INTRODUZIONE Nel nostro continente lo sfruttamento delle foreste è stato praticato da sempre in modo intenso in quanto i boschi hanno sempre costituito una risorsa estremamente preziosa sia a livello domestico che commerciale.
Il fatto che in Europa non esistano praticamente più foreste vergini e che quelle esistenti sono spesso piuttosto lontane dalla forma e composizione specifica naturale, la dice lunga su come, almeno fino a qualche decennio fa, la selvicoltura fosse praticata a pari livello con la sorella agricoltura.
Il secolo scorso ha visto il nascere di sentimenti ambientalisti che ponevano come fondamentale le problematiche legate alla conservazione della natura in genere e della biodiversità in particolare. La riduzione del territorio forestale per far posto ai terreni agricoli ed allo sviluppo urbanistico e industriale, ma, ancor più, la semplificazione dei soprassuoli utilizzati, per questioni di praticità e di convenienza economica (causa della fragilità e dell’impoverimento biologico dei nostri boschi), sono questioni di grandissima attualità a cui i legislatori internazionali, nazionali e locali stanno rispondendo con leggi quadro di utilizzo razionale e, soprattutto,
attraverso la creazione di una rete sempre più vasta di aree protette.
Nei paesi tropicali la scoperta delle foreste come preziosa risorsa economica è stata effettuata in periodi molto più recenti. Fino a non molti decenni fa, le popolazioni indigene di quelle regioni vivevano in gran parte in condizioni di sostanziale equilibrio con l’ambiente, utilizzando la foresta in modo 1
pressoché completo ma in quantità legate alle sole necessità di autoconsumo. L’enorme quantità di biomassa legnosa conservata nelle foreste pluviali di Sud America, Africa e Sud Est Asiatico, unita ai bassissimi costi della manodopera locale rispetto a quella del Nord del mondo, hanno creato le condizioni adatte al realizzarsi di fenomeni di vera e propria speculazione o “utilizzazione di rapina”, ovvero di una pratica forestale dove “manca l’obiettivo della perpetuità della produzione, ossia non si pone il problema della rinnovazione del bosco” (Piussi, 1994).
Il pericolo di un irreversibile depauperamento degli ambienti naturali, è stata una concreta preoccupazione dell’intera comunità scientifica internazionale, data l’importanza che le foreste rivestono a livello planetario. L’impoverimento della biodiversità crea fenomeni di fragilità biologica e di scarsa capacità di adattamento a nuove condizioni ambientali, nonché situazioni in cui le possibilità di recupero della situazione originaria, mutate in seguito ad un disturbo intercorso, risultano particolarmente difficili. La drastica riduzione delle superfici boscate crea invece due principali fonti di preoccupazione: la diminuzione dello stock d’anidride
carbonica immagazzinata nel legno degli alberi con le ovvie ricadute sull’effetto serra, e il dissesto idrogeologico del territorio con conseguenze ancora più catastrofiche del normale al verificarsi di qualunque evento calamitoso.
Il vastissimo patrimonio naturale che ospitano molti paesi attualmente in via di sviluppo, offre loro un’importante occasione di riscatto economico tanto da giustificare comunque un utilizzo di queste risorse.
D’altra parte un utilizzo razionale e una lungimirante 2
e intelligente gestione delle risorse, sono la garanzia della creazione di un’economia il più possibile solida e duratura.
L’utilizzo razionale delle foreste non è però l’unico
obiettivo auspicabile nei fenomeni di sviluppo: la componente umana e sociale merita la stessa attenzione e un’ulteriore dose di rispetto.
Perché lo sviluppo di un paese sia reale, bisogna che le ricchezze conseguite nei processi produttivi vengano ripartiti fra tutti i cittadini nel modo più equo possibile e che lo sviluppo stesso riguardi non solo aspetti economici ma anche culturali e civili.
Lo scopo di questa tesi è quello di verificare in che modo lo sviluppo economico derivato dallo sfruttamento della risorsa forestale nel distretto di Kuala Balah nella Malaysia peninsulare, si riflette sull’ambiente
sociale e naturale.
I dati ottenuti saranno letti alla luce del concetto di sviluppo sostenibile e con l’approccio economistico seniano, così come meglio specificato successivamente.
Per avere un quadro il più esaustivo possibile della situazione analizzata, sono state condotte indagini su tre livelli: lo studio delle caratteristiche generali del paese ospite (ambiente, cultura, politica, ecc.),
le modalità di gestione forestali nella regione considerata (tecnica selvicolturale, quantità trattate, legislazione, ecc.) e lo studio delle condizioni socio-economiche e di benessere delle persone coinvolte direttamente nei processi lavorativi legati all’attività selvicolturale.
I primi due aspetti sono stati affrontati vivendo direttamente nel contesto esaminato e attraverso ricerche orali e bibliografiche. Per l’aspetto sociale mi sono invece avvalso d’indagini dirette e 3
contestuali attraverso colloqui informali e indagini statistiche per mezzo di questionari.
Tutti i dati raccolti sono stati riorganizzati, stesi e riletti in funzione dell’obiettivo prefissato e con la metodologia specificata nei prossimi capitoli.
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PRESUPPOSTI TEORICI E DOTTRINALI
IL CONCETTO DI SOSTENIBILITA’
Il concetto di sostenibilità proviene dalla
letteratura scientifica e naturalistica, e ha il
significato che intuitivamente ciascuno di noi
potrebbe suggerire. Si definisce, infatti, sostenibile
la gestione di una risorsa se, nota la sua capacità di
riproduzione, non si eccede nel suo sfruttamento oltre
una determinata soglia. In questo senso, gestione
sostenibile significa, per esempio, utilizzare il mare
per pescare rispettando il ciclo naturale di
riproduzione dei pesci e assicurando quindi, ad altri
o a noi stessi, la possibilità di continuare
quest’attività. Al contrario, quando l’uso di una
risorsa supera questa soglia, si va incontro a
importanti diminuzioni dello stock (cioè della
popolazione di pesci), con i danni, non solo
economici, che questo comporta.
In generale, il tema della sostenibilità è riferito
alle risorse naturali rinnovabili, quelle che hanno
capacità di riprodursi o rinnovarsi: la pesca e gli
alberi sono, ad esempio, risorse rinnovabili. Le
risorse che non hanno queste caratteristiche, come ad
esempio le risorse minerarie, sono invece definite
esauribili. Per le risorse esauribili, più che di
sostenibilità si può parlare di tempi e di condizioni
dello sfruttamento ottimale della risorsa. Va però
osservato che, come alcuni sottolineano, nel caso
delle risorse esauribili può esistere una relazione
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fra lo sfruttamento della risorsa e la ricerca di
nuovi giacimenti o di sostituti.
Ovviamente, il modo di intendere il tema della
sostenibilità può essere molto diverso a seconda dei
punti di vista: accade quindi che gli economisti, che
spesso ignorano i rudimenti delle scienze naturali,
credano di poter trovare una risposta nello studio del
funzionamento del mercato. Alcuni sostengono, per
esempio, che a certe condizioni è il mercato che porta
alla sostenibilità. Se infatti ci fosse un uso troppo
intenso di una risorsa esauribile, la sua scarsità
relativa farebbe aumentare il prezzo e questo
porterebbe a una riduzione della domanda
riequilibrando il sistema. Altri, più prudentemente,
ritengono necessario integrare l’azione del mercato
con qualche forma di indirizzo pubblico perché il
sistema dei diritti di proprietà sui beni ambientali
non ne garantisce la loro conservazione.
Il tema dello sviluppo è strettamente legato alle
scienze sociali e all’economia in particolare.
Crescita e sviluppo sono termini che l’economia prende
a prestito dalla lingua comune.
Per crescita economica si intende infatti l’incremento
del prodotto interno lordo, che misura la produzione
di beni e servizi valutati ai prezzi di mercato. Se il
prodotto interno lordo pro capite di un paese non muta
da un anno all’altro, possiamo dire che quell’economia
è stata in grado unicamente di adeguare la propria
offerta alle intervenute variazioni della popolazione.
Il concetto di sviluppo, e le origini di una
particolare branca delle scienze sociali chiamata
economia dello sviluppo, coincidono storicamente con
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il processo di decolonizzazione che ha caratterizzato
molti paesi del sud del mondo. In questa visione, che
pure ha dato luogo a critiche e ha suscitato
discussioni, il tema riguarda principalmente il
sottosviluppo, ovvero le condizioni che caratterizzano
i paesi del mondo con bassi tassi di crescita. Una
lettura più moderna utilizza invece il termine
sviluppo per includere nel processo di crescita una
serie di categorie non strettamente economiche, quali
gli aspetti sociali o la possibilità di accedere a
un’istruzione qualificata.
Negli anni si è progressivamente abbandonata una
visione economicistica, che misurava lo sviluppo solo
attraverso i valori del prodotto interno lordo pro
capite e poneva l’accento unicamente sul benessere
dell’uomo. A questa fase, nella quale ci si riferiva
al tema con il solo sostantivo “sviluppo”, ne è
seguita una seconda in cui lo sviluppo doveva essere
“sociale” e non più quindi unicamente legato alla
crescita del reddito ma anche a una serie di variabili
sociali (istruzione, sanità, diritti civili e
politici, tutela delle minoranze) considerate
essenziale nel processo.
Il capolinea, non solo nominalistico, del processo è
lo sviluppo sostenibile .
L’espressione sviluppo sostenibile è diventata molto
popolare sul finire degli anni ’80. Nel 1987, infatti,
è stato pubblicato il Rapporto Brundtland elaborato
nell’ambito delle Nazioni Unite. Il rapporto presenta
i risultati di una commissione di studio presieduta da
Gro Brundtland, primo ministro della Norvegia. Questo
documento, altrimenti noto come Our Common Future, ha
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avuto e continua ad avere un importante ruolo di
stimolo e discussione.
Nel volume viene data un’importante definizione di
sviluppo sostenibile: Lo sviluppo è sostenibile se
soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza
compromettere le possibilità per le generazioni future
di soddisfare i propri bisogni.
Questa definizione, che a prima vista può sembrare
intuitiva e semplice, si fonda implicitamente su
alcuni concetti e presenta, in realtà, problemi
importanti che è necessario evidenziare. In primo
luogo introduce il tema della sostituibilità fra
fattori di produzione.
Un concetto strettamente legato a quello di sviluppo
sostenibile è quello di sostituibilità. Per
sostituibilità si intende la capacità di una risorsa
naturale di essere sostituita o trasformata senza
compromettere gli equilibri che consentano una qualità
ambientale accettabile. A loro volta, sono
direttamente correlati all’idea di sostituibilità i
concetti di capitale naturale critico e capacità di
carico. Il carico applicato ad un sistema naturale
attraverso il suo sfruttamento o il suo inquinamento
(nel senso più ampio del termine) raggiunge un limite
(la capacità di carico) oltre il quale il capitale
naturale subisce un depauperamento irreversibile e che
coincide con il “livello minimo necessario alla
riproducibilità biologica dell’ecosistema” (capitale
naturale critico).
Un altro concetto fondamentale coinvolto nella più
moderna accezione di sviluppo sostenibile è quello
dell’ equità . Le disuguaglianze relative alla
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distribuzione delle ricchezze nel mondo sono fattori
che contribuiscono al mancato raggiungimento
dell’obiettivo della sostenibilità. A tal fine si
possono considerare due tipologie di equità sociale
implicitamente contenute nella definizione di sviluppo
sostenibile:
-equità infragenerazionale, tanto a livello locale che
internazionale, che implica parità d’accesso alle
risorse (siano queste ambientali o meno), da parte
degli attuali cittadini del pianeta, senza distinzioni
rispetto al luogo/paese in cui vivono;
-equità intergenerazionale, che significa invece pari
opportunità fra successive generazioni. (A. Lanza,
1997, “Lo Sviluppo Sostenibile” ed. Il Mulino)
Nello studio oggetto di questa tesi sono state
considerate le tre componenti principali di uno
sviluppo sostenibile: la sostenibilità ambientale, la
sostenibilità economica e la sostenibilità sociale.
Sappiamo come queste tre componenti si intreccino fra
loro rendendo difficile o quantomeno impreciso, ogni
tentativo di analisi esclusiva. L’ambiente fornisce le
materie prime che sono il motore dell’economia locale
e nazionale ma consente anche che perduri uno stato di
qualità ambientale necessario a garantire buona salute
e svago alla società. Un economia razionale consente
un utilizzo sostenibile delle risorse coinvolgendo
inevitabilmente misure di carattere anche di
salvaguardia e deve essere in grado di distribuire
ricchezza tra gli individui attori contribuendo al
loro benessere. Questi ultimi sono inevitabilmente
l’altra parte fondamentale dei processi produttivi e
quindi dello sviluppo economico, ed il loro livello di
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crescita sociale e culturale nonché la loro condizione
di benessere fisico, permettono un efficiente utilizzo
delle risorse umane, aldilà degli ovvi risvolti etici.
ECONOMIA DEL BENESSERE E SOSTENIBILITA’ SOCIALE
E’ a Pigou che si deve il tentativo di isolare quello
specifico terreno di indagine che, forse in omaggio al
titolo del suo celebre contributo del 1920, prese il
nome di “economia del benessere”. Nelle sue parole
(The Economics of Welfare, 4ª ed. 1032), “oggetto
dell’economia del benessere è l’indagine delle
influenze predominanti attraverso le quali sia
possibile aumentare il benessere economico del mondo o
di un paese determinato. La speranza di coloro che si
dedicano a tale indagine è quella di suggerire forme
di intervento – o di non intervento –da parte dello
Stato o di privati, le quali possano favorire tali
influenze” (p.2). poiché è con il trionfo
dell’utilitarismo che l’economia del benessere si
costituisce come branca di studio dotata di una sua
parziale autonomia all’interno della scienza
economica, è opportuno precisare subito cosa
esattamente si a l’utilitarismo.
Tre sono le tesi o principi fondamentali della
filosofia utilitarista
Il primo principio concerne la valutazione di
situazioni alternative e afferma che la sola base
corretta di tale valutazione è il benessere o la
soddisfazione che i soggetti ottengono, sotto il
profilo psicologico, nel fare ciò che preferiscono.
Questa prima componente dell’utilitarismo è chiamata
benesserismo (welfarismo).
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