INTRODUZIONE L’argomento oggetto della tesi prende spunto dalla mia grande curiosità di capire, conoscere,
scoprire un settore che produce beni e servizi dalle caratteristiche peculiari che si è trovato, a partire
da gli anni Novanta del secolo scorso, all’ improvviso e inaspettatamente al centro dell’attenzione
dei ricercatori, dei politici, degli amministratori e della stessa opinione pubblica.
Organizzazioni che si occupano di tossicodipendenti e di portatori di handicap, circoli sportivi e
ricreativi, cooperative scolastiche di genitori, cliniche e ospedali di enti religiosi, associazioni
ambientalistiche, organizzazioni non governative che operano con i paesi in via di sviluppo,
associazioni culturali e politiche, gruppi locali di volontariato, fondazioni che gestiscono musei,
cooperative di inserimento lavorativo di ex carcerati, università non statali, fondazioni di erogazione
e altro ancora sono diventati oggetto di interesse senza precedenti.
Si tratta di organizzazioni che, al di là delle profonde differenze che le connotano, sono accumunate
da una caratteristica: non distribuiscono ai soci o ai dipendenti gli eventuali profitti che derivano
dalla gestione delle loro attività ma, al contrario, re-investono questi profitti per aumentare la
qualità e migliorare i servizi erogati, sono quello che è stato chiamato – mutando la terminologia
americana – il settore non profit .
In un arco temporale molto breve, la discussione attorno ai meriti, ai problemi e alle possibilità di
questo vasto insieme di organizzazioni che – senza finalità di lucro – promuove la produzione di
servizi di utilità collettiva, è cresciuta in maniera esponenziale, tanto da far sorgere il dubbio che si
stesse assistendo ad una vera e propria moda piuttosto che a un approfondito dibattito attorno ai
destini di una parte rilevante della società e dell’economia del nostro paese.
Questa crescita di attenzione è stata ancora più sorprendente se si pensa al silenzio e alla neppure
troppo celata ostilità che, in passato e per lunghi anni, hanno caratterizzato i rapporti tra la società
(e, soprattutto, la legislazione) italiana e il settore non profit ; silenzio e ostilità determinate da una
pluralità di cause storiche e politiche.
La grande attenzione nei confronti del settore, così come la modesta diffusione delle informazioni
relative alla sua consistenza, alle sue caratteristiche specifiche e alle grandi differenze che esistono
al suo interno, hanno generato talvolta non poca confusione, innanzitutto linguistica, ma riferita
anche alla natura delle organizzazioni del settore non profit . La pluralità delle denominazioni è
sicuramente una delle caratteristiche peculiari del non profit italiano, questo è costituito da tante
anime diverse, che si sono sviluppate separatamente; è stato riconosciuto come un vero e proprio
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“settore” dell’economia e della società (cioè come un insieme relativamente omogeneo di
organizzazioni che condividono “caratteri” comuni). Questo riconoscimento pare più il risultato del
progetto culturale di un’ èlite intellettuale e organizzativa che non l’esito di una vera e propria
spinta di base delle organizzazioni che costituiscono il settore stesso.
La frammentazione originaria trova un immediato riscontro nei differenti termini con cui il settore è
stato chiamato. Il settore non profit mutuato dalla tradizione legislativa e culturale statunitense, è
infatti venuto in uso e si è affermato solo in tempi recenti, come tentativo di dare carattere unitario
alla molteplicità di espressioni utilizzate per descrivere le varie organizzazioni, che nel corso del
primo capitolo abbiamo trattato evidenziando, non solo le caratteristiche del terzo settore in Italia e
il processo storico che ha apportato alla sua affermazione, ma la varietà dei soggetti che lo
compongono.
La necessità di unire organizzazioni diverse non può tuttavia cedere il passo alla tentazione di
confonderle tra loro. La complessità e l’ambiguità del terzo settore è già evidente nella sua stessa
denominazione, nelle finalità sociali delle quali si fa portatore e nella costellazione di valori che
vengono rivendicati come premesse ed esito della sua affermazione.
Iniziando dalla vexata quaestio concernente la definizione stessa di terzo settore, siamo dell’ idea
che la concettualizzazione, ancora oggi dominante di terzo settore non consente a quest’ultimo di
reclamare per sé funzioni che vadano oltre la mera supplenza o il lobbying. Se si vuole, come si
ritiene si debba volere, che i soggetti della società civile partecipano attivamente alle scelte di
natura amministrativa, la definizione di ciò che deve intendersi per terzo settore è questione che non
può essere esclusa. La definizione corrente di terzo settore vede questo come la sfera cui afferiscono
tutti quei soggetti che non hanno titolo per rientrare né nel mercato (primo settore) né nello Stato
(secondo settore). Si noti subito l’asimmetria, mentre la distinzione tra terzo settore e Stato si
poggia su un fondamento oggettivo, qual’ è quello basato sulla dicotomia tra pubblico – privato, la
distinzione tra terzo settore e mercato postula, per avere senso, che il mercato venga considerato
come lo spazio occupato per intero da agenti che sono motivati all’azione dal fine lucrativo.
Se le organizzazioni di società civile appartengono alla sfera del privato, ma non a quelle del
mercato vuol dire che la loro ragion d’esistere non può essere ricercata sul piano economico, ma
solo su quello sociale. Ecco perché agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, tali
organizzazioni vennero identificate con l’espressione del “privato sociale”.
Ebbene agli inizi tale espressione ha rappresentato fedelmente ed efficacemente la realtà, le cose
sono andate progressivamente mutando in seguito all’affermazione in senso quantitativo e alla
diffusione su tutto il territorio nazionale, di soggetti imprenditoriali connotati da due elementi
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specifici. Primo un’ organizzazione produttiva del tutto simile a quelle delle imprese for profit (e
dunque connotata da elementi quali professionalità , produzione di beni e servizi e così via);
secondo, il perseguimento di interessi collettivi affatto analoghi a quelli perseguiti da associazioni
(di volontariato, di promozione sociale) e da fondazioni. Si pensi alle cooperative sociali e alle
neonate imprese sociali; si tratta di soggetti che stanno nel ( cioè dentro il) mercato capitalistico, ma
non accettano il fine dell’agire capitalistico che è quello della massimizzazione del profitto. In
quanto operanti con sistematicità e regolarità nel mercato, tali soggetti sono simili alle società
commerciali e dissimili alle fondazioni e associazioni; in quanto non mirano al profitto, essi sono
simili a fondazioni e associazioni e dissimili dalle società di cui al libro V del Codice Civile.
Abbiamo voluto porre l’attenzione sul problema della dimensione costituzionale del terzo settore.
Proprio come ancora oggi accade, il sistema politico vede il terzo settore come forza di sostegno
agli attori politici in campo e non già come espressione di una modalità nuova e originale di
realizzare opere che hanno bensì ricadute sul pubblico, ma sono di natura civile. Chi invece
riconosce al terzo settore un “potere istituente” 1
ed è convinto che, nelle attuali condizioni storiche,
esso abbia già acquisito la capacità di darsi un assetto costituzionale, deve anche ammettere che la
questione della rappresentanza non può essere ulteriormente procrastinata. Tale esigenza poggia
sulla constatazione che il sistema politico non riesce più ad assolvere il compito della
rappresentanza dell’ intera area sociale. Infatti la crescita rapida del pluralismo sociale è oggi tale
che gli individui non possono più dirsi rappresentati da una sola organizzazione, è il fatto della
pluriappartenenza, il fatto cioè che le persone nella società odierna possono scegliere la propria
identità come risultato di appartenenze plurime, a far si che il tradizionale sistema della
rappresentanza non sia più sufficiente a coprire tutti gli ambiti in cui si esprime l’esistenzialità delle
persone.
Fino ad un passato recente, invece, le cose sono andate diversamente, al tavolo della decisione
pubblica partecipavano ( e partecipano tuttora) solo coloro che avevano titolo, vale a dire coloro che
potevano dimostrare di rappresentare interessi organizzati di gruppo o di categorie di cittadini. Lo
spiazzamento del civile ad opera del pubblico che ne è derivato ha fatto si che fino a tempi
recentissimi la società fosse organizzata attorno a pochi attori sociali e nella quale la capacità di
azione collettiva era controllata da alcuni grandi partiti. Ebbene la novità importante di questo
nostro tempo è la presa d’atto della inefficienza oltre che delle gravi lacune che il modello fordista
di organizzazione sociale ci ha lasciato in eredità. È quando ci si confronta con i problemi connessi
ai nuovi rischi sociali, alla nuova configurazione del mercato del lavoro, ai conflitti identitari, ai
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M. Magatti Il potere istituente della società civile , Roma, Laterza, 2005
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paradossi della felicità, e così via, che si inizia a percepire cosa significa aver lasciato ai margini il
civile, impedendogli di fatto di esprimere tutta la sua carica progettuale. Ed è precisamente a questo
punto che si comincia a comprendere perché il terzo settore non può non aspirare a diventare parte
sociale, preoccupandosi, in conseguenza, di sciogliere il nodo della sua rappresentanza nella
prospettiva di un’amministrazione condivisa.
La legislazione italiana sul settore non profit è il risultato di una produzione normativa abbondante
che è venuta a stratificarsi nel corso degli anni e sembra ora mostrare tutti i limiti del processo
disordinato che le ha dato vita. È dunque estremamente vivo il bisogno di una riforma che sia in
grado di ridefinire i confini complessivi dell’universo non profit unificando e distinguendo le figure
giuridiche di riferimento.
Nel secondo capitolo della trattazione abbiamo focalizzato la nostra attenzione su uno degli attori
del settore non profit , appunto sulle cooperative sociali, sulle loro origini, gli elementi identificativi,
i rapporti che intercorrono tra questi soggetti e la Pubblica amministrazione, la legislazione di
riferimento e il ruolo attuale che oggi rivestono le cooperative sociali.
La scelta di utilizzare una società cooperativa per sviluppare un’ impresa rimanda ad opzioni di
rilevanza non solo tecnica, ma soprattutto di sostanza. La società cooperativa è una forma societaria
che si è sviluppata per rispondere ad esigenze diverse da quelle che conducono a fondare le società
cosiddette lucrative, come le società per azioni o responsabilità limitata. Mentre queste ultime
rispondono alla finalità di vedere remunerato il capitale investito, le società cooperative nascono
con lo scopo di offrire a chi vi partecipa la soluzione di proprie esigenze a condizioni migliori di
quelle che si potrebbero reperire sul mercato. Non è un caso che quello cooperativo sia l’unico tipo
societario citato dalla nostra Costituzione, che all’art. 45 afferma che “la Repubblica riconosce la
funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La
legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura con gli opportuni
controlli, il carattere e le finalità”.
Come si può ricavare dalle parole dei costituenti, la cooperazione è ritenuta un fenomeno sociale,
prima che una forma societaria, e ad essa si attribuisce un’importante rilievo sociale proprio per le
sue finalità non speculative. Tale rilievo giustifica il fatto che la Costituzione non solo legittima una
legislazione che agevoli lo sviluppo della cooperazione, ma addirittura sollecita il legislatore a farsi
promotore di leggi che vadano in tale direzione.
La finalità sociale e non speculativa della cooperazione si pone di grande attualità in questo periodo
di crisi dell’ economia e lo fa almeno per due motivi: in primo luogo questo modello di impresa –
orientato a identificare i propri obiettivi nella soluzione di esigenze reali di molti in un tempo medio
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- lungo e non nell’ arricchimento speculativo di pochi a breve termine – sembra incarnare proprio
quel modo alternativo di sviluppo e di fare impresa che la crisi attuale induce a ricercare. La crisi
economica che stiamo attraversando è infatti a detta di autorevoli osservatori una crisi di modello di
sviluppo. Il progressivo venire meno della sostenibilità dello sviluppo economico, troppe volte
perseguito unicamente per massimizzare la ricchezza di pochi, ha autoalimentato la speculazione
finanziaria che ha travolto in pochi mesi una economia reale che si è scoperta fragile, proprio
perché privata delle regole che la subalternità della politica al potere economico ha omesso, a
discapito della persona.
Le regole della società cooperativa sono presidiate dalla democrazia interna, in cooperativa
convivono interessi e valori – proprio perché incarna i principi di mutualità e intergenerazionalità è
portata a misurarsi sul terreno della sostenibilità della produzione e soprattutto si distingue per come
la ricchezza prodotta viene distribuita ai soci del territorio. Tutto questo non preserva certo
inadeguatezze e errori, ma certamente concorre a dare alla forma cooperativa un respiro di forte
attualità e prospettiva. In un momento di crisi economica la cooperativa può rilevarsi uno strumento
utile per avviare esperienze collettive di impresa, specie in settori innovativi ad alto valore aggiunto
che interessano sempre più i giovani.
In un simile contesto, l’esplicitazione della mission e l’eventuale adozione di codici etici di
autoregolazione costituisce un presupposto essenziale al rafforzamento della cultura etica interna,
uno stimolo di assunzione di comportamenti socialmente responsabili e moralmente ineccepibili da
parte di tutti i soggetti coinvolti, oltre ad un efficace strumento di comunicazione della propria
vocazione solidaristica verso l’esterno. Come infatti si evince nel terzo capitolo della trattazione, l’
etica investe non solo le cooperative sociali, ma anche la Pubblica amministrazione che, oggi
sempre di più, fa i conti con i cittadini che si aspettano comportamenti socialmente responsabili.
L’utilizzo di denaro pubblico finalizzato allo sviluppo sostenibile e al raggiungimento di finalità
etiche e sociali dovrebbe derivare dall’ adozione di una nuova prospettiva, nell’ambito della quale i
parametri economici non garantiscono necessariamente il soddisfacimento di una sfera di valori più
ampia e che l’amministrazione non può ignorare.
Si tratterebbe, in altre parole, di stimolare un approccio che tenga in conto le responsabilità delle
ricadute sociali delle scelte economiche adottate, anche in considerazione del fatto che
l’introduzione di criteri “etici” negli appalti pubblici spingerebbe virtuosamente il sistema
produttivo a rendersi più competitivo proprio su questi parametri.
Diventa in questo contesto utile capire la natura dei rapporti che intercorrono tra i soggetti del terzo
settore e la Pubblica amministrazione, per questo nel corso del quarto capitolo ci siamo interessati
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dei caratteri tradizionali del rapporto fra impresa sociale e Pubblica amministrazione, le principali
categorie di beni e servizi acquisibili da parte della Pubblica amministrazione presso operatori del
terzo settore. L’obiettivo deve essere quello del coinvolgimento dei rappresentanti del terzo settore
negli organismi di valutazione, al fine di consentire loro di fare emergere il proprio punto di vista,
ma al tempo stesso anche di responsabilizzarsi rispetto alle verifica del raggiungimento degli
obiettivi, passando da forme di contracting out a forme di amministrazione condivisa.
Con il prevalere di principi edonistici che privilegiano la centralità della persona e del benessere
individuale, economico ed esistenziale, da un lato, e una maggiore consapevolezza di rispetto per
l’ambiente, per il sociale, dall’altro, le organizzazioni del terzo settore svolgono un ruolo
indispensabile ai fini della sensibilizzazione della popolazione verso le tematiche sociali di diversa
natura. Partecipano alla crescita della coscienza collettiva e favoriscono il sostegno di progetti sul
sociale; nello stesso tempo la società italiana muta velocemente, cambiando gli stili di vita dei suoi
abitanti, culture di varie provenienza si mescolano e si fondono creando nuovi bisogni e nuove
aspettative. Cresce la responsabilità delle aziende che investono sull’ ambiente e su progetti sociali ;
il consumatore è più attento e premia i comportamenti etici; le istituzioni si adeguano e forniscono
nuovi servizi. In tale prospettiva il mondo del non profit negli ultimi anni si trova in una posizione
di affollamento con sovrapposizione di finalità e la conseguente difficoltà ad emergere e farsi
notare , specie per le associazioni di piccola e media dimensione.
In questa situazione di cambiamento, come abbiamo argomentato nel quinto capitolo, per le
associazioni comunicare subito e bene diventa indispensabile sia ai fini del reperimento di nuovi
volontari ( people raising ) che del reperimento di nuove risorse finanziarie ( fund raising ).
Oggi dare conoscenza compiuta di sé e del proprio operato attraverso l’uso mirato di strumenti di
comunicazione efficaci per ogni singola associazione, indipendentemente dalla propria mission e
capacità di investimento, diventa l’unica possibilità per dare voce alle proprie finalità, l’obiettivo
primario è utilizzare diversi strumenti di comunicazione, ciascuno col proprio linguaggio e con la
propria modalità espressiva, per poter più velocemente emergere e caratterizzarsi .
Il “bilancio sociale” redatto dalle organizzazioni non profit come quello della Pubblica
amministrazione assume una valenza particolare come strumento che consente sia di monitorare i
comportamenti dell’organizzazione, sia di informare gli interlocutori, interni ed esterni, degli
obiettivi sociali raggiunti fornendo dati e informazioni necessari per un governo democratico. Per le
cooperative sociali, e non solo, il “bilancio sociale” costituisce un mezzo per migliorare
l’informazione rispetto a come ha agito l’organizzazione e a quali risultati è stata in grado di
conseguire in modo da fare risaltare la peculiarità del proprio operato e interagire in modo
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costruttivo con gli stakeholder . In quest’ottica è risultato importante enfatizzare il rapporto che si
instaura tra il mondo del terzo settore e i mezzi di comunicazione.
I media veicolano informazioni, aiutano a interpretare le dinamiche della società contemporanea e
soprattutto dettano l’agenda dei problemi e orientano le opinioni dei cittadini, chi opera oggi nel
campo dell’informazione ed della comunicazione istituzionale e sociale ha la precisa responsabilità
collettiva, che si collega direttamente all’etica pubblica. È irrealistico pensare che i mezzi di
comunicazione pubblici e privati, possano essere totalmente impermeabili all’influenza dei governi
e dei poteri economici, ma altrettanto irrealistico è credere che la sfera pubblica democratica possa
funzionare senza il contributo dei media 2
.
Se da un lato vi è dunque una reticenza da parte dei media a trattare il sociale, a “farlo diventare”
notizia, dall’altra vi è anche un’incapacità, volente o nolente, del mondo sociale di non sapersi
raccontare. Oggi, però, i media mostrano una maggiore attenzione nei confronti del terzo settore,
sintomo che il ruolo che quest’ultimo riveste nella società è sempre più importante, tanto che le
iniziative sul tema del “sociale” si moltiplicano. In ogni caso, la cooperazione sociale in Italia non
gode di buona stampa, in generale c’è una sottovalutazione molto forte dell’importanza e del ruolo
che esse giocano nell’economia e nella società.
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G. Gardini P. Lalli Per un’etica dell’informazione e della comunicazione giornalismo radiotelevisione new media
comunicazione pubblica , Milano, Franco Angeli, 2009 pagg. 9 – 10.
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