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1. INTRODUZIONE
Il presente lavoro nasce da una riflessione sul concetto di etnocentrismo critico, formulato
dall‟antropologo, etnologo e storico delle religioni Ernesto De Martino (1908-1965).
La “realtà rom” citata nel titolo non verrà qui intesa come un oggetto di studio, ma come un
soggetto con il quale confrontarsi. Lo scopo della tesi non sarà dunque l‟analisi della cultura
rom in se stessa, ma il rapporto esistente fra popolo rom e cosiddetta società maggioritaria, in
quanto l‟oggetto dell‟etnologia non deve essere la scienza di quelle società o di quelle culture
che intendiamo studiare, «ma piuttosto la scienza del loro rapporto con la cultura
occidentale, a partire dall’incontro etnografico in quanto tematizzazione di tale rapporto».
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La prima tappa del lavoro sarà costituita dallo svolgimento di una ricerca etnografica:
descriverò innanzitutto i vari passaggi che mi hanno condotto all‟inizio dell‟indagine
etnografica vera e propria; parlerò poi dei momenti speculativi preliminari alla ricerca,
partendo dalla fase dell‟individuazione del problema, passando per la formulazione di
un‟ipotesi esplicativa ed arrivando infine alla raccolta dei dati etnografici e alla loro
elaborazione.
In un secondo momento analizzerò la questione attraverso una riflessione antropologica la
quale andrà ad analizzare temi quali l‟etnocentrismo, il relativismo culturale, l‟importanza
unanimemente conferita alla conoscenza dell‟“altro”, il tema del nomadismo, la natura del
pregiudizio, l‟asimmetria della relazione fra rom e non rom, il ruolo dei campi nomadi, e
soprattutto l‟idea fondamentale emersa costantemente durante le interviste svolte e alla quale
gli altri temi risultano essere strettamente collegati: l‟omogeneizzazione dell‟alterità, in questo
caso la categorizzazione da parte nostra dell‟etnia rom.
Analizzando il rapporto “noi – loro” il vero oggetto di studio vorrà essere la nostra stessa
società, e il modo in cui esperiamo il rapporto con il “diverso da noi”.
Il lavoro etnografico effettuato per la stesura di questa tesi non andrà ad esaminare specifici
dati sociali, statistiche o dettagliate dinamiche politiche nel territorio del Nordest italiano, ma
si atterrà all‟opinione delle singole persone intervistate. Concentrerò l‟attenzione sulle basi
che sorreggono la nostra visione della persona rom, concetto di per sé assai vasto ed
eterogeneo e che necessita di numerose precisazioni. Cercherò di esaminare e al tempo stesso
di scomporre quell‟insieme di rappresentazioni attraverso le quali percepiamo la diversità
culturale rappresentata dalle persone che si è soliti definire impropriamente “nomadi”, o
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E. De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino, 2002, p. 389.
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“zingari”. Accennerò alla dimensione storica durante la quale questi schemi mentali si sono
formati e si sono radicati all‟interno della nostra società; passerò in seguito all‟attuale
situazione sociale e politica per ridiscutere quegli interventi che noi, membri della società
maggioritaria, conseguiamo nel mantenere il legame con la realtà rom. Rifletterò su come
l‟ideologia sia al tempo stesso causa ed effetto di determinate pratiche sociali: nel senso che
sono quelle azioni generate da una certa rappresentazione dell‟“altro” che contribuiscono a
loro volta a giustificarne una visione distorta.
Il punto fondamentale dell‟intero lavoro sarà l‟utilizzo del concetto di etnocentrismo critico
come strumento di indagine, ragion per cui ripenserò quell‟insieme di convinzioni e di idee
profondamente radicato in noi come conseguenza della nostra appartenenza a una determinata
sfera sociale e storica, e non come un valore universalmente vero ed equanime.
Secondo De Martino questa ridiscussione deve essere uno sforzo volto non a modificare
questi nostri principi e certezze, proposito che d'altro canto risulterebbe irrealizzabile, ma a
produrre in noi la consapevolezza del fatto che vediamo l‟ alterità culturale attraverso quelle
che lui definisce «categorie storicamente determinate».
Nella tematizzazione del «proprio» attraverso l‟incontro con l‟«alieno» entrambi diventano
«due possibilità storiche», semplicemente due fra gli infiniti possibili modi di organizzare
l'esistenza e la convivenza sociale in base alla definizione di concetti quali giusto e sbagliato,
normale e anormale, morale e immorale, ma anche, come vedremo in questo specifico caso, in
base al concetto di casa, di spazio pubblico e spazio privato, o di famiglia.
L‟incontro etnografico assume un ruolo fondamentale, in quanto «la lente antropologica ci
insegna a dubitare di ciò che riteniamo indubitabile. L’etnografia ci insegna che la
potenzialità umana fornisce mezzi alternativi per organizzare la vita e modi alternativi di
esperire il mondo. Le letture etnografiche ci educano a mettere in dubbio i principi invalsi e
ci rendono disponibili al cambiamento»
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.
2
I. Karp, , in E. Schultz e R. Lavenda, Antropologia Culturale, 1999, Zanichelli, Bologna, p.26.
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2. LA RICERCA ETNOGRAFICA
2.1 Sezione metodologica
L‟inizio della ricerca etnografica per l‟elaborazione di questa tesi non è stato semplice.
Senza soffermarmi sulla descrizione di inutili dettagli, accenno solo al fatto che ho dovuto
contattare diverse persone, e più di una volta senza successo, prima di poter iniziare le
interviste. Quello che può sembrare come un aspetto tecnico abbastanza irrilevante credo
invece sia un dato sintomatico del rapporto esistente fra rom e non-rom.
La prima persona alla quale mi sono rivolto è stata Sergio Frigo, capo servizio a Il Gazzettino,
dove si occupa di cultura nella redazione centrale, fondatore della rivista di relazioni
interculturali Cittadini dappertutto, con la quale ha vinto il premio “Nevio Furegon” per il
giornalismo sociale, ed esperto di immigrazione e interculturalità. Ha scritto inoltre il libro
Noi e loro dedicato all‟identità del Nordest tra emigrazione e immigrazione. Da Frigo ho
ricevuto suggerimenti per ulteriori contatti, fra i quali quello di Stefania Bragato, ricercatrice
COSES dal 1992 e responsabile dell'Osservatorio Studi sull'Immigrazione della Provincia di
Venezia (Osiv). Stefania Bragato si occupa del fenomeno dell'immigrazione in Veneto,
ponendo particolare attenzione alle questioni relative al problema abitativo e all'inserimento
nei mercati del lavoro locali.
Durante queste ricerche preliminari avevo la netta sensazione, nel cercare appunto di ottenere
la possibilità di un colloquio con persone di etnia rom, di dover scavalcare un muro, di voler
accedere a un mondo non così facilmente accessibile come forse avevo immaginato.
D‟altronde uno degli obiettivi della tesi era proprio quello di riflettere circa la natura e i
motivi della distanza culturale ed ideologica che separa i rom dai membri della cosiddetta
società maggioritaria.
La svolta, devo dire, è arrivata dopo aver contattato il Professor Gianfranco Bonesso,
responsabile del Servizio Immigrazione del Comune di Venezia e docente all‟Università Cà
Foscari di Venezia. Grazie al suo aiuto sono entrato in contatto con Oleg Josanu, referente del
Servizio Immigrazione e Promozione dei Diritti di Cittadinanza presso lo Sportello di
sostegno delle Associazioni di immigrati di Mestre, e con Fabio Tesser, operatore della
Cooperativa sociale Servire a Treviso e conduttore di percorsi di ricerca in alcuni comuni del
trevigiano e del veneziano con cittadini italiani e stranieri per lo sviluppo di percorsi di
comunità.
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Oleg Josanu mi ha fornito il recapito telefonico di Loris Levak, rom, presidente
dell‟Associazione rom Kalderash di Marghera, accennandogli già la richiesta da parte di un
laureando di intervistarlo. Dopo aver contattato personalmente il Signor Levak tre diverse
volte senza riuscire a fissare un appuntamento, per motivi di impegni da parte sua o, in un
caso, per uno sciopero dei mezzi pubblici, alla quarta telefonata ci siamo accordati per il
giorno lunedì 14 giugno 2010. Devo dire che non mi sono sentito del tutto a mio agio nel
telefonare più volte a distanza di pochi giorni a un presidente di un‟Associazione rom per
disturbarlo con la mia richiesta di un incontro. Mi avvicinavo inoltre per la prima volta a una
persona di questa cultura e non sapevo bene se avessi dovuto accostarmi in una particolare
maniera, magari al fine di evitare incomprensioni o fraintendimenti nel trattare determinati
temi.
Il fatto che Oleg Josanu avesse preliminarmente spiegato al mio futuro interlocutore quale
fosse lo scopo dell‟incontro mi è stato molto d‟aiuto. Una volta decisi giorno e ora, mi sono
recato presso il luogo stabilito, la fermata dell‟autobus “Catene” a Marghera, davanti alla
parrocchia Madonna della Salute. Dopo pochi minuti è venuto a prendermi Levak: il clima è
divenuto subito assolutamente confidenziale e sciolto. Fatte le presentazioni e dopo averlo
ringraziato per il tempo che mi concedeva ci siamo diretti verso casa sua, a pochi passi da lì,
parlando un po‟ in generale di argomenti come l‟ambito universitario e il mondo lavorativo .
L‟intervista è durata più di trenta minuti e c‟era assoluta disponibilità ad affrontare qualunque
argomento, anche riguardante la cultura rom stessa; c‟era la voglia di farmi conoscere
specifici aspetti culturali, o di espormi la propria opinione, in quanto rom, in merito a
particolari dinamiche sociali o politiche. La mia iniziale esitazione nell‟introdurmi in un
contesto per me nuovo e “altro” rispetto al nostro, con l‟intenzione da parte mia di prendere
senza dare nulla in cambio, è venuta subito meno. Questo grazie a un‟inaspettata apertura nei
miei confronti e a un‟interazione che è essa stessa, oltre ai dati più formalizzati contenuti nelle
risposte, motivo di riflessione, dato etnografico.
Fabio Tesser mi ha invece messo in contatto con gli operatori della Cooperativa Sociale
Servire, la quale si occupa, fra le altre cose, del Progetto Nomadi nel territorio trevigiano.
Grazie a loro ho potuto intervistare due rom residenti a Ponzano (TV).
In questa occasione nell‟instaurare il contatto con gli informatori sono stato accompagnato
dagli operatori che conoscevano il contesto e le persone. Anche in questo caso agli intervistati
era stata precedentemente chiarita la natura dell‟intervista, ovviamente anche per valutarne la
disponibilità o meno. Un mese esatto dopo la prima intervista sono giunto nella sede della
Cooperativa nel centro di Treviso, dove ero già stato per conoscere gli operatori e per
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illustrare di persona il lavoro, ci siamo poi spostati con un furgoncino nella vicina Ponzano.
Qui risiedono tre famiglie rom, che ho scoperto poi essere imparentate con Loris Levak. Il
discorso fatto per la prima intervista, riguardante l‟ospitalità e la sincera volontà di farmi
conoscere le loro idee, è applicabile anche a questa seconda occasione. Inserito agevolmente
nel contesto privato della casa e della famiglia, il primo colloquio non è stato altro che un
aperto scambio di opinioni, una conversazione con più interlocutori.
Per la seconda intervista mancava invece l‟altro capofamiglia al quale era stata chiesta
disponibilità. Sì è trovata allora sul momento un‟altra persona che ha acconsentito, direi
volentieri, a concedermi parte del suo tempo. Terminate le interviste ho passato il resto del
pomeriggio osservando, e aiutando a mia volta, gli operatori sociali mentre seguivano due
bambine nello svolgimento dei compiti scolastici. Uno dei principali ambiti sui quali la
Cooperativa realizza il proprio intervento è infatti proprio quello della scolarizzazione e
dell‟inserimento scolastico dei bambini e dei ragazzi.
Mercoledì 4 agosto sono tornato a Treviso per intervistare gli operatori sociali. Ne è nata
un‟intervista densa e molto interessante, nella quale si intrecciavano diversi temi, e che al
contempo toccava tasti piuttosto delicati, sia da un punto di vista sociale che politico. Mi è
stato successivamente chiesto di non trascrivere il contenuto dell‟intervista, consentendomi
però di utilizzarne considerazioni e spunti di riflessione nell‟elaborazione di questa tesi.
Nel cercare di ottenere i contatti giusti che mi permettessero di iniziare il lavoro, uno dei
problemi principali era spiegare il motivo del mio forte interesse nell‟intervistare persone
rom, vista anche la delicatezza del tema e le sue implicazioni politico-culturali. Giustificando
di volta in volta il motivo stesso del mio lavoro, chiarendone dunque gli scopi, gli obiettivi e
gli aspetti che intendevo indagare attraverso le interviste, ho riflettuto ulteriormente su un
punto di partenza cruciale con il quale bisogna necessariamente confrontarsi nella
preparazione iniziale di una ricerca etnografica: la cosiddetta “identificazione del problema”
3
,
della quale parlo nel prossimo paragrafo.
Una piccola premessa prima di descrivere questo gruppo: dal momento che quello che mi
interessava era, semplificando, sapere cosa loro pensano di noi gagé
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, le loro opinioni nei
nostri confronti, ho sempre presentato la mia intervista in questo senso. Al momento di
richiedere disponibilità per gli incontri esplicitavo il fatto che non avrei richiesto da parte loro
descrizioni sulla propria cultura, sul proprio modo di vivere, e tantomeno informazioni
3
C. Bianco, Dall’evento al documento, CISU, Roma, 1994, pp. 53 - 61.
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Termine della lingua romanes utilizzato dalle persone di etnia rom per indicare coloro che non appartengono
all‟etnia (s. m.= gagiò; s. f.= gagí; pl. m. e f.= gagé).
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riguardanti il loro passato, la storia della loro famiglia o questioni interne al gruppo. Riuscire
a procurarmi l‟occasione di un‟intervista con dei rom non è stata un‟operazione
eccessivamente semplice, e una volta che venivo introdotto all‟interno del contesto dovevo
ovviamente attenermi a quell‟impostazione del colloquio che avevo chiarito fin da principio:
“Non voglio indagare su di loro, ma mi interesserebbe sapere cosa i rom pensano dei gagé,
vero oggetto della ricerca”. Non mi sembrava quindi opportuno includere nell‟intervista
domande riguardanti l‟età e lo specifico gruppo etnico dell‟interlocutore, il credo religioso, il
numero di componenti della famiglia, la nazionalità e altri argomenti per così dire “privati”.
Nonostante mi renda ben conto di come simili dati sarebbero stati necessari a contestualizzare
l‟intervista e quindi i contenuti che da questa sono emersi, la relativa delicatezza del contesto
( uno studente gagiò mai visto prima ospitato in casa propria e al quale viene concessa parte
del proprio tempo ) mi ha consigliato di non formulare esplicite domande in questo senso. Al
tempo stesso alcuni di questi elementi sono comunque emersi durante quella che è poi
diventata una conversazione aperta e abbastanza libera: ho potuto per esempio conoscere, fra
le altre cose, il mestiere dell‟intervistato, il numero e il sesso dei figli e alcuni aspetti del
rapporto con loro come genitore, o ancora se fosse o meno sposato. Ulteriori aspetti ho potuto
invece osservarli di persona, in primis un‟accoglienza e un‟ospitalità le quali, pensando a
come avverrebbero le cose a contesto invertito, non sono da dare troppo per scontate.
Inizialmente l‟intervista veniva percepita come un qualcosa di non chiarissimo, c‟era assoluta
disponibilità nei miei confronti, ma lo scopo dell‟incontro non risultava forse del tutto
limpido. Prima di iniziare il colloquio mi venivano poste domande del tipo: «Allora, cos‟è che
vorresti sapere?». O: «Dimmi, come posso aiutarti?». Come detto, una volta posta la prima
domanda il clima diveniva subito di assoluta interazione e il contesto dell‟intervista, quindi il
registratore acceso sul tavolo, il foglio con le varie domande e il mio scribacchiare appunti,
“scompariva”.
Durante le intervisite, durate all‟incirca trenta, quaranta minuti al massimo, ho sempre avuto
la netta impressione di essere coinvolto in una conversazione molto libera, uno scambio di
idee ed opinioni inseriti in un‟atmosfera per così dire semplice e quasi confidenziale. In tutti i
casi l‟incontro si è svolto all‟interno delle abitazioni di queste persone, due delle quali
capifamiglia, a Marghera e a Ponzano, in Provincia di Treviso. Durante la prima intervista,
quella a Loris Levak, nella sua casa di Marghera, erano presenti alcuni familiari, tre donne e
un bambino, rimasti per tutta la durata del colloquio in un‟altra stanza. A Ponzano invece,
recatomi presso tre case collocate su un terreno agricolo, costruite e pagate dalle famiglie che
ora vi risiedono, i colloqui sono avvenuti in presenza anche delle rispettive mogli e figli