Nel secondo capitolo approfondirò il legame che unisce la nascita del
concetto di “qualità della vita” con la nascita della pubblicità sociale. Alla
crisi del modello di crescita economica (fine anni ’60 inizio ’70) fa seguito
la richiesta da parte della cittadinanza di una migliore qualità della vita
basata sui valori post-materialisti che stanno emergendo in quegli anni:
autodeterminazione, felicità, benessere individuale e collettivo, libertà,
ecc. Davanti all’incapacità della stato di far fronte a questo bisogno di
nuove regole di vita, emerge l’importanza del ruolo dei media, intesi come
tramite per interloquire con il pubblico, e soprattutto della pubblicità sociale
in quanto promotrice di nuove regole e nuovi comportamenti adeguati ai
valori emergenti. Tra questi valori, rientra anche la consapevolezza del
rispetto dei diritti e dei doveri dei cittadini; diritti spesso oscurati o messi da
parte per questioni politiche, ma che la comunicazione sociale ha fatto
emergere.
Dopo questi due primi capitoli teorici introduttivi, si darà spazio in quelli
seguenti ad argomentazioni riguardanti i diritti e i doveri civici nonché alle
relative campagne di pubblicità sociale realizzate da Pubblicità Progresso
e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il processo di modernizzazione dello Stato è l’argomento del terzo
capitolo. In esso viene inizialmente trattata l’importanza del ruolo che la
Pubblica Amministrazione ha nell’ambito dl sistema politico, il rapporto che
essa intrattiene con il sistema sociale ed il problema della sua inefficienza
– inefficacia in Italia. Gli anni ’80 hanno rappresentato una svolta per
quanto riguarda l’avvio della riforma della P.A.; all’interno di questa riforma
ampio spazio è stato dato alla salvaguardia del diritto all’informazione, da
sempre considerato di fondamentale importanza per il dispiegarsi della
democrazia moderna. Nell’avviare quest’attività di riforma, il settore
pubblico è sicuramente stato stimolato dall’azione di Pubblicità Progresso
attraverso la campagna sociale del 1989 riguardante la disinformazione
dei cittadini – utenti. Questa campagna, cioè, ha fatto emergere un
bisogno sentito ormai da tutti: quello di avere maggiori informazioni, sia
nel settore pubblico che nel privato, perché la vita possa scorrere meglio
senza code o incomprensioni.
Nel quarto capitolo prenderò in esame la problematica della sicurezza
stradale intesa come dovere di ogni cittadino a rispettare le norme del
codice della strada nella salvaguardia della propria e dell’altrui vita. Dopo
aver effettuato un’analisi ambientale del fenomeno dell’incidentalità
stradale in Italia, analizzerò nello specifico le più importanti campagne di
sensibilizzazione realizzate da Presidenza del Consiglio dei Ministri dal
1990 ad oggi.
Il capitolo quinto, invece, si focalizzerà su un altro diritto-dovere dei
cittadini: la tutela del lavoro, un diritto costituzionalmente garantito. Dopo
avere delineato la dimensione del problema degli infortuni sul lavoro in
Italia, analizzerò la campagna realizzata dalla Presidenza del Consiglio
nel 2000.
Infine, nel sesto ed ultimo capitolo, mi sono voluta occupare del dovere di
aiutare il prossimo, ovvero dell’azione volontaria. Questo non perché tale
diritto proviene da una normativa specifica, ma in quanto dovere sociale
che tutti dovremmo rispettare in una condizione di convivenza civile.
Inoltre, i valori fondanti dell’azione volontaria sono particolarmente
necessari in questo tempo troppe volte segnato dalla fragilità delle
relazioni e dalla perdita di valore della vita umana. Dopo la descrizione del
crescente fenomeno del volontariato in Italia, prenderò in esame le
campagne di Pubblicità Progresso più rappresentative su questo tema.
In ultimo, ogni campagna presente in questo lavoro è stata analizzata in
base a:
- obiettivi e strategie di comunicazione
- strategia creativa
- campagna vera e propria (spot tv e radio, pagine pubblicitarie, manifesti,
opuscoli)
- eventuali ricerche di verifica sull’impatto della campagna.
- Capitolo primo -
LA PUBBLICITA’ SOCIALE: INTRODUZIONE AL FENOMENO
1. Pubblicità sociale: una possibile definizione.
E’ a partire dagli anni ’70 che, sempre più frequentemente, la pubblicità
viene utilizzata in contesti diversi da quelli della promozione commerciale;
le tecniche pubblicitarie vengono impiegate, in misura sempre più
crescente per realizzare campagne promosse da soggetti - e che
riguardano oggetti - non usuali. Mi riferisco a campagne che hanno per
tema la tutela dell’ambiente, la prevenzione di malattie infettive, la
sicurezza stradale, la tutela del patrimonio artistico, il rispetto delle norme
di cortesia nella convivenza, e così via: insomma campagne di pubblicità
sociale. Ciò che accomuna questi messaggi è sicuramente il riferimento
ad un mondo di valori solidaristici, umanitari e civili; inoltre la
consapevolezza di un’utilità collettiva nella pratica di tali valori, porta a
considerare questi ultimi come potenzialmente universali. In Italia la
pubblicità sociale, se paragonata ad esperienze maturate in altri Paesi, è
fortemente in ritardo
1
; è solo nell’ultimo decennio, infatti, che anche nel
1
Si pensi alle campagne promosse dall’ Advertising Council americano, o dal Central Office of
Information (Coi) inglese.
nostro Paese viene riconosciuta l’importanza di tale genere pubblicitario
2
.
Nonostante tale fenomeno abbia un impatto sempre più crescente,
paradossalmente è difficile da definire poiché oltre a porre in questione lo
statuto ed il ruolo della pubblicità, esso mette in discussione concetti e
criteri più generali. Infatti la pubblicità sociale è originata da spinte e
solleva interrogativi che spingono in maniera forzata il labile confine tra
benessere collettivo ed individuale, tra interesse e morale.
Certo, intuitivamente dare una definizione di pubblicità sociale non
sembrerebbe così complesso. Si potrebbe utilizzare, ad esempio, una
formula assai generica e per molti aspetti calzante, e definire come
pubblicità sociale quei comunicati che “riguardano tematiche pubbliche,
realizzati nell’interesse pubblico”
3
. Al contrario si potrebbe dire che non è
pubblicità sociale quella orientata a scopi commerciali, destinata cioè alla
promozione di aziende o prodotti, siano essi di grande utilità o voluttuari.
Si tratta tuttavia di definizioni ovvie ed ingannevoli. Basti pensare, infatti,
alle campagne di quelle aziende commerciali che associano il proprio
marchio a tematiche di grande rilevanza sociale; in questi annunci
l’immagine aziendale si coniuga alla proposta di atteggiamenti ed
orientamenti culturali piuttosto che all’interesse immediato dell’azienda, la
quale appare spesso come “firmataria” del messaggio
4
. Si tratta in questo
caso di messaggi che si avvicinano molto alla definizione di pubblicità
2
Il primo Congresso Internazionale sulla pubblicità sociale si è tenuto a Bruxelles nel 1983. In
Italia il primo Convegno Nazionale su questo tema è stato organizzato dall’istituto Pubblicità
Progresso a Milano nel 1989; il titolo del convegno era: << Il tam tam del vivere civile: la
comunicazione sociale al servizio del cittadino>>.
3
Formula utilizzata da M.I. Mandell Advertising Prentice-Hall New york 1984 p. 608 che così
definisce il “public service advertising”.
sociale su indicata (“annunci che riguardano tematiche pubbliche,
realizzati nell’interesse pubblico”): ma non ci si può non accorgere di come
essi abbiano una forte ricaduta a livello di immagine e servano, in ultimo,
anche a scopi commerciali.
Dall’altra parte non si può neanche dire che vadano esclusi a priori dalla
categoria di pubblicità sociale gli annunci a favore di prodotti, cioè i
messaggi a carattere esplicitamente commerciale. Si pensi questa volta ai
prodotti le cui caratteristiche vengono esaltate sottolineando la loro
aderenza a quei criteri e valori universali sopra citati. Un esempio di
questo tipo di annunci è rappresentato dai cosiddetti “spot verdi”: una
categoria di messaggi pubblicitari commerciali che hanno un riferimento
diretto con la natura intesa come valore da salvaguardare. Quando nella
pubblicità di un prodotto si insiste sul suo essere conforme alle regole di
tutela dell’ambiente, l’enfasi sul plus di tale prodotto si traduce
immediatamente in una pubblicità a favore di atteggiamenti e scelte di
interesse collettivo. L’emergenza ecologica e la cultura per l’ambiente
hanno evidentemente stimolato verso una sottolineatura delle
caratteristiche del prodotto in sintonia con i dettami della tutela
dell’ambiente, e con ciò diffondendo ed ampliando quella cultura.
Tutte queste considerazioni rendono immediatamente visibili i rischi che si
possono correre dando una definizione intuitiva ed alquanto generica del
fenomeno qui trattato, ovvero la pubblicità sociale.
4
Si pensi alle prime campagne Benetton nelle quali l’azienda si faceva portavoce di valori quali la
fratellanza e l’integrazione sociale.
Molte delle locuzioni che hanno tentato di definire questo tipo di pubblicità
non ha potuto fare a meno di utilizzare l’aggettivo “sociale”; un predicato
tanto efficace quanto insidioso per l’ampiezza del suo campo semantico.
Così c’è chi ha parlato, appunto, di “pubblicità sociale”, chi di
“comunicazioni aventi fini di lucro” o chi di “comunicazione sociale” e di
“campagne sociali”. A differenza, infatti, del termine pubblicità che
richiama l’origine mercantile, economica e profit oriented di tale
comunicazione, le locuzioni che utilizzano il predicato “sociale” alludono
immediatamente al fine che la comunicazione in questione persegue:
educare e formare una opinione pubblica e una coscienza civile su
tematiche di interesse generale. Ora, la funzione svolta in queste
espressioni dall’aggettivo sociale non è certo quella di rapportare in
maniera esclusiva il tipo di pubblicità di cui parlo con la dimensione
sociale, né quella di negare il ruolo e la responsabilità sociali di tutta la
comunicazione pubblicitaria in generale. Ma è chiaro che tale aggettivo
serve comunque a delimitare la categoria di messaggi in questione,
legandola in qualche modo ad un polo ideale e materiale attorno a cui
ruotano gli interessi, gli orientamenti e i costumi della collettività.
1.1 I generi della pubblicità sociale.
Esistono, in realtà, tentativi di definizione di questo tipo di pubblicità che
utilizzano formule altrettanto evocative. Ad esempio si è parlato di
<<comunicazione persuasoria non avente finalità di lucro>>
5
, di pubblicità
<<non a scopo di profitto>> o ancora di pubblicità che <<non ha per
oggetto prodotti>>. Queste definizioni presentano due caratteristiche che
è necessario evidenziare. Innanzitutto si tratta di definizioni costituite
essenzialmente da negazioni, o litoti, capaci di dire ciò che escludono ma
non ciò che comprendono; esse rendono conto del fatto che al di fuori del
campo mercantile, commerciale e dei prodotti di consumo, si riesce a dire
solo ciò che la pubblicità non è, o non è più, ma non ciò che diventa. In
secondo luogo, le formule suddette riflettono locuzioni di uso comune nella
letteratura anglosassone. In esse, infatti, si riconoscono facilmente le
formule <<non commercial>>, <<non profit>> e <<no product
advertising>>
6
. Questo fatto rinvia di nuovo alla scarsa riflessione italiana
su questi temi ed al carattere acuto con cui si è verificata nel nostro Paese
la difficoltà di tradurre le tecniche pubblicitarie in un contesto diverso da
quello del mercato economico.
Ad ogni modo è certo che attraverso litoti come non commercial, non profit
e no product, si riesce a circoscrivere un campo ben delineato di
5
G. Fabris La comunicazione pubblicitaria, Etas-kompass, Milano 1968.
6
M.I. Mandel Advertising. In realtà le formule non sono del tutto equivalenti, ma si distinguono
per i diversi protagonisti e scopi dell’attività pubblicitaria in questione. In particolare le espressioni
non profit e non commercial sottolineano lo scopo non commerciale dei messaggi, mentre
l’espressione no product è utilizzata soprattutto per indicare quella parte di attività dell’azienda
che non è dedicata a specifici prodotti, cioè la cosiddetta pubblicità istituzionale.
fenomeni, anche se molto ampio; al suo interno, infatti, si può individuare
una tipologia assai complessa ed articolata. Seguendo uno schema
consolidato nella letteratura anglosassone, si potrebbe definire come non
commercial advertising gli annunci di enti di governo nazionale o locale, di
organizzazioni religiose o benefiche, di gruppi politici, di associazioni di
cittadini ed anche di società private in genere. Si tratta di annunci che
possono di volta in volta proporre o appoggiare misure di pubblica utilità,
sollecitare contributi e donazioni, sostenere i candidati di partito. I
messaggi di questi tipo costituiscono un universo che può scomporsi e
suddividersi in categorie riconoscibili. La più importante di queste
categorie è proprio quella che viene solitamente definita public service
advertising ovvero la pubblicità di pubblica utilità o di servizio pubblico, e
che coincide essenzialmente con la pubblicità sociale. Si tratta, infatti, di
una comunicazione persuasoria la cui principale caratteristica è quella di
fornire, nell’interesse collettivo, un’informazione imparziale su tematiche di
interesse collettivo. Già da questa prima definizione è subito chiaro qual è
il criterio distintivo di questa categoria di messaggi, ovvero il loro carattere
non partigiano. I messaggi di public service, infatti, non diffondono le
istanze di raggruppamenti partitici o analoghi a partiti; si può anzi dire che
i loro contenuti appaiono essenzialmente non controversi, soprattutto
perché riguardano “parole d’ordine” sulle quali l’opinione pubblica non è –
e non dovrebbe essere – divisa. Esempi di questa categoria pubblicitaria
sono: la prevenzione degli incendi boschivi, l’uso moderato degli alcolici,
la lotta alla criminalità, l’educazione alla sicurezza stradale, la lotta
all’evasione fiscale, il volontariato, ecc.
Sulla base di quanto detto finora, risulterà chiara la differenza tra questo
genere di messaggi e quelli che sono compresi in un’altra categoria di
pubblicità non commerciale: quella che la letteratura anglosassone
definisce come advocacy
7
. In questa categoria rientrano quei messaggi
che vertono su temi controversi, proponendo o sottolineando un punto di
vista sull’argomento. Tale punto di vista non è neutrale, ma è invece
essenzialmente polemico, nel senso che quasi sempre tali annunci
indicano in modo esplicito i gruppi e le tesi cui intendono opporsi. È il
caso, ad esempio, di una campagna che si opponga alla vivisezione
considerandola una inutile tortura, contro l’opinione di quanti invece la
ritengono indispensabile per i progressi della ricerca scientifica.
Come si è visto la distinzione tra public service advertising e advocacy si
basa principalmente sul carattere imparziale e non controverso delle
posizioni presentate dalla prima categoria di messaggi, e sul carattere
parziale ed opinabile del secondo tipo di comunicati. Ora, è chiaro che tale
criterio distintivo è necessariamente flessibile poiché in fondo esso
dipenderà fortemente dal grado di condivisione delle opinioni presentate
dall’advocacy nella collettività destinataria del messaggio. Riprendendo
l’esempio di prima, con l’indebolirsi nell’opinione pubblica della posizione
di quanti ritengano indispensabile la vivisezione, l’opposizione a tale
pratica perde il suo valore controverso e si configura sempre di più come
7
In italiano il termine advocacy è tradotto come difesa, appoggio, propugnazione.
corollario di un valore civile generalmente accettato, ovvero il rispetto degli
animali.
Un tipo particolare di pubblicità non commerciale molto vicina
all’advocacy, ma che costituisce un tipo a sé per la sua diffusione e
rilevanza culturale, è la pubblicità politica o di partito. Qui la parzialità
dell’opinione proposta raggiunge carattere estremo, anzi tale parzialità
costituisce l’essenza stessa del messaggio. Oggetto di questo tipo di
comunicazione non è una singola questione, come nell’advocacy, ma un
programma o un’ideologia opposti ad altri. In realtà, attraverso la
promozione di un simbolo elettorale o di una candidato si richiamano una
molteplicità di issues così generali da risultare difficilmente argomentabili.
Così, paradossalmente, questa pubblicità non commerciale tende a
presentarsi con moduli simili a quelli della pubblicità commerciale.
A questo fenomeno è stata dedicata vasta attenzione in tutta quella
letteratura che lo ha prevalentemente identificato con il termine
“propaganda”. Proprio questa identificazione rende oggi impossibile
l’utilizzo del termine propaganda per definire la comunicazione di pubblica
utilità. Il modello propagandistico è stato formulato per situazioni in cui una
istituzione (partiti, stato, aziende, chiese) cerca di conquistare alla propria
causa il favore dei potenziali sostenitori. I primi a servirsi di tale modello
furono infatti i capi politici e religiosi che videro nella manipolazione delle
parole, dei sentimenti e delle esperienze il modo per ottenere la devozione
degli altri e sviluppare la fedeltà all’istituzione. Il termine propaganda
rinvia, dunque, ad una comunicazione persuasoria a fini prevalentemente
politici o religiosi ed evoca allo stesso tempo le finalità manipolatorie
spesso associate a questo termine. Per tali ragioni, e per la sua
compromissione con i modelli comunicativi tipici del regime, questo
termine è poco utilizzato per definire la comunicazione a fini sociali.
2. I soggetti della pubblicità sociale.
2.1 I pubblici poteri.
Tra i soggetti che operano nel campo della pubblicità sociale vanno
menzionati in primo luogo gli apparati pubblici di governo, sia centrale che
locale. Va subito precisato che è soltanto da pochi anni che la pubblica
amministrazione (p.a.) ha percepito come compito irrinunciabile lo sviluppo
di iniziative pubblicitarie pubbliche. È dunque da poco tempo, anche se da
ultimo con ritmo accelerato, che si esamina la funzione della
comunicazione della pubblica amministrazione. In tali occasioni,
“comunicazione” e “trasparenza” nel rapporto tra istituzioni e cittadino,
sono diventate le due parole chiave più citate; inoltre le considerazioni più
problematiche riguardano non solo i vincoli legislativi ed organizzativi che
servono a realizzare una efficace pubblicità pubblica, ma anche le
modalità del rapporto tra p.a. e cittadino.
Proprio in questo senso emerge una prima difficoltà, rappresentata dal
cosiddetto “deficit di legittimazione” che incrina quel rapporto. Per
superare tale deficit si rende necessario un rinnovamento profondo, di
ordine culturale prima ed organizzativo e funzionale poi, che investa tutta
la pubblica amministrazione. Si tratterebbe di una riformulazione dei
rapporti tra p.a. e cittadino attraverso l’abbandono di una logica di potere e
l’acquisizione di una cultura e di una linguaggio orientati al consenso.
Questo significa per lo stato abbandonare una tradizione radicata, che è
quella di rivolgersi ai cittadini in modo impositivo e prescrittivo, per fare
proprie le modalità della comunicazione persuasoria.
Ma la comunicazione pubblica si trova di fronte ad una seconda difficoltà,
che è quella di colmare anche un “deficit di modernità” della struttura
organizzativa della pubblica amministrazione. Fare comunicazione e
pubblicità significa per l’ente pubblico mettere in moto un processo di
riorganizzazione dell’amministrazione stessa nei sui aspetti istituzionali,
procedurali, di formazione del personale, oltre che di riflessione sul modo
di concepirsi e di rapportarsi al Paese. Si sa che la pubblicità è solamente
una parte, anche se la più visibile, di una sistema comunicativo che si
attua attraverso un dialogo continuo con il cliente. Presupposto di tale
dialogo è la conoscenza del consumatore che si ottiene attraverso l’analisi
dei sui bisogni, delle sue aspettative, dei sui desideri, riconoscendo
insomma la centralità del suo ruolo. Allo stesso modo, per far si che la
comunicazione pubblica divenga una delle funzioni essenziali
dell’amministrazione, è necessario porre il cittadino al centro dell’azione
istituzionale. Un punto dal quale non si può dunque prescindere è che
anche la p.a. si deve preoccupare degli orientamenti, delle esigenze, dei
desideri degli utenti e quindi diventi “marketing oriented”, facendo propria
una cultura e una filosofia di marketing. È in questo senso che l’incontro
tra p.a. e pubblicità rappresenta un evento di enorme importanza, poiché
esso sancisce l’unione tra l’organizzazione statale e due istanze cruciali
della modernità: il cittadino e il mercato. La modernizzazione culturale
della p.a. non può, d’altra parte, prescindere dal problema della gestione
efficace della comunicazione pubblicitaria, la quale presuppone una
riorganizzazione della p.a. in termini anche normativi, istituzionali,
procedurali, di determinazione dei bilanci di spesa pubblicitaria, di
funzione del personale, ecc. Lungo queste direttrici si è assistito, in questi
ultimi anni, a molteplici iniziative che lasciano intravedere un cambiamento
sostanziale nella pubblicità pubblica e nella comunicazione istituzionale in
generale. Un primo fondamentale passo è stato sicuramente compiuto con
la legge sull’editoria n. 67 del 25 febbraio 1987; quest’ultima, infatti, ha
segnato l’avvio di un’attività di comunicazione pubblicitaria della p.a.
centrale e locale. Secondo tale legge le amministrazioni statali e gli enti
pubblici non territoriali debbono “istituire nel proprio bilancio uno specifico
capitolo nel quale imputare tutte le spese comunque afferenti alla
pubblicità” previste per l’anno in corso
8
; inoltre obbliga le amministrazioni
statali, regionali, gli enti locali, e le loro aziende, e le Usl di comunicare al
Garante delle spese pubblicitarie sostenute nel corso di ogni esercizio
finanziario.
Ma parallelamente a questa legge, che non sarebbe sufficiente da sola a
garantire l’avvio deciso della pubblicità pubblica, si deve avviare un
processo di organizzazione delle strutture tecnico - amministrative in
grado di coordinare le iniziative di comunicazione. Si pone quindi il
8
Art. 2, Legge per l’editoria, 25 febbraio 1987, n. 67.