12
Oltre a ciò, mi sono proposta di indagare la percezione che le operatrici hanno delle
difficoltà lavorative, a livello personale, considerato il carico emotivo comportato dalla
natura della professione. In particolare, mi sono interrogata sulle ripercussioni che
potevano esserci sulla vita privata di una donna che vede e sente quotidianamente storie
di violenza degli uomini sulle donne.
Da queste considerazioni sono derivati gli obiettivi del presente lavoro di ricerca. Come
si vedrà a breve, ne è emersa una moltitudine di opinioni, rappresentazioni, universi
differenti tra loro, in alcuni casi anche contraddizioni e discordie.
13
PARTE PRIMA: I presupposti teorici
15
1. La violenza domestica contro le donne
1.1. La portata del fenomeno
La violenza contro le donne è una piaga globale che continua a uccidere,
torturare e mutilare, sia fisicamente che psicologicamente, sessualmente
ed economicamente. E’ una delle violazioni dei diritti umani più diffuse,
che nega il diritto delle donne all’uguaglianza, alla sicurezza, alla dignità,
all’autostima, e il loro diritto di godere delle loro libertà fondamentali1
(UNICEF, 2000).
Dati da molte ricerche indicano una elevata incidenza di violenza domestica contro le
donne in molti Paesi del mondo. Negli Stati occidentali si può stimare che circa il 25%
delle donne abbia subito violenza nella relazione di coppia almeno una volta nel corso
della vita (Gracia, 2004).
I dati in fig. 1, i quali tentano di sintetizzare una ricerca su scala mondiale condotta per
iniziativa dell’UNICEF (2000), indicano le percentuali medie di donne (su un campione
di donne intervistate nella ricerca in questione) che dichiarano di aver subito violenza
all’interno della famiglia. Essi mostrano come la violenza domestica ricorra con una
frequenza inimmaginabile, non solo nei Paesi ritenuti in via di sviluppo, ma anche in
quelli industrializzati, quali Canada, Regno Unito, Giappone, Svizzera, Stati Uniti etc.
(UNICEF, 2000); la ricerca, inoltre, è stata condotta consultando non solo le donne, ma
anche uomini che in larga misura hanno ammesso di aver maltrattato la propria partner.
1UNICEF, (2000); “La violenza domestica contro le donne e le bambine”, in “Innocenti Digest”, n. 6,
Giugno; p. 2.
16
Violenza domestica contro le donne
30% 29% 33%
38%
31%
25%
0%
5%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
40%
Pa
es
i
in
du
st
ri
al
iz
za
ti
As
ia
e
P
ac
if
ic
o
Me
di
o
Or
ie
nt
e
Af
ri
ca
Am
er
ic
a
La
ti
na
e
C
ar
ab
i
Eu
ro
pa
O
ri
en
ta
le
Fig. 1. Fonte: liberamente tratto da “La violenza domestica contro le donne e le bambine”, UNICEF,
2000.
Per citare altre cifre: si stima che nel mondo le donne che hanno subito maltrattamento
fisico nel corso della vita siano tra il 20 e il 50 per cento (Krantz, 2002). Sia l’UNICEF
sia l’OMS ritengono che non si possa parlare di un problema “privato”, bensì di una
reale questione di salute pubblica, data la forte incidenza sulle malattie e le ferite
riportate dalle donne, nonché la notevole percentuale di responsabilità su altri generi di
problematiche (Krantz, 2002). La violenza domestica è la principale causa di lesioni
fisiche per le donne tra i 15 e i 44 anni di età, più degli incidenti d’auto e le rapine messi
insieme; il maltrattamento durante la gravidanza è la principale causa di anomalie
prenatali e mortalità infantile (Gelles, 1995).
Per questi motivi, da alcuni anni l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 1997)
ha cominciato a lanciare l'allarme sulla violenza come fattore eziologico e di rischio in
una serie di patologie di forte rilevanza per la popolazione femminile. In particolare
sono stati condotti studi, oltre che sulle patologie ginecologiche, anche sulle patologie
gastroenterologiche, sulle patologie mentali ed in particolare sulla depressione, sui
17
disturbi alimentari (anoressia, bulimia) e sui disturbi d'ansia. Molti di questi studi hanno
evidenziato in donne che hanno subito episodi di violenza, sia nell’intero corso di vita
che negli ultimi anni, una connessione con una o più delle patologie menzionate.
Da una ricerca della World Health Organization (1997), le conseguenze sulla salute
delle donne vittime di violenza fanno riferimento a:
Lesioni (ferite, fratture, lacerazioni, danni agli organi interni)
Disabilità permanenti o temporanee
Gravidanze indesiderate
Problemi di natura ginecologica: infiammazione di ovaie o utero, infezioni
urinarie o vaginali, dolori mestruali, dolori pelvici, irregolarità nel ciclo
mestruale
Malattie a trasmissione sessuale (compreso HIV)
Emicrania cronica, dolori alla schiena
Disturbi gastrointestinali
Disturbi cardiovascolari (ipertensione, attacchi cardiaci)
Asma
Comportamenti a rischio per la salute (fumo, abuso di alcolici, rapporti sessuali
non protetti)
Una particolare attenzione è stata data dall'OMS alle patologie mentali ed alla
depressione, di cui le donne soffrono da due a tre volte più degli uomini. Su questo
terreno il legame tra condizioni di salute e violenza è ancora più forte: la violenza
fisica, sessuale o psicologica è spesso accompagnata da disturbi della sfera psicologica
e/o emozionale (Tjaden e Thoennes, 2000).
Questa rilevazione ha portato erroneamente a credere, in passato, che le situazioni di
violenza fossero in qualche modo causate dai disturbi stessi, già presenti nelle donne;
tale ipotesi è stata però smentita dalla realtà dei fatti, considerato che nella stragrande
maggioranza dei casi la violenza era antecedente il disagio psichico (Heise, Garcia-
Moreno, 2002). I problemi psichici e le patologie che secondo l'OMS (World Health
Organization, 1998) sono da considerare in relazione con le situazioni di violenza sia
fisica che sessuale e psicologica sono:
18
Depressione
Tentativi di suicidio
Paura, sentimenti di vergogna e sensi di colpa
Ansia, attacchi di panico
Bassa autostima
Disturbi sessuali
Disturbi dell’alimentazione
Disturbo ossessivo-compulsivo
Disturbo post traumatico da stress
Abuso di farmaci, alcolici e/o stupefacenti
Si stima, inoltre, che il 10% delle vittime di violenza domestica tenti il suicidio. Per le
donne vittime di violenza domestica i tentativi di suicidio sono 5 volte più frequenti
rispetto alle donne non maltrattate (Stark, Flitcraft, 1983).
I dati sull’incidenza mostrano solo limitatamente quanto sia esteso il problema nel
mondo. L’aspetto del fenomeno che riceve meno attenzione è costituito dal fatto che la
maggior parte dei casi di violenza non è segnalata; si tratta quindi di un fenomeno di cui
possiamo solo stimare la portata, e che per gran parte rimane sommerso. A riprova di
questo possiamo citare la forte discrepanza tra i dati dei centri antiviolenza e il numero
di denunce riportate sullo stesso territorio (Gracia, 2004): ad esempio, per quanto
riguarda il fenomeno il Italia, nel 1995 sui territori di Milano e Bologna il numero di
donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza delle zone interessate era di quattro
volte superiore al numero delle denunce sporte per maltrattamenti. Tra le donne che si
sono rivolte ai centri, dunque, solo una piccola parte ha intrapreso anche il percorso
giudiziario; d’altra parte, si può ritenere con buona probabilità che solo un numero
limitato delle donne che hanno sporto denuncia si siano rivolte a centri o servizi del
territorio: pertanto, non si tratta di percentuali sovrapponibili o sommabili. Da questi
elementi si può facilmente capire come sia conosciuta esclusivamente la “punta
dell’iceberg” del fenomeno, stimato ben più grave di quello che appare (Barbagli,
1997).
Si è spesso cercato di comprendere per quale motivo le donne che subiscono violenza
domestica in moltissimi casi non lo segnalano e non cercano aiuto. Alcuni studi hanno
19
ipotizzato alcune spiegazioni: le ragioni sono spesso di natura personale (imbarazzo,
paura di ritorsioni, dipendenza economica) e sociale (società in cui le relazioni di potere
tra i sessi sono sbilanciate a favore del genere maschile, tentativi di proteggere la
privacy della famiglia, tendenza a colpevolizzare la vittima, etc.).
Tuttavia, sarebbe anche interessante sapere per quali motivazioni i casi “sommersi” non
vengano visti, oppure vengano sottaciuti, dal contesto sociale che circonda le vittime
(amici, famiglie, vicini, servizi sociali, operatori dei servizi pubblici per la salute, etc.):
si tratta di ignoranza del fenomeno, o esiste una sorta di silenzio e inibizione sociale?
Nel secondo caso, ci troviamo di fronte ad un ambiente che tutela l’aggressore, facendo
in modo che i crimini rimangano nascosti; non solo, esiste anche tutta una seria di
pregiudizi e stereotipi nei confronti delle donne che denunciano o lasciano il partner a
causa della violenza. Il sentimento di vergogna e il carattere privato di questa forma non
riguardano solo le donne straniere (e pertanto carenti di risorse informali per affrontare
praticamente ed emotivamente un eventuale distacco) ma anche donne autoctone, le
quali si trovano a sopportare una situazione dalla quale hanno poche speranze di uscire.
Tutto questo non fa altro che accrescere il fenomeno, che è ampiamente diffuso in tutto
il mondo, nonostante la maggior parte delle società consideri deprecabile la violenza
sulle donne.
Restringendo il focus dell’attenzione sulla violenza sessuale in particolare, tra il 10 e il
15 per cento delle donne riferisce di essere stata costretta almeno una volta nella vita a
rapporti sessuali con il partner contro la sua volontà; questa spesso non viene
considerata una forma di violenza, perché avviene all’interno della relazione coniugale,
anche se negli ultimi anni molti Paesi hanno iniziato a legiferare per punire il reato di
stupro coniugale (Krantz, 2002).
Inquadrando il fenomeno nel contesto italiano, da una ricerca svolta dall’Istat (2004) nel
2002, risulta che tra le violenze sessuali subite dalle donne negli ultimi 3 anni, ben il
43% sono avvenute da parte del proprio coniuge o ex coniuge, e il 17% da parte del
fidanzato o ex fidanzato (fig. 2). Viene così sfatata la credenza che le violenze
avvengano soprattutto da parte di estranei o persone con patologie mentali: gli
aggressori hanno un volto conosciuto dalle vittime. Questo sposta il focus
dell’attenzione da una questione di criminalità ad un problema di modelli relazionali
disfunzionali, soprattutto all’interno della famiglia.
20
Fig. 2. Fonte: liberamente tratto da: “Statistiche in breve: Molestie e violenze sessuali”, Istat, 17
dicembre 2004.
1.2. Definire la violenza
La violenza viene considerata in maniera differente a seconda dei contesti culturali. In
un dizionario della lingua italiana, questa è la definizione che viene data, in termini
generali, della parola “violenza”: “L’essere violento, ossia ricorrere alla forza per
imporre la propria volontà a danno di altri; (…) azione aggressiva, sopraffattrice,
esercitata con mezzi fisici o psicologici2” (Garzanti, 2004). Si tratta di un fenomeno che
possiede infinite forme di espressione, varianti, e diversi livelli di gravità; un termine
connotato negativamente, ma non sempre.
Come sostiene Andreoli (2003), la parola violenza, di origine romana, contiene la radice
vis che significa forza. La violenza fisica ha bisogno di forza fisica e per questo è
2
A.A. v.v., (2004); “Garzanti: Dizionario Italiano”, Garzanti linguistica, Milano; p. 2711.
Percentuale stupri, per autore del fatto
2%
1%
4%
28%
17%
43%
5%
Estraneo
conoscente
collega di lavoro
amico
fidanzato/ ex fidanzato
coniuge/ ex coniuge
parente
21
sinonimo di furia, impetuosità. Successivamente è stata adoperata anche per esprimere
una forza psichica: vi può essere una violenza dalle belle maniere.
A seconda dello scopo della violenza stessa e della cultura dominante, si può dare
un’accezione legittima all’azione. Sono esempi storici quelli delle guerre, in nome della
patria, della politica, di dogmi religiosi (lotte contro le eresie, le “streghe”, gli
“infedeli”, etc.): i combattenti per queste cause non erano solitamente considerati
violenti, bensì eroi. Oppure basta pensare alla pratica delle punizioni corporali, diffusa
in molte culture e considerata una forma di “purificazione” dal male e dalle tentazioni
fisiche:
“A che servono pedagoghi e maestri, a che servono fruste, sferze e bastoni o quella
disciplina che, secondo la Sacra Scrittura, deve far colpire i fianchi del figlio amato,
perché non cresca incorreggibile e quando è già incallito sia difficile e fors’anche
impossibile correggerlo? Perché mai si ricorre a queste punizioni se non per
sconfiggere l’ignoranza e mettere un freno all’egoismo sfrenato con cui noi veniamo al
mondo?3” (Sant’Agostino).
O, ancora, alle punizioni pedagogiche, considerate per lungo tempo strumento di
formazione; per un genitore picchiare il proprio figlio era considerato, più che un diritto,
un vero e proprio dovere: non farlo voleva dire disinteresse! Introdotta la pedagogia
come forma di gioco e non più come sacrificio, queste forme di punizione sono
diventate violenza.
E’ diversa la violenza a seconda che la si valuti dagli effetti che produce (un oggetto
distrutto o una persona ferita o uccisa), oppure dall’intenzionalità del gesto. In questo
secondo caso, qual è il criterio per distinguere le intenzioni? Inoltre, qual è la
differenziazione tra violenza offensiva o difensiva? E per quale motivo le medesime
azioni violente compiute da un adulto hanno una valenza differente da quelle compiute
da un bambino?
Allo scopo di tentare una definizione, Eric Fromm (1979) distingue l’aggressività
biologicamente adattiva, o benigna, dalla distruttività umana, o violenza. La prima è
3
Sant’Agostino (1990); “De Civitate Dei”, trad. Luigi Alici, Rusconi, Milano; XXII, 2.
22
comune a tutti gli animali: è l’impulso programmato filogeneticamente ad attaccare (o
fuggire) quando sono minacciati interessi vitali. La seconda è propria della specie
umana, non è programmata filogeneticamente e non è biologicamente adattiva, non ha
alcuno scopo e se soddisfatta procura voluttà.
Le motivazioni all’aggressività possono essere svariate, ma tutte riconducibili alla lotta
per la sopravvivenza nel senso darwiniano del termine. Vale a dire, un essere vivente
agisce violenza nel momento in cui rischia di perdere risorse (cibo, acqua, partner
sessuale) necessarie alla sua vita, o alla sopravvivenza dei suoi geni; oppure quando
avverte un pericolo, o quando si tratta di stabilire una gerarchia all’interno del gruppo
dei suoi simili. In ciascuno di questi casi, tuttavia, la lotta avviene in maniera tale da
nuocere ai contendenti solo se necessario, poiché in natura gran parte di tali
combattimenti è ritualizzata ed assume una forma simbolica, in modo tale che, nel
momento in cui il nemico è sottomesso, la lotta abbia fine.
Nella razza umana, invece, esiste anche la violenza fine a se stessa, originata non da un
istinto di sopravvivenza (da paura, fame o altro), ma da una sorta di gusto per la
violenza, la quale provoca soddisfazione intrinseca. Molte sono le testimonianze che
esiste una sorta di estetica del violento: ad esempio, nelle arti, nel cinema, nei
videogiochi, nello spettacolo in generale, la violenza costituisce una tematica
importante, tanto più perché chi produce questo materiale si sforza di renderlo in
maniera quanto più efficace possibile; una “bella” violenza, una “bella” morte. Questa è
una delle componenti culturali che contribuisce alla produzione di violenza: sebbene
non vi sia un legame di causa-effetto, chi sperimenta il gusto, l’estetica dell’orrido,
ossia chi assiste a violenza rappresentata, ha maggiori probabilità di produrre una
violenza “agita” (Andreoli, 2003).
Ancora, anche altri elementi culturali possono fare la differenza; si può notare come nel
mondo vi siano alcune popolazioni più violente di altre. Gli eschimesi, insediatisi nelle
regioni artiche da ormai cinquemila anni, non hanno mai combattuto una guerra e mai,
all’interno del singolo villaggio, hanno usato la forza per risolvere i conflitti. Al
contrario, Chagnon (1968) ha vissuto per venticinque anni presso una popolazione della
foresta amazzonica, gli Yanomamo, e dalla descrizione che ne ha dato non è difficile
comprendere che si tratta di un gruppo con un altissimo tasso di violenza, forse il più
elevato nel mondo. Il trenta per cento degli uomini che hanno superato i venticinque
23
anni ha già compiuto un omicidio; il quaranta per cento delle morti sono provocate. La
violenza è un elemento di successo: i maschi violenti hanno un numero di mogli due
volte e mezzo superiore rispetto a chi non ha ucciso e triplicano il numero dei figli. Le
donne scelgono i maschi più violenti e i padri li preferiscono come mariti per le figlie.
Il comportamento violento ha, dunque, un forte sostegno sociale. In questa società non
esistono punizioni per gli omicidi.
Non solo, dunque, esistono tante violenze, ma la loro percezione varia a seconda delle
differenti epoche storiche, delle diverse culture e nei diversi individui (Andreoli, 2003).
1.2.1. La violenza domestica
La violenza all’interno della famiglia è la più diffusa,
la più nascosta, trasversale a tutte le classi sociali,
e dove la donna è più sola4
(Gruppo di lavoro e ricerca sulla violenza alle donne, 1990).
Al termine "violenza domestica" vengono attribuiti diversi significati; in termini
generali, ci si riferisce ad atti di violenza perpetrati all’interno della famiglia. Il
significato più utilizzato concerne la violenza fisica compiuta verso una donna da parte
del partner, anche detta "maltrattamenti" o "percosse" nei confronti della moglie. La
violenza fisica è spesso accompagnata da maltrattamenti emotivi o psicologici e da
violenza sessuale. In particolar modo, il focus del presente lavoro è la violenza nella
relazione di coppia.
Si tratta della forma di violenza domestica più diffusa nel mondo. Secondo una ricerca
cross-culturale di Levinson (1989), essa ricorre nell’84.6% delle società del campione in
esame, mentre nel 46.6% delle società tale violenza è talmente grave da uccidere o
provocare danni permanenti alle donne.
Non si tratta di un fenomeno unidimensionale; da un’indagine sulle credenze delle
popolazioni esaminate, Levinson (1989) individua almeno tre tipologie principali di
4
Gruppo di lavoro e ricerca sulla violenza alle donne (1990); “La nostra storia”, in “Noi e le altre”,
luglio, p. 8.
24
maltrattamento coniugale, classificate in base alla motivazione che spinge l’uomo a
picchiare la compagna:
1) Violenza per gelosia. In 17 società gli individui intervistati pensano che il
maltrattamento coniugale ricorra come forma di punizione per l’adulterio, o
perché il marito sospetta di essere stato tradito. Può essere categorizzata come
gelosia sessuale, in quanto in questi casi la violenza ricorre come reazione
all’infedeltà (reale o presunta).
2) Violenza per una “buona ragione”. In 15 delle società esaminate le persone
sostengono che se un uomo picchia la propria moglie, lo farà solo se ha un
valido motivo. Quale possa essere definita una “buona ragione” è oggetto di
variazioni culturali quando non di libero arbitrio; solitamente, si tratta
dell’incapacità della donna ad adempiere ai suoi doveri, oppure nel trattare il
marito con il dovuto “rispetto”.
3) Violenza per “volontà”. In 39 delle società in esame, gli individui ritengono
che sia diritto di un uomo picchiare la compagna, che vi sia una ragione oppure
no (Levinson, 1989).
“I contadini ritengono, a così anche le mogli, che questo sia il diritto del marito
come capofamiglia. Se la moglie commette qualcosa di sbagliato e il marito non
le da una buona bastonata, lei inizia a disprezzarlo, lo considera un debole e
cerca di rubargli il suo ruolo nella famiglia… Secondo l’opinione del villaggio,
il marito è il capo assoluto della casa, ha il compito di controllare che venga
mantenuto l’ordine, ha il diritto di punire i membri della famiglia quando
commettono qualcosa di molto sbagliato5” (Erlich, 1966).
A questo punto focalizzerei l’attenzione sul concetto di violenza sulle donne. Questo
concetto, come precedentemente accennato, supera la rappresentazione comunemente
intesa di “botte”, poiché dal punto di vista legale si parla di maltrattamento
ogniqualvolta vi siano “atti lesivi dell’integrità fisica o psichica o della libertà o del
5
Erlich, V. S. (1966); “Family in Transition: A Study of 300 Yugoslav Villages”. Princeton; Princeton
University Press; p. 270.
25
decoro della vittima, nei confronti della quale viene posta in atto una condotta di
sopraffazione sistematica o programmatica” (art. 572 c. p.).
1.2.2. Tipi di violenza
Come già accennato, molte sono le forme e le percezioni della violenza.
Da questo momento in avanti, oggetto peculiare della discussione sarò la violenza nel
rapporto di coppia, detta anche violenza da partner; in questo particolare ambito,
sebbene la tipologia più nota comunemente sia la violenza fisica, ve ne sono anche altre.
Violenza fisica. Con questo termine si intende non solo un’aggressione fisica grave, ma
ogni contatto fisico che mira a spaventare e controllare. Dunque picchiare con o senza
l’uso di oggetti, ma anche spintonare, tirare i capelli, dare schiaffi, pugni, calci,
strangolare, ustionare, ferire con un coltello, torturare, urlare, etc.
Oggi anche la violenza assistita è considerata una forma di violenza fisica diretta, come
spiegheremo meglio in seguito (Bruno, 1998; Ponzio, 2004).
“Mio marito mi picchiava regolarmente quasi ogni giorno6” (Ventimiglia, 1996).
“Minacce; ‘stai attenta che te le do, arrivano dei pugni, degli schiaffi’. Lui si
arrabbiava fino al punto che spaccava le porte, urlava, sembrava fuori di sé7”
(Ventimiglia, 1996).
Violenza psicologica. Una persona compie violenza psicologica verso un’altra quando
la minaccia, insulta verbalmente, ricatta; può consistere nell’infliggere umiliazioni
pubbliche o private, controllare le scelte individuali e le relazioni sociali fino al
completo isolamento, ridicolizzare e svalutare continuamente, fare violenza contro
animali domestici o oggetti personali di valore affettivo per la vittima, mettere la partner
in cattiva luce agli occhi dei figli.
6
Ventimiglia, C. (1996); “Nelle segrete stanze: violenza alle donne tra silenzi e testimonianze”, Franco
Angeli, Milano; p. 207.
7
Ventimiglia, C., op. cit.; p. 212.
26
“Ormai a casa era una follia a tre. Mio figlio era lo strumento di questo somaro [il
marito] che lo sfruttava. Con mio marito non si poteva parlare perché lui o mangiava, o
doveva mangiare o dormiva. Lui faceva in modo che suo figlio dalla camera pensasse
‘povero papà’, la vittima. E mio figlio diceva ‘mamma lascia stare papà’ 8”
(Ventimiglia, 1996).
Anche la deprivazione affettiva può essere una forma di violenza psicologica; le
conseguenze che comporta sono infatti simili. È la tipologia più difficile da riconoscere,
soprattutto da parte della vittima.
Una tipologia di violenza psicologica è quella definita effrazione (Hirigoyen, 2000).
Con questo termine si intende l’alterazione delle percezioni della vittima in funzione del
maltrattante. L’intenzione dell’aggressore di sopraffare la donna mediante strategie
umilianti e dolorose di potere e di controllo provoca un’effrazione psichica nella
vittima, ossia la indebolisce, impoverendola in modo molto grave ma funzionale al
protrarsi dell’abuso. Tali strategie vengono attuate usando la paura, il terrore,
l’isolamento, portando la vittima ad una sensazione di disorientamento e perdita dei
propri “confini”. A causa dell’effrazione psichica, ciò che un soggetto percepisce, sente
e pensa è legato ad un altro; questo pensiero altrui acquisisce “densità” psichica,
ostacolando il vero percorso del pensiero proprio (Hirigoyen, 2000).
Violenza sessuale. La violenza sessuale perpetrata all’interno di una relazione affettiva
è ben più costosa e meno riconosciuta. Essa infatti viene spesso confusa e camuffata
dalle rappresentazioni di “doveri coniugali”, di “prova della virilità”, di “diritto
dell’uomo”. Costringere una donna ad avere rapporti anche quando lei non lo desidera,
o è stanca, o ha appena partorito, sono tutti aspetti della violenza sessuale. Ancora, è
perpetratore di forme diverse di violenza sessuale colui che fa telefonate oscene, obbliga
a prendere parte alla visione o costruzione di materiale pornografico, o è responsabile di
incesto, impone gravidanze o pratiche sessuali umilianti o dolorose, o costringe alla
prostituzione (Bruno, 1998).
8
Ventimiglia, C., op. cit.; p. 219.