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Introduzione
Ho deciso di scrivere questa tesi un sabato pomeriggio, passeggiando per le
vie del centro di Torino. A marzo c’è stata la manifestazione “Cioccolatò” in
piazza Vittorio Veneto e visitando i vari stand è come se mi fossi illuminata e ho
pensato: ”perché non dedicare la mia dissertazione finale al cioccolato?”. Ne ho
subito parlato con la mia relatrice che ha appoggiato la mia idea. E ora eccomi
qui a parlare del cibo degli dèi amato, penso, dalla maggior parte delle persone,
anche da John Tullius, con il suo aforisma “nove persone su dieci amano il
cioccolato; la decima mente”.
Adoro il cioccolato ma non mi sono mai documentata, non ho mai letto libri su
questo argomento, non conoscevo la sua storia se non in maniera superficiale e
tutto ciò mi ha spinto ad approfondire di più la mia passione per questo cibo.
Essendo torinese, come è possibile sapere poco sul prodotto che ha reso Torino
la capitale italiana del cioccolato? Una vera pecca.
I miei obiettivi sono stati da un lato conoscere più da vicino questo alimento
interessante per le sue origini storiche, per le sue le proprietà nutrienti e
dall’altra attirare i golosi del cioccolato a leggere questa tesi e scoprire tutto sul
loro dolce preferito. Si sa che è altamente calorico, circa 500 kcal ogni 100gr,
ma contiene importanti sostanze psicoattive che aiutano a contrastare stati di
ansietà e di depressione e inducono sensazioni di piacere, benessere fisico e
psichico ed una aumentata capacità lavorativa. Nella storia, nella letteratura,
nella medicina, o per piacere personale, il cioccolato ha rivestito un’importanza
notevole ed è diffuso e ampiamente consumato nel mondo intero.
Prima di trattare del cioccolato in particolare ho deciso di dedicare il primo
capitolo all’alimentazione, alle abitudini alimentari degli uomini del passato e
come queste siano cambiate con il passare del tempo, come ci si deve
comportare a tavola e come viene accolto l’ospite in casa, trattato come un
membro della famiglia. Tratterò inoltre del cibo come medicina, usato per
proteggere dalle malattie e per ricostituire le forze, e della preferenza della
cucina nostrana rispetto a quella straniera.
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Il secondo capitolo è dedicato alla storia del cioccolato, dai Maya ai giorni
nostri. Deluciderò dove nascono i semi del cacao e come vengono trasformati in
cioccolato attraverso vari procedimenti, i differenti tipi di cioccolato, come si
prepara la cioccolata calda e il suo uso nell’antichità, i benefici del cioccolato, il
suo uso come moneta. Per finire parlerò della diffusione di questo alimento in
Europa e di tutte le più importanti scoperte fatte dai cioccolatieri.
Il terzo capitolo tratta di Torino, la capitale italiana del cioccolato. Spiegherò
l’ingresso di questo prodotto nella città, elencherò le più famose aziende
industriali del cioccolato e un intero paragrafo sarà costituito dalle bontà torinesi.
Nell’ultima parte del capitolo ho delineato un tour del cioccolato nel centro della
città, per cui enumererò le più famose pasticcerie e caffetterie dove degustare le
prelibatezze al cacao.
Nel quarto capitolo descriverò le principali manifestazioni in Italia dedicate a
questo prodotto, con maggiore attenzione a “Cioccolatò”, fiera che si svolge
nella mia città. Infine ho scelto di inserire delle interviste che ho registrato ad
alcuni cioccolatieri allo scopo di scoprire qualcosa in più su questa affascinante
professione.
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Capitolo 1
Il cibo: istruzioni per l’uso
1.1. Com’era l’alimentazione degli uomini del passato?
Per ragioni ambientali i Ciukci
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e altre popolazioni artiche, fino agli Eschimesi
del Nordamerica e della Groenlandia, vivevano esclusivamente di pesce e di
carne di mammiferi marini, di renne, orsi, buoi muschiati, mammut, bisonti,
cavalli e renne. Completavano la lista delle vivande animali di taglia minore
(lepri alpine), volatili selvatici, bacche, licheni e uova d’uccello. La caccia era
integrata con l’economia della raccolta, attività riservata alle donne che
raccoglievano vermi, bruchi, coleotteri, chiocciole, frutti, noci, funghi;
catturavano insetti, lucertole e rane.
Ci si potrebbe chiedere se quegli uomini che consumavano enormi quantità
di carne e poca verdura non avessero un’alimentazione troppo squilibrata e se
non dovessero soffrire di carenze nutrizionali. Ricerche condotte sugli Eschimesi
che ancora vivono secondo la tradizione hanno confermato i risultati: avevano
tutti un’eccellente complessione fisica. La spiegazione risiede nel fatto che gli
Eschimesi mangiavano fegato in abbondanza, un cibo che contiene quasi tutte
le vitamine d’importanza vitale e vivevano molto all’aperto. Grazie ai raggi solari
si formava la vitamina D, ed essi si procuravano così un sufficiente apporto di
calcio, che invece nella carne è contenuto solo in minima quantità: godevano
perciò di buona salute. In media dovevano lavorare solo per due ore al giorno.
In etnologia le civiltà di caccia e raccolta vennero perciò definite anche “società
dell’abbondanza” (Montanari, 2005).
Con il passaggio alla coltivazione della terra la vita si fece più dura. Gli uomini
traevano il proprio sostentamento soltanto dalla raccolta dei frutti della natura,
ora invece l’uomo doveva coltivare la terra. All’inizio della stagione bisognava
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I Ciukci sono una popolazione della Russia stanziata nella Siberia nord orientale, in
particolare nel Distretto autonomo di Čukotka.
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dissodare il suolo con la zappa e seminarlo; occorreva quindi ripulirlo dalle
erbacce e trasportare i frutti.
Quasi contemporaneamente alla coltivazione del suolo si affermò anche
l’allevamento di animali domestici; dopo capre e pecore, furono addomesticati
maiali, bovini, oche e polli. Gli animali servivano a rifornirsi di latte, lana e uova;
latte e prodotti caseari continuavano infatti a svolgere un ruolo non secondario
nell’alimentazione di quanti vivevano in campagna.
Il più importante mezzo di sostentamento delle società agricole era
rappresentato quasi ovunque dalla farina, che veniva mescolata con i più diversi
ingredienti a seconda della stagioni; poteva essere addensata con l’aggiunta di
acqua, latte ed estratti e se ne facevano frittate, polente, pane e dolci. Il pane
era l’alimento solido che saziava e ovunque erano conosciuti molti tipi di
schiacciate e di pagnotte, che in parte si differenziavano secondo le
combinazioni più varie di ingredienti cotti o tostati. Il pane era un criterio di
differenziazione e di status sociale. Nell’antica India gli strati inferiori della
popolazione dovevano accontentarsi di pane di miglio, il pane bianco era
riservato ai ceti superiori. Nel Medioevo europeo i contadini mangiavano pane
nero di segale, mentre il pane di frumento, cioè il pane bianco, potevano
permetterselo i nobili benestanti e gli abitanti della città (Müller, 2005).
Per quanto riguardo le bevande, per le popolazioni nomadi di pastori il latte
con lo yogurt, ricotta e formaggio, era una sorta di alimento base. Presso i
Somali la razione giornaliera si collocava tra i cinque e i dieci litri. La bevanda da
sempre più diffusa era l’acqua: la si beveva sia durante i pasti sia nel corso della
giornata. Nelle culture tradizionali tra le bevande più diffuse rientravano anche la
birra e il vino.
Nelle società tradizionali la produzione della birra era compito delle donne.
Birra e vino venivano consumati quotidianamente, sia nei campi sia durante i
pasti e la sera, dopo il lavoro, in compagnia, ma soprattutto in occasione di
feste. Vino e birra non servivano solo per rinfrescare il cibo solido ma lo
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integravano e talvolta, lo sostituivano. Presso i Bemba
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dello Zambia nei giorni
in cui si consumava molta birra non si mangiava quasi nient’altro. Anche in
Europa la birra era una bevanda popolare e diffusa; ancora intorno al 1550 le
fonti riferiscono che la popolazione contadina viveva di birra, più che di cibo vero
e proprio. La si considerava una sorta di “pane liquido” che poteva servire bene
come spuntino e che veniva data senza problemi anche ai neonati (Montanari,
2005).
Il vino arrivò in Europa centrale solo con i Romani; rimase però appannaggio
dell’élite, anche solo per ragione di costi. A partire dall’alto Medioevo, poi, furono
soprattutto i monaci a prendersi cura della produzione delle due bevande.
Poiché essi ne consumavano di buon grado e in quantità, a partire dal IX le
autorità spirituali si videro costretti a limitarne il consumo.
Anche in passato, così come avviene di regola ancora oggi, si mangiava tre
volte al giorno e i pasti scandivano il corso della giornata. Si faceva colazione,
spesso prima del sorgere del sole, con un piccolo spuntino prima di andare a
lavorare; si mangiavano pane e latte rappreso oppure si consumavano gli
avanzi della cena della sera prima. Anche durante la pausa pranzo si mangiava
poco: per esempio un picnic a base di verdure, mais arrostito, carne secca. Il
pasto principale, durante il quale si servivano anche cibi cotti, si svolgeva dopo il
lavoro nei campi, ancora nel pomeriggio, o, più di frequente, di sera, dopo il
tramonto, quando tutti i membri della famiglia rientravano a casa e si riunivano.
La preparazione di cibi era compito riservato alle donne e alle ragazze grandi.
Oltre che abilità e inventiva era loro richiesta tutta una serie di conoscenze
specifiche e soprattutto molto duro lavoro: bisognava tagliare la legna,
procurarsi l’acqua tutti i giorni e dovevano stare per ore presso il calore e il fumo
prodotti dal fuoco.
Le festività rappresentavano un alto momento dell’arte culinaria tradizionale.
In queste occasioni non si cucinava necessariamente in modo più raffinato ma
semplicemente con maggiore abbondanza. Si mangiava e si beveva fino a
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Gruppo etnico dell’Africa centrale.
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vomitare; non doveva mancare nulla, altrimenti l’anno successivo anche gli
antenati e gli dèi sarebbero stati meno generosi (Montanari, 2005).
Molti pasti festivi dell’era precristiana sopravvissero nella tradizione religiosa.
In tutta Europa erano prescritti cibi ben determinati in occasione delle feste: per
la vigilia di Natale, come anche per il venerdì santo, si preferivano piatti di pesce
ma anche di maiale; a Pasqua agnello e colomba pasquale; per il giovedì santo
zuppe d’erbe e uova; a Capodanno cotechino e lenticchie. Nei pranzi festivi la
facevano da padrone i dolci, attraverso la cui degustazione si sperava di poter
esercitare un influsso parimenti addolcente, un buon auspicio sul periodo o sulla
fase di vita che sarebbero immediatamente seguiti.
1.2. L’alimentazione in paradiso
In principio, quando gli uomini vivevano ancora in condizioni paradisiache in
un giardino fiorito da qualche parte al centro del mondo, era sempre festa. C’era
sempre cibo in abbondanza e i dolci avevano un ruolo centrale. Gli uomini
potevano raggiungere il cielo in qualsiasi momento attraverso un filo di
ragnatela, una scala o un grande albero. La tavola paradisiaca era composta
esclusivamente da cibi vegetariani perché gli uomini si nutrivano principalmente
di frutta: un solo frutto bastava nutrire un’intera famiglia per una giornata e i frutti
più gustosi crescevano in cielo, proprio sopra la testa degli uomini.
Oltre alla frutta il cibo paradisiaco comprendeva miele, acqua, latte e qualche
volta vino. Spesso si immaginava che il giardino si trovasse sulla cima della
montagna più alta del mondo, dove ergeva un albero possente – l’albero del
mondo – che collegava il mondo inferiore, quello di mezzo e quello superiore.
Finché vissero in paradiso gli uomini non conobbero né malattie né morte. I
dolci frutti, la rugiada di miele, il latte e l’acqua della fonte garantivano loro
l’immortalità, la stessa che possedevano gli dèi. A differenza di quest’ultimi,
però, l’immortalità veniva loro assegnata solo a determinate condizioni. In
quanto esseri imperfetti, quindi soggetti a malattie e potenzialmente mortali, la
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disobbedienza o un comportamento sbagliato poteva portarli in qualsiasi
momento alla perdita dell’immortalità (Müller, 2005).
Al riguardo circolano diverse leggende. Si narra che gli dèi abbiano riservato
per se stessi alcuni frutti del giardino, che gli uomini non potevano toccare, per
non diventare del tutto simili ai loro creatori. Si trattava dei frutti prodotti
dall’albero della conoscenza del bene e del male. Si dice anche che gli uomini, a
causa della vita spensierata che conducevano, divennero semplicemente
sconsiderati e temerari. Dato che nessuno moriva, il loro numero cresceva
continuamente, cosicché si crearono tensioni, astio e litigi. Gli esseri umani
persero il favore degli dèi per negligenza, arroganza e ne guadagnarono in
cambio malattie, sofferenza e morte. Gli uomini lasciarono la dimora celeste e si
dispersero per la terra. Secondo alcune versioni gli uomini esagerarono
davvero; mangiavano più del dovuto, si usavano l’un l’altro violenza, giungendo
persino a mangiarsi tra loro (Müller, 2005).
Profondamente deluso, il Creatore non poté tollerare questa situazione e
recise la corda che collegava il cielo alla terra, rovesciò la scala e nascose
l’albero alla vista degli uomini. Gli uomini erano diventati mortali e dovevano
vivere faticosamente cibandosi dell’erba del campo. Sulla Terra si era abbattuta
la maledizione in conseguenza del peccato degli uomini e avrebbe prodotto
spine e cardi.
Dopo la cacciata cominciarono per l’uomo tempi amari. Il miele era a
disposizione solo in modeste quantità, costava fatica cercarlo e si mettevano a
repentaglio la salute e la vita. La dolcezza dei frutti si poteva assaporare solo
quand’erano maturi.
Gli dèi, invece, avevano sempre a disposizione miele, latte e frutti maturi in
quantità inesauribili; da questi ingredienti derivavano bevande inebrianti. In
particolare gli abitanti dell’Olimpo amavano un soft drink il cui componente
fondamentale era il miele o anche l’ambrosia. Tutte e due le leccornie
garantivano eterna giovinezza e immortalità.
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Gli dèi non consumavano elementi solidi bensì solo distillati della parti più
delicate del cibo. Molti popoli credevano che essi consumassero solo l’odore dei
loro cibi.
1.3. Le buone maniere a tavola e l’ospitalità
In principio gli uomini mangiavano senza tante cerimonie, afferrando il cibo
con le mani e continuarono a farlo per secoli: in Europa le persone agiate fino
all’età moderna, nelle zone remote di campagna fino ai primi decenni del
Novecento. Il cibo veniva servito in pentole o padelle, alle quale tutti
accingevano. «Mangiare dallo stesso piatto», dichiararono dei contadini turchi
all’etnologo tedesco Werner Schiffauer, «è segno dell’unità di una famiglia»
(Schiffauer, citato in Muller, 2005, p.79). Allo stesso modo si beveva da un’unica
fiaschetta, da un unico boccale o brocca, che venivano passati di mano in
mano. Servirsi di cibo dalle pentole richiedeva comunque una certa manualità: si
inseriva il cavo della mano nel cibo e con un movimento rapido lo si portava alla
bocca, utilizzando il pollice e l’indice oppure pezzi concavi di cibo duro, ma
soprattutto focacce a mo’ di cucchiaio. Per consentire la presa i cibi non
dovevano arrivare a tavola troppo caldi. Nelle civiltà tradizionali c’era l’abitudine
di lavarsi le mani prima e dopo il pasto e di utilizzare solo la mano destra, quella
“pura”. Toccare il cibo con la sinistra, che era riservata all’igiene intima, era
considerato un comportamento decisamente maleducato e sconveniente.
Una volta riunitisi intorno alla tavola non ci si serviva da soli a piacere. Se
oggi è la donna di casa che serve di solito a tavola, in passato questa era
prerogativa del padrone di casa o ospite. Mangiare insieme significava
condividere. Alla base c’era l’antichissimo principio della coesione sociale,
l’obbligo di una reciprocità rigorosa. I doni dovevano essere ricambiati con doni
di valore adeguato, i servizi con servizi altrettanto necessari, gli aiuti e i
contributi con attestati di solidarietà e sensibilità (Müller, 2005).
Nelle società tradizionali era perciò sconveniente mangiare o bere da soli in
presenza di altri. Si passava il boccale o la fiaschetta agli altri, che a loro volta