II
Le immagini sono fondamentali per la guerra televisiva, perché possono
condizionare più delle parole. Come racconta Tony Capuozzo, però, l’oggettività di
queste è quasi impossibile, perché dipende sempre dall’operato di chi le ha prodotte:
“Negli anni in cui c’era l’intifada intendo l’intifada dei sassi e delle pietre e dei
proiettili di gomma o no, ma che comunque uccidevano gli anni in cui il Medio Oriente, la
Cisgiordania, Gaza e Israele erano qualcosa di diverso dal quadro molto più duro e violento di
oggi, condizionato dal terrorismo suicida io vedevo i fotografi che arrivavano (a volte per la
prima volta) ed avevano già in mente la fotografia che volevano fare: era molto facile cadere in
questo sbaglio, perché la fotografia che tutti avrebbero voluto fare (..) quella del ragazzino in
posa plastica, possibilmente controluce, mentre lancia un sasso come un David con la
camionetta o il soldato sullo sfondo.”
3
La guerra della Nato contro la Jugoslavia di Milosevic ha avuto bisogno delle
riprese ripetute dei profughi in Kosovo per ottenere il consenso politico ed avere il
pieno successo dell’operazione militare. La coincidenza inquietante è nella sua
giustificazione che nella memoria storica europea si ritrova all’inizio e alla fine del
secolo: l’incubo del genocidio di massa, che conduce verso una guerra necessaria. Sono
in molti quelli che hanno visto in Milosevic un nuovo Hitler, sulla descrizione fornita
dai media e rafforzata dalle immagini raccapriccianti delle sue vittime.
Per questo la Nato non ha faticato a far accettare la guerra, e nonostante quelli che sono
stati definiti danni collaterali, ancora oggi la maggior parte delle persone la confonde
con quella di intervento umanitario.
Prima del Kosovo, la guerra in Bosnia con le sue 250.000 vittime e i suoi milioni di
profughi è stata la guerra più cruenta, dopo la seconda guerra mondiale, ma senza il
supporto televisivo è continuata ad essere ignorata per quattro anni prima di generare lo
sdegno dell’opinione pubblica.
“La televisione non ha certo inventato la guerra, ma n’è diventata ormai la sublimazione,
lo strumento indispensabile per confermare o distruggere le ragioni stesse di un conflitto, per
esaltarne i valori( o bugie) etici e umanitari, per enfatizzare un atto esemplare.”
4
La guerra in Vietnam, la guerra televisiva per eccellenza, ha gettato le regole
che i signori della guerra sono riusciti a comprendere e ad aggirare.
3
Cfr. http://www.universinet.it/warpress_docs/[email protected].
4
E. Remondino, La televisione va alla guerra. Dalla Jugoslavia al MedioOriente all’Afghanistan,
il giornalismo di trincea tra informazione e politica, Milano, Sperling e Kupfer Editori, 2002, pag 3.
III
L’informazione, dall’inizio dei tempi, è divenuta la fondamentale fonte di potere
e contropotere di dominio e cambiamento sociale; ciò in ragione del fatto che
la principale battaglia che si gioca nella società è quella che determina la sorte di leggi
e valori su cui le società si fondano.
Per potere intendo la capacità per un attore sociale di imporre la propria volontà su
di un uno o più individui attraverso una comunicazione socializzata, in cui il messaggio
mira a convincere il cittadino. Per questo la televisione, date le sue regole, è da subito
diventata il principale canale di comunicazione tra il sistema politico e la società, più
diretta degli articoli di giornale e dei cinegiornali. Nell’era contemporanea, la politica è
in primo luogo una media politics
5
, una politica dei media. Dall’altra parte, anche
quest’ultimi per sopravvivere hanno bisogno della politica, perché l’informazione ha
bisogno di notizie credibili, che tende a far diventare necessarie per il cittadino. Da
quando si è arrivati a comprendere i meccanismi della fruizione attiva da parte del
telespettatore/consumatore, i media si sono adeguati a costruire un proprio sistema di
controllo interno teso ad influenzare l’audience, diventando sempre più pluralistici e
concorrenziali, per attirare un pubblico più ampio possibile.
La politica dei media porta alla personificazione della politica attraverso il volto dei
suoi leader; la maggior parte dei cittadini comuni fa peraltro affidamento su quanto
ascolta riguardo le posizioni di questi ultimi e la loro scelta finale è guidata
dal grado di simpatia e fiducia, che questi riescono a suscitare.
“Se dovessimo fare una statistica degli argomenti trattati dalla televisione italiana -ma non
solo- nell’arco di un anno, ai primi posti troveremo tre argomenti: affari interni(politica e
cronaca), sport e guerra.”
6
Non potendo pretendere una struttura di controllo censoria, ma soprattutto di aperta
intimidazione, gli Stati maggiori hanno elaborato una strategia di difesa che prevede
metodi di consenso accettabili nelle società liberali. Queste strategie rafforzate dopo la
lezione del Vietnam, hanno creato nel modo di rappresentare il racconto di guerra due
strane tendenze.
5
Cfr. Manuel Castells, Comunicazione, Potere e Contropotere nella network society, Annenberg School
of Communication University of Southern California, 2006.
6
L. Cicognetti, L. Servetti, P. Sorlin: La guerra in televisione, Venezia, Marsilio, 2003, pag 9.
IV
In primo luogo si è mandato in onda ripetutamente un numero molto limitato di riprese,
accompagnate da commenti altrettanto ripetitivi; in secondo luogo spesso le immagini
sono state riutilizzate per scenari differenti. Immagini effettuate nella prima fase del
conflitto nell’ex Jugoslavia sono state riutilizzate durante quello per il Kosovo, e via
dicendo.
A volte, addirittura, informazioni create su false immagini sono riuscite a dare una
forte spinta per il crollo dei regimi, come nel famoso caso di Timisoara. Ogni conflitto
presenta due progetti opposti: sia di creare una strategia per dominare l’altro, di
costringerlo a cadere, sia quello di dimostrare la propria legittimità.
Quando l’America ha deciso di iniziare la guerra contro l’Irak, ha spinto il sistema
mediale a dare un’idea esagerata della competenza e della combattività degli iracheni,
poi il Pentagono ha mobilitato le notizie in modo tale che le reti televisive potessero
annunciare al mondo che l’attacco si sarebbe giocato sul fronte marittimo, mentre
invece è partito come attacco di terra lungo la frontiera saudita
7
. La gente si rende conto
che l’informazione che ci viene data non può essere obbiettiva né completa, ma lo
stesso si pone di fronte al suo mezzo sperando di cogliere i momenti più salienti del
conflitto.
Questo però da solo non spiega, perché l’ascolto televisivo cresce, quando si parla di
conflitto.
“Lo spettacolo della guerra è affascinante perché rappresenta un’esperienza della
conflittualità condivisa da molti e che tutti hanno occasione di osservare attorno a loro.”
8
La tendenza televisiva è quella di costruire un racconto basandosi sulle relazioni che
s’instaurano tra quelli che sono i buoni e i cattivi, individuati attraverso il messaggio
che proviene dall’alto. Ci sono casi in cui, come la guerra del Kosovo, queste regole
sono venute a mancare, provocando il disorientamento dell’informazione e del pubblico.
Ciò nonostante, le reti televisive e il pubblico hanno manifestato le proprie preferenze.
La mia tesi si pone come obbiettivo quello di cercare di spiegare il rapporto che,
dalla nascita dei telegiornali, la televisione ha instaurato con le guerre, compiendo
un excursus storico dalla nascita del primo tg Rai, passando all’analisi degli eventi
bellici più importanti, fino ad arrivare al caso del Kosovo.
7
L. Cicognetti, L. Servetti, P. Sorlin: La guerra in televisione, Venezia, Marsilio, 2003, pag.12.
8
Cfr. Ibidem, pag 13.
V
Ho cercato, quindi, di mettere in luce la figura del reporter televisivo nato nei primi
due anni dalla nascita del telegiornale, ma già presente nella stampa, il cui ruolo è
quello di poter filmare e quindi spiegare, dal proprio punto di vista, gli eventi a cui
assiste. Per capire meglio questo mestiere che conduce al successo, ma anche alla morte,
Capuozzo scrive:
“Gli <inviati di guerra> mi ricordano quei film in cui c’é il mercante di armi che aspetta
con speranza e punta sul prossimo conflitto in Africa perché sarà un’occasione per vendere
armi: mi dà l’idea di uno che aspetta in modo quasi melanconico e iettatorio al tempo stesso
che ci sia un conflitto dietro l’angolo perché possa abbandonare la redazione, fare la borsa di
sempre, raccogliere i suoi pochi strumenti di lavoro e finalmente ritornare alla sua “vera” vita
professionale, che é quella dell’inviato di guerra.”
9
Il loro ruolo, come il modo di fare comunicazione, è cambiato negli anni. Oggi
sembra che le testimonianze dirette hanno lasciato il posto al lancio di agenzia.
La sindrome da Vietnam, che ha fatto rendere conto di quanto l’informazione possa
essere un’arma per risvegliare le coscienze, ha condotto ad un primo rimedio con la
guerra delle isole Falkland.
Data la sua collocazione geografica, due isolotti perduti nell’Adriatico, la Thatcher
ha potuto scegliere quali e quanti reporter imbarcare, pur rispettando il concetto di
libertà di stampa. L’esempio è stato seguito e perfezionato dai generali statunitensi con
l’attacco a Grenada e l’invasione di Panama, rispettivamente nel 1983 e il 1989.
In questi anni il Muro di Berlino ancora divide il mondo in due parti.
Il 1989 segna la fine delle vecchie opposizioni, ma sia il potere politico, sia
l’informazione procedono ancora cercando di creare mediaticamente il cattivo da dover
sconfiggere. Lo ritrovano così subito agli inizi del novanta, nella figura autoritaria di
Saddam Hussein, che tutti chiamano solo Saddam, per evidenziare maggiormente il suo
ruolo. La guerra del Golfo, per certi versi, è stata un conflitto spartiacque tra le
esperienze precedenti e quelle giunte in seguito.
La macchina propagandistica si è mossa così bene che la televisione ha finito per
assumere completamente il punto di vista alleato. Non è un caso che ,alla fine, il cattivo
è stato giustiziato davanti agli occhi di tutto il mondo, dopo diversi anni dalla fine della
guerra. Inutile ricordare che la sua morte è rimasta un mistero, perché molti sostengono
che le immagini diffuse siano dei falsi e che la condanna in realtà non sia stata eseguita
9
Cfr. Tony Capuozzo http://www.universinet.it/warpress_docs/[email protected].
VI
Il mondo degli anni novanta è come se fosse ancora diviso, fra zone di pace e zone di
guerra. Sarà l’attentato delle due torri a mostrare alla società post-moderna che la
divisione non è veramente così marcata, e che ha portato alla fobia di massa verso atti
terroristici, che non si riescono a capire né a giustificare.
Il secondo capitolo cerca di illustrare il consumo che si fa del telegiornale per
cercare di spiegare come il messaggio televisivo si sia modificato e reintegrato nella
quotidianità, e cercando di chiarire i passaggi fondamentali che hanno portato al modo
attuale di fare informazione.
Perché molte guerre non passano sui teleschermi, e quante persone devono morire prima
di far muovere l’interesse di chi produce le notizie? Nel processo di ricostruzione della
notizia la cosa fondamentale è la selezione che è come se fosse una piccola parte di
censura naturale.
“L’informazione giornaliera, quando raggiunge il lettore, è il risultato di un’intera serie di
selezioni che riguardano le notizie da pubblicare, le posizioni nelle quali devono essere
pubblicate, lo spazio che devono occupare, l’enfasi che ognuna di esse deve avere. Non vi sono
criteri oggettivi, qui. Si tratta di convinzioni.”
10
L’eroe della notizia, come scrive Fracassi, non è il giornalista di buona penna o il
reporter, bensì il guardiano, il gatekeeper che controlla i cancelli e che decide se un
evento deve esistere o meno per l’opinione pubblica.
La televisione per esercitare la propria influenza, offrendo il proprio punto di vista
e di chi detiene il potere, si serve poi di due strumenti fondamentali: il commento e
l’intervista. Qui, più del commento, si può portare il discorso verso i temi che più
interessano ai fini del discorso. L’intervistatore in norma è colui che detiene questo
potere, ma di fronte all’autorevolezza del politico è dimostrato che l’intervista in
parteresta condizionata. Le interviste difficilmente si rivolgono a gente comune, come
vedremo poi anche nella guerra in Kosovo.
Se pensiamo all’influenza delle immagini non possiamo non pensare a quelle
violente, che più delle altre scioccano e rimangono impresse nella memoria, soprattutto
quando come quelle dei profughi, e poi dell’11 Settembre, sono continuamente
ripetute(nel secondo caso anche da più angolazioni).
10
Cfr. Dichiarazione di Walter Lippmann. C. Fracassi, Sotto la notizia niente, Roma, Editore Riuniti,
2007.
VII
L’ importanza di condizionare la memoria storica lo ha dimostrato lo stesso
Milosevic che, grazie al suo partito, la Lega dei Comunisti, è riuscito a far accettare
nella maggior parte dei serbi le ragioni di una guerra per la liberazione del suolo sacro
del Kosovo, giustificando i loro crimini in nome della lotta contro la Jihad.
Interessante notare come anche queste lotte così secolari si siano adattate alla
modernità, imparando a promuovere le proprie campagne attraverso le televisioni e poi
attraverso internet.
Come si è rapportata la televisione italiana allo scoppio del conflitto armato
promosso dalla Nato per liberare gli albanesi dall’oppressori serbi?
Il ruolo giocato dall’Italia non si è basato solo sull’appoggio militare alle forze
Nato, ma ha comportato un lato umanitario, che ha visto l’Italia in prima linea nella
Missione Arcobaleno.
L’operazione ha richiesto mediante il messaggio televisivo anche una partecipazione
attiva del telespettatore, una sorta di feedback, registrata nella campagna di raccolti
fondi promossa da telegiornali e veri e propri speciali sul tema.
L’analisi, ripresa dal manuale di M.Pozzato, Linea a Belgrado, è volta a prendere in
esame i tre Tg nazionali (Tg1,Tg2, Tg3) a confronto con il Tg5 di Mediaset, nell’unica
programmazione serale, quando generalmente le persone non lavorano e sono riunite a
tavola per la cena, e i relativi programmi di approfondimento.
Durante la guerra i telegiornali non dimostrano di avere un vero progetto, mirato ad
individuare uno spettatore modello, che li può caratterizzare. La guerra sembra in
qualche modo confondere quelle che sono le regole della tv in zone di pace. Cercando
di cogliere una guerra difficile da comprendere, per via delle molteplici opposizioni in
gioco, il numero dei servizi aumenta in maniera abbastanza rilevante. Spesso, infatti, per
colmare il vuoto dato dalla mancanza di immagini si sono registrati casi in cui su tre tg
differenti siano state mandate le stesse immagini e gli stessi scenari, dimostrando un
basso grado di competività. La coerenza dei telegiornali, a differenza di altri conflitti
passati, è andata spesso perduta, perché spesso il Destinante si è confuso con
l’ Antidestinante nel racconto mediatico: mai come in questo conflitto l’informazione ha
dovuto faticare, per spiegare al pubblico dove fosse davvero la ragione. Quando ha
VIII
cercato di farlo i punti di vista si sono moltiplicati diffondendo un senso di generale di
scetticismo e nausea.
11
Dalla parte dei telespettatori non solo è importante capire le loro impressioni dello
spazio dedicato alla guerra, ma quello che effettivamente è rimasto nella percezione
storica collettiva. Che la guerra evochi nell’immaginario collettivo prima di tutto l’idea
della morte, della devastazione, della tragedia umana, non ci sono dubbi: lo riconosce il
78%
12
degli intervistati su tutto l’universo degli spettatori.
Capire l’informazione televisiva significa anche metterla a confronto con la tradizionale
carta stampata. Prendendo in analisi un giornale quotidiano italiano si potrà così
comparare la successione temporale delle notizie, i temi più affrontati e il grado di
importanza che questi due media danno a particolari aspetti.
Finito il conflitto e attuato per il mondo il trattato di pace, ecco che il Kosovo come
altri conflitti sembra venire presto dimenticato dalla televisione, che è sempre volatile, e
dall’opinione pubblica. Le ragioni che hanno mosso verso l’intervento armato però sono
sempre presenti e anzi la questione si raggira e si fa più controversa.
Perché la Nato e gli italiani ora proteggono l’espulsione non dichiarata dei civili serbi
dal Kosovo e la distruzione di antiche e rare chiese ortodosse? La questione è stata
raccontata nello speciale, promosso dai Rai3 e trasmesso nel 2008, a 9 anni dall’inizio
delle controversie che portarono al conflitto. Questa volta è la memoria albanese a
giocare un triste tranello.
Il caso delle guerre jugoslave è diventato il soggetto fondamentale di una vasta
filmografia. Numerosi autori si sono confrontati con la recente storia dei Balcani, sia
registi originari dell’ex Jugoslavia, sia stranieri, definendo così due modalità diverse di
approccio e messa in scena della storia.
11
M. P. Pozzato, Linea a Belgrado. La comunicazione giornalistica della tv italiana durante la guerra
per il Kosovo, Roma, Rai VQPT, Editoria Periodica e Libraria, 2000.
12
Cfr. Ricerca Italiana, promossa da Caritas Italiana, in collaborazione con Famiglia Cristiana - Il
Regno, Roma, gennaio 2002.