introduzione
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Così mentre la televisione sembra cercare di costruire un linguaggio il
più neutro possibile e comprimere il mondo contemporaneo in unico
villaggio globale, se questo da un lato non può che garantirgli un suo
posto di rilievo tra i mezzi di comunicazione di massa, dall’altro
sembra dare vita a una nuova necessità, necessità di nuovi orizzonti, di
culture differenti, di storie diverse, e a questo bisogno non può che
rispondere il cinema. O per lo meno quel cinema che crede ancora in
una sua unicità e non ha bisogno di omologarsi allo standard dei nuovi
media per continuare a sopravvivere. E’ chiaro che in questo ora più
che mai il cinema deve farsi mezzo di intima espressione dell’autore
perché la percezione soggettiva è l’unica cosa oggi che possa
restituirci l’unicità di una visione e con essa la sua diversità.
Perciò in questo saggio affronteremo il concetto di cinema siciliano
inteso come cinema che sviluppa in sé elementi della società, della
cultura e delle tradizioni di quest’isola, vissuti, studiati ed affrontati
dal suo interno e senza i quali non sarebbe possibile. S e q u e s t a
definizione sembra a primo impatto sembra recidere la definizione di
cinema siciliano esclusivamente ad autori di origine siciliana, in realtà
si vedrà nel corso dell’analisi che non è proprio così.
Ci sono stati autori, infatti, che hanno guardato alla Sicilia con sguardo
lungo e attento, quasi antropologico, uno sguardo che proprio per
questo ha saputo restituire una sua unicità di visione rispetto a tanto
cinema precedente costruito sugli stessi temi. E poi se un nuovo
cinema siciliano esiste, la sua vera novità sta proprio nel fatto che oggi
in Sicilia si parla nuovamente e più di prima, di cinema, e di cinema
più propriamente siciliano, e che esistono per la prima volta dei registi
siciliani, un gruppo più eterogeneo e più numeroso che altrove, e con
essi nuovi modi di guardare alla realtà e al cinema e nuove speranze
per il cinema italiano.
Introduzione
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Questo saggio non garantisce una esaustività degli argomenti, degli
autori, o delle opere trattate, perché frutto di ricerca su fonti e materiali
preesistenti che non sono pienamente sufficienti ai fini di uno studio
su una materia ancora poco definita e in continuo rinnovo. Ma del
resto non si propone nemmeno di costruirvi sopra un discorso
insensatamente oggettivo. Pur riservandosi di valutare i suoi artisti e le
sue opere in piena sincerità, questo saggio vuole essere invece
un’opera di promozione del cinema siciliano e del cinema regionale
più in generale.
Opera di promozione rivolta verso il cinema italiano perché impari a
guardare anche oltre a quelli che sono i suoi tradizionali centri di
sviluppo, valutando gli artisti secondo la loro capacità e non la loro
possibilità di essere tali, senza aspettare che sia l’Oscar americano a
farlo per loro, e guardando ad essi e ai loro nuovi temi, ai loro nuovi
linguaggi, come possibilità per il suo auspicato rinnovamento.
Ma soprattutto, opera di promozione verso la Sicilia e le regioni stesse,
perché imparino a rivalutare e considerare come patrimonio artistico
l’arte del presente così come quella del passato, provvedendo a
preservarne la conservazione e investendo nel cinema come possibile
risorsa economica e come linguaggio per l’affermazione di una loro
identità culturale.
E allora il Paradiso può anche attendere.
Un occhio al continente
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UN OCCHIO AL CONTINENTE
Nuovo cinema italiano
Sebbene il cinema regionale siano fenomeno che goda di una sua certa
autonomia d’azione, essa non è così completa da prescindere le
condizioni del più vasto panorama nazionale. Ritenendo perciò di non
poter parlare di cinema siciliano senza estendere la discussione al
gioco di relazioni che si creano tra questo e il cinema italiano cui esso
è legato, cercheremo di abbozzare un discorso panoramico sul cinema
italiano nazionale contemporaneo allo scopo di poter comprendere
pienamente le cause e gli effetti di quei fenomeni che nel frattempo
stanno caratterizzando l’ambiente artistico dell’isola. Cercheremo
tuttavia di soffermarci marginalmente su un elenco di artisti e opere
per cercare di centrare poi con più ampio respiro, quelle problematiche
che hanno animato i numerosi dibattiti sul cinema italiano e che più si
avvicinano alle argomentazioni che ci interessano in questa sede.
Gli artisti e le opere
Certo è che, dopo la crisi di idee e di artisti cui si assiste tra la fine
degli anni 70 e l’inizio degli anni 80, già alla fine dello stesso
decennio una nuova generazione di registi si prepara a riportare il
cinema italiano ad un buon livello di produzione, o per lo meno a
battere, brutte o cattive che si vedano, nuove strade. A simboleggiare
questa rinascita è proprio Nuovo Cinema Paradiso, il film con cui il
regista Giuseppe Tornatore ha vinto il premio Oscar per la miglior
pellicola straniera nel 1990, un successo bissato due anni dopo da
Gabriele Salvatores con Mediterraneo, una storia ironica e amara su
un gruppo di soldati italiani sperduti su un'isola della Grecia durante la
Un occhio al continente
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seconda guerra mondiale. Sono alcuni dei pochi esempi riusciti che
rimangono di quel cinema d’autore che tanto aveva caratterizzato il
cinema italiano all’estero in passato. Tra questi va ricordato anche
l’attore napoletano Massimo Troisi, che, dopo essere approdato dal
teatro al cinema, dirige e recita in una serie di film comici, tra cui
vanno ricordati Ricomincio da tre (1981) con la sua regia, e Non ci
resta che piangere (1984), assieme a Roberto Benigni, che nonostante
non sia recepito bene, rimane a nostro parere un ottimo esperimento di
improvvisazione cinematografica oltre che un pezzo di storia del
cinema comico italiano. Tuttavia è con il suo ultimo film, Il postino
diretto M. Redford, che l’attore ottiene il suo meritato riconoscimento
a livello internazionale. Il cinema impegnato degli anni '90 si lega
soprattutto al nome di Nanni Moretti, che con Caro Diario ( 1994),
Aprile (1998) rappresenta forse uno dei pochi autori di questo cinema
che ha saputo creare un suo stile, proprio e riconoscibile, cosa non
valida per il suo film vincitore della Palma d'Oro a Cannes La stanza
del figlio ( 2000). Tra gli elenchi del cinema impegnato vanno però
ricordati anche Roberto Faenza, con la trasposizione del romanzo di
Antonio Tabucchi Sostiene Pereira ( 1995), una delle ultime
interpretazioni di Marcello Mastroianni e I cento passi, di Marco
Tullio Giordana, che rivela al pubblico un ottimo Luigi Lo Cascio nel
ruolo di Peppino Impastato, un giovane che ha combattuto contro la
mafia e per questo ha pagato con la vita, interpretato con una qualità di
interpretazione che raramente ha saputo ridare in seguito.
Ma il nuovo cinema italiano ha cercato di riportare in vita anche la
commedia con una alta produzione di film in quest’ambito, dovuta
anche all’approdo di un esercito di comici dalle platee teatrali ai
palinsesti televisivi, e di conseguenza, come vuole oggi il nuovo
etablishement di relazioni tra i media, al cinema. La tradizione della
commedia all'italiana è stata rinverdita da Leonardo Pieraccioni, che si
Un occhio al continente
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richiama apertamente a Mario Monicelli e c h e c o n Il ciclone h a
ottenuto un grandissimo successo, dal trio comico Aldo, Giovanni e
Giacomo, autori di una serie di film molto apprezzati come Tre uomini
e una gamba o Chiedimi se sono felice. A questi autori che
garantiscono una produzione costante di opere sempre, finora, ben
accolte, si rimprovera tuttavia una certa reiterazione di temi e di
linguaggio. Commedie di spessore sono anche Pane e tulipani, del
regista milanese Silvio Soldini e il commovente La vita è bella, una
pellicola con cui Roberto Benigni ha vinto 3 premi Oscar, tra cui
quello per la miglior pellicola di lingua non inglese, nel 1999. Per la
commedia, ma più inseriti nel trash che nella commedia all’italiana, va
ricordato anche il ciclo di film annuali del suo Massimo Boldi e
Cristian De Sica, la cui regia è stata il più delle volte affidate a Carlo
Vanzina o a Neri Parenti. Su un valore artistico di queste opere
preferiamo non dare giudizio, ma non si può negare che essi
continuino a riscuotere un successo popolare, anche se negli ultimi
anni sembra sia andato a scemare. Tra i registi emergenti di questi
ultimi anni uno dei più importanti sicuramente, per l’impeto con cui si
è imposto, è Gabriele Muccino, che con film Come te nessuno mai
(1999), L'ultimo bacio (2001) e Ricordati di me (2003) ha per lo meno
il merito di aver portato sul grande schermo i cambiamenti della
società italiana contemporanea, anche lui tuttavia, non senza riserve.
Grazie ad una maggiore spinta produttiva dovuta in gran parte alla
praticità economica delle nuove tecnologie di produzione, si è
affermato un fenomeno che potremmo chiamare con una certa
forzatura, un nuovo cinema d'autore, basato su un maggiore uso di
alcuni modelli di cinema di genere (su tutti il noir e il thriller). Esempi
in tal senso sono i film di Paolo Sorrentino, Le conseguenze dell'amore
(2004), e di Matteo Garrone, L'imbalsamatore (2002). In questi ultimi
anni si è imposta inoltre anche una nuova generazione di attori, come
Un occhio al continente
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Stefano Accorsi, Laura Morante, Giovanna Mezzogiorno, Maya
Sansa, Alessio Boni, Jasmine Trinca, il già citato Luigi Lo Cascio e,
soprattutto per i film comici a forte carattere regionale, Carlo Verdone,
oltre a un gran numero di volti e di personaggi provenienti per lo più
dal mondo dello spettacolo e della fiction televisiva.
Un discorso a parte merita per il nostro tema Gianni Amelio, che
nonostante l’età forse più avanzata rispetto agli artisti elencati prima,
ci sembra uno tra i più autorevoli registi nel panorama di quel cinema
d’autore contemporaneo di cui si parlava, merito che gli viene da una
varia e ricca formazione nel campo e dal suo ossessivo spirito cinofilo
che lo hanno aiutato a maturare una forte fisionomia d’autore, cosa
molto rara di questi anni . Lo ricordiamo per il suo Il ladro di bambini,
importante per lui che riesce ad affermarsi sul pubblico italiano, e
importante per noi che abbiamo in esso, e nel successivo Lamerica,
uno dei più riusciti ritratti del meridione italiano che vale la sua
premiazione a Cannes e le lusinghe di chi ci ha visto un ritorno al
neorealismo. Un merito questo, che si vede però spartire con il meno
premiato Marco Risi per il suo Mary per sempre, film tratto
dall’omonimo romanzo dello scrittore e meno fortunato regista
siciliano di Aurelio Grimaldi, che qualcuno ha definito per il
linguaggio una sintesi tra Sciuscià e cinema americano. Che ci sia o no
il neorealismo di mezzo, il vero merito che questi film hanno e l’aver
dato una nuova visione del Sud italiano, fatta di nuove storie e nuove
immagini, e che questa visione sia venuta da occhi esterni che hanno
saputo andare oltre una rappresentazione folcloristica.
Tra cr isi e nuova estetica
Fatto un quadro molto riassuntivo dei registi e delle opere che hanno
caratterizzato questo ventennio, teniamo subito a precisare che ci