INTRODUZIONE
John Donne scrisse nel Seicento che “nessun uomo è un’isola”, frase che può essere
sottoposta a varie interpretazioni ma che essenzialmente afferma che l’essere umano è
un individuo sociale e come tale cresce, matura e vive costantemente all’interno di
gruppi di appartenenza come la famiglia e la comunità. L’uomo vive immerso nei
gruppi, all’interno dei quali assume determinati comportamenti e impara a definire se
stesso e la realtà che lo circonda. Di fronte alla sofferenza psicologica si sono rivelati
essere efficaci interventi che permettono da un lato l’espressione autentica di sentimenti
e preoccupazioni personali e dall’altro la condivisione di tali espressioni con altre
persone che vivono esperienze simili. Da qui l’importanza di approfondire lo studio
delle psicoterapie di gruppo, ritenute essere efficaci tanto quanto le terapie individuali
(Burlingame et al., 2004). Inoltre, la possibilità che gli interventi di gruppo abbiano un
ruolo specifico anche nelle persone affette da patologie mediche, è un dato riportato in
maniera evidente già dal secolo scorso (Costantini & Grassi, 2004).
La ricerca qui presentata si pone come obiettivo l’indagine e l’approfondimento dei
meccanismi difensivi e dell’andamento dell’alleanza terapeutica, letta come una
continua negoziazione intersoggettiva dei propri bisogni da parte di paziente e
terapeuta, all’interno di una psicoterapia dinamica breve di gruppo. La particolarità
risiede nel fatto che i membri del gruppo sono pazienti con diagnosi di fibromialgia,
una controversa sindrome dolorosa cronica che comporta spesso una sofferenza anche a
livello psicologico, data dall’impossibilità di avere un riscontro medico obiettivo e una
cura specifica. Per la rilevazione dei dati sono stati utilizzati due strumenti solitamente
impiegati nella ricerca sulle psicoterapie individuali come la DMRS (Perry,1989) e
l’IVAT 2.0 (Colli & Lingiardi, 2008).
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Per quanto riguarda il processo collaborativo, essendo questa una terapia con finalità di
sostegno, non ci si attendono grosse fluttuazioni bensì un andamento costante e medio-
elevato. Interessati, inoltre, alla particolarità dei pazienti, ci si è voluti soffermare sulle
tipologie di difese maggiormente utilizzate, prendendo in considerazione non solo la
terapia nel suo insieme ma anche le singole sedute, alla luce delle fasi di vita del
gruppo descritte da MacKenzie (2002). Come ultimo obiettivo, si è voluto verificare se
la presente terapia potesse dirsi efficace nel trattamento dei sintomi depressivi riportati
dai pazienti.
Nel primo capitolo vengono riportati diversi argomenti legati al concetto di gruppo,
dalla complessità della definizione alle diverse tipologie esistenti, dalle fasi di vita del
gruppo ai fattori terapeutici descritti da Yalom (1997).
Il secondo capitolo riporta brevemente la storia della ricerca nel campo della
psicoterapia individuale e di gruppo, con particolare riferimento a recenti studi che
hanno ricavato dati interessanti circa l’efficacia delle psicoterapie dinamiche.
Nel terzo capitolo lo spazio è dedicato alla relazione tra la malattia e le varie
tipologie di gruppo che si sono rivelate essere efficaci nel trattamento di svariate
problematiche a livello somatico. Un paragrafo è infine dedicato alla descrizione della
fibromialgia.
Il quarto e quinto capitolo offrono una panoramica dei concetti rispettivamente di
“difesa” e di “alleanza terapeutica”, partendo dal contributo storico dato dai vari autori
fino alla descrizione della DMRS e dell’IVAT 2.0.
Nel capitolo conclusivo viene riportato lo studio, presentando dapprima gli obiettivi
e le ipotesi che ci si è prefissi di raggiungere, i partecipanti e le metodologie utilizzate
nell’applicazione degli strumenti. In secondo luogo vengono descritte le procedure, le
analisi e i risultati ottenuti mediante l’indagine statistica con la relativa discussione
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clinica dei dati significativi. Al termine delle conclusioni sono stati riportati i limiti
della presente ricerca e i possibili sviluppi futuri.
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CAPITOLO 1
IL GRUPPO IN PSICOLOGIA CLINICA
1.1 Il gruppo: complessità della definizione
Dare una definizione semplice e univoca di gruppo è un’operazione che implica
notevoli difficoltà poiché si tratta di un fenomeno complesso e analizzato da molteplici
prospettive teoriche. Nonostante tale difficoltà, si può affermare che è proprio grazie
all’integrazione delle varie discipline che hanno come oggetto di studio il gruppo, che
possiamo avere una visione ampia di un fenomeno che nel tempo è divenuto così
rilevante nell’ambito della psicologia clinica (Marogna, 2009).
Il termine gruppo deriva dal germanico kruppa, traducibile come “nodo”,
“groviglio”, “rete”, e compare inizialmente in italiano come “groppo”. Il riferimento al
nodo rimanda a sua volta alla coesione tra i membri facenti parte di un insieme, una
coesione non certo lineare, che è il risultato stesso di un fitto intreccio, una matassa
appunto.
Diversi psicologi, sociologi e antropologi hanno proposto una definizione per il
concetto di gruppo e tra le principali ricordiamo quella di Lewin (1948) il quale
afferma che il gruppo è qualcosa in più o di diverso dalla somma dei suoi membri e che
quello che costituisce l’essenza del gruppo non è la somiglianza o la diversità tra i suoi
membri, ma la loro interdipendenza. Il grado di interdipendenza dipende, secondo
Lewin, dall’ampiezza, dall’organizzazione e dalla coesione del gruppo. Lewin
attribuisce molta importanza al gruppo anche nella teoria della personalità da lui
elaborata, dove sottolinea il concetto di “spazio di vita”. Quest’ultimo è l’insieme dei
fatti che determinano il comportamento di una persona, che in tal senso non può essere
vista indipendentemente dal suo spazio di vita, e quindi dal gruppo di cui fa parte.
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Secondo Bion (1961) il gruppo è un soggetto plurale che si riunisce per fare qualcosa e,
nell’esplicare questa attività, le persone cooperano attraverso le capacità di ciascuno.
Cattel sottolinea la natura quasi egoistica del gruppo in cui l’esistenza di tutti è
utilizzata per la soddisfazione dei bisogni di ognuno, mentre Olmsted ritiene che il
gruppo sia una pluralità di individui che sono in contatto reciproco, tengono conto gli
uni degli altri e hanno coscienza di avere in comune qualcosa di importante. Da queste
definizioni emerge come il gruppo venga visto come entità con peculiari caratteristiche,
che permettono ai membri che lo compongono di cooperare per un fine comune e
soddisfare i propri bisogni mediante la relazione con gli altri.
Di Maria e Falgares (2004) propongono un riassunto concettuale in cui il gruppo
viene definito come un insieme più o meno ampio di persone in interazione reciproca
basato su un legame percettivo. L’interazione avviene su almeno tre livelli:
l’influenzamento reciproco in cui il soggetto cerca di adattarsi agli altri e di far adattare
gli altri a sé; l’agire “contingente” caratterizzato dai vincoli di tempo e spazio; e il
“fare” insieme qualcosa (Bion, 1961) ovvero ritrovarsi per uno scopo condiviso. Il
legame percettivo consiste, invece, secondo gli autori, sia nel soddisfare un bisogno o
un desiderio individuale sia nel soddisfare un bisogno comune e diverso da quello dei
singoli membri.
Grazie ai contributi di grandi studiosi afferenti a diverse aree della psicologia
apparentemente diversi tra loro, è stato possibile sottolineare la natura profondamente
sociale (gruppale) dell’essere umano. Le riflessioni sul concetto di gruppo hanno
permesso di considerarlo uno straordinario strumento di sviluppo e trasformazione
degli individui, spazio mentale e fisico in cui la convivenza con gli altri consente di
soddisfare bisogni soggettivi e plurali e di valorizzare la propria autenticità
nell’incontro con la diversità (Di Maria & Falgares, 2004).
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1.2 Classificazione dei gruppi
Le applicazioni teorico – pratiche del gruppo sono varie e multiple quanto la
complessità e la diversità umana. Ciò costringe a pensare alcuni fondamentali aspetti
del lavoro gruppale che spesso lo definiscono, lo sostanziano, ne determinano gli esiti.
Di Maria e Falgares (2004) propongono alcune distinzioni tra:
- ORIGINE: i gruppi possono prendere forma in modo spontaneo o in modo
organizzato;
- COMPOSIZIONE: distinguiamo tra gruppi omogenei (aventi la stessa patologia, età,
sesso ecc.) e gruppi eterogenei (aventi problematiche e caratteristiche diverse);
- DURATA: i gruppi possono essere temporanei o duraturi. In particolare per quanto
riguarda le terapie di gruppo si parla di interventi a breve termine (al di sotto
delle 25 sedute o dei sei mesi), a tempo limitato (con un termine prestabilito e
con una lunghezza che può variare da 12 fino a 70 sedute) e a lungo termine
(Costantini, 2000);
- DIMENSIONI: si definisce piccolo gruppo se i partecipanti sono inferiori a dodici,
gruppo medio se i membri vanno da tredici a venti e, infine, si parla di grande
gruppo se superano tale numero. Ovviamente, come sottolinea MacKenzie
(2002), più un gruppo è grande, più la sua potenziale complessità aumenta;
- FORMATO: si parla di gruppo chiuso quando i partecipanti che iniziano e
terminano il trattamento sono sempre gli stessi (salvo drop-out), mentre il gruppo
aperto permette la libera entrata di altri partecipanti durante la terapia;
- OBIETTIVI: in base al focus che si vuole raggiungere, è possibile classificare i
gruppi nel modo seguente:
Gruppo di discussione: promuove lo scambio tra i componenti del gruppo
rispetto ad una tematica, un’esperienza. Sono previsti da 2 a 10 incontri
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secondo l’argomento di discussione e il risultato che si intende
raggiungere;
Gruppo di informazione: fornisce e riceve informazioni su uno specifico
argomento. Si tratta di gruppi eterocentrati in cui i membri si limitano a
porre domande e a offrire chiarimenti sul tema in discussione;
Gruppo di orientamento: si propone di ascoltare e far emergere le
aspettative e le motivazioni di ciascuno, in modo da renderli consapevoli
circa le loro competenze e responsabili delle scelte prese in funzione di
quanto avvenuto;
Gruppo di sostegno: si propone la discussione e il confronto individuale e
collettivo sul disagio di cui i partecipanti sono portatori, al fine di
ricevere sostegno dal gruppo;
Gruppo di prevenzione: sollecita l’attivazione e il recupero di
potenzialità dei singoli, individuando ipotesi di progettazione e
programmazione che abbiano una rilevanza sociale;
Gruppo di educazione al benessere: sviluppa l’area della cultura, della
creatività negli spazi ricreativi e ludici;
Gruppo terapeutico: promuove l’elaborazione delle difficoltà
intrapsichiche e relazionali, permette la presa di coscienza di ciò che
avviene all’interno del singolo e del modo che ha di entrare in relazione
con gli altri mediante l’impiego della dinamica di gruppo.
1.3 Definizione di psicoterapia di gruppo
La psicoterapia di gruppo è una forma di psicoterapia in cui l’intervento clinico viene
inserito in un contesto gruppale, dove tre o più pazienti sviluppano tra loro legami
relazionali, una cultura comune e danno vita a potenti meccanismi trasformativi.
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Mentre il processo terapeutico individuale si fonda sulla relazione tra paziente e
terapeuta e sugli interventi di quest’ultimo, nelle terapie di gruppo lo scenario diventa
notevolmente più complesso. Il singolo paziente, in quanto membro del gruppo,
costruisce delle relazioni con tutti i membri e non soltanto con il terapeuta. Il livello
relazionale che si attiva in gruppo è leggibile come insieme delle relazioni tra i singoli
pazienti del gruppo, tra pazienti e terapeuta e tra pazienti con il gruppo nel suo insieme.
Generalmente viene riconosciuta la centralità dell’utilizzo dell’ambiente di gruppo
per fare esperienza delle relazioni tipiche che caratterizzano i modelli relazionali del
singolo nelle interazioni con gli altri. Il gruppo fornisce un ambiente unico per
sperimentare, all’interno delle relazioni reali del “qui ed ora” della seduta, la
complessità delle proprie reazioni emotive nell’interazione con diverse persone, e non
solo con la figura del terapeuta. Questo livello relazionale molteplice comporta per il
singolo paziente il poter comprendere la natura dei propri problemi psicologici anche a
partire dalle risposte degli altri membri del gruppo, oltre che dagli interventi del
terapeuta. Nei gruppi terapeutici, infatti, i membri esprimono una grande varietà di
considerazioni, idee, emozioni ed esperienze, che possono essere utilizzate da tutti
come materiale per attivare domande e riflessioni negli altri. Le dinamiche interattive
del gruppo vengono, infatti, in molti casi utilizzate come materiale clinico principale,
assieme alle esperienze passate dei componenti del gruppo ed alle loro esperienze di
vita al di fuori del gruppo.
1.4 Storia della psicoterapia di gruppo
Il primo utilizzo del gruppo con intenti terapeutici viene fatto risalire al lavoro di
Joseph Pratt, medico bostoniano che, a partire dal 1904, integrò il trattamento di malati
affetti da tubercolosi con riunioni, durante le quali si discutevano aspetti sia medici che
psicologici della malattia. Secondo Pratt, tali incontri avevano esiti positivi sia sul
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morale dei pazienti sia sulla sintomatologia, trovando in ciò conferma della sua
principale ipotesi, ovvero che non si possa separare la salute psicologica dal decorso
fisiologico della malattia. Il nuovo modo di trattare i pazienti ebbe una vasta eco e
ispirò alcuni psichiatri, tra i quali Lazel e Marsh che applicarono la terapia di gruppo a
pazienti psicotici. È stata da loro sottolineata soprattutto la potenzialità del gruppo
nell'influenzare la dimensione relazionale e le risonanze affettive del disturbo sul quale
principalmente si interveniva. L’efficacia del nuovo tipo di terapia ebbe grande
risonanza in vari paesi e coinvolse clinici di orientamenti teorici diversi.
1.4.1 I gruppi a matrice psicoanalitica
Le prime teorie psicoanalitiche del gruppo non si sono tutte sviluppate su basi
metodologiche psicoanalitiche. L’importazione di concetti esterni rispetto al campo
della psicoanalisi è stata fatta a rischio di pratiche a volte ambigue, ma è servita per
accogliere problematiche fino ad allora escluse dal campo della ricerca psicoanalitica: i
concetti di intersoggettività, di appartenenza e alienazione hanno avuto origine da
questo processo (Kaёs, 2007).
Il gruppo è stato inizialmente un’ “applicazione” della psicoanalisi a soggetti che
non potevano beneficiare di una psicoterapia individuale nella sua forma classica.
Grazie ad alcuni psicoanalisti, tra i cui precursori ritroviamo Burrow (1927), si
delinearono diversi orientamenti teorici che sono stati definiti: analisi in gruppo,
analisi di gruppo e analisi mediante il gruppo.
La proposta di Burrow
Attorno agli anni ’30, negli Stati Uniti, Burrow (1927) fece le prime esperienze di
gruppo a matrice psicoanalitica. Egli diede molta importanza ai rapporti sociali tra i
pazienti, poiché riteneva che questi fossero sia la causa della malattia sia la possibile
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fonte di guarigione. In particolare la terapia di gruppo venne letta come strumento
terapeutico per il trattamento della nevrosi, nel suo significato di patologia sociale e
non individuale. Secondo il pensiero di Burrow, infatti, il disturbo nevrotico nasce dal
contrasto tra la primaria tendenza aggregativa, volta alla solidarietà e all’integrazione
sociale che ciascun soggetto porta dentro di sé, e l’imposizione morale e di
comportamento imposti dalla società. Le nevrosi, quindi, non sarebbero più disturbi che
nascono dal conflitto tra forze all’interno dell’individuo bensì da un conflitto che
coinvolge l’intera società. In chiave psicoterapeutica il gruppo è, allora, l’unica
possibilità di trattamento dei conflitti psichici perché permette la messa in crisi di false
immagini di sé dettate dai ruoli e dalla morale sociale. Il pensiero innovativo di
Burrow, in netto contrasto con la visione freudiana, ne comportò l’espulsione dalla
società psicoanalitica. Infatti, nonostante il suo interesse verso i fenomeni sociali, Freud
non pervenne mai ad una teorizzazione di una psicologia sociale su base psicoanalitica
e fu sempre molto attento alla questione che la psicoanalisi restasse una psicologia
individuale.
L’analisi in gruppo
Essendo l'individuo il destinatario privilegiato del trattamento psicoanalitico, è stato
naturale, per i primi psicoanalisti che lavoravano con i gruppi terapeutici, concepire tali
trattamenti come terapie individuali condotte in gruppo e ritenere quest’ultimo solo un
“ambiente” nel quale effettuare una terapia rivolta al singolo. Tali trattamenti vennero
definiti analisi in gruppo e una delle figure più rappresentative di questo orientamento è
Slavson (1940). Egli giunse alla psicoterapia di gruppo dal lavoro con gruppi di
bambini ed ebbe modo di valutare positivamente la possibilità di svolgere una vera e
propria pratica psicoanalitica individuale in gruppo, cogliendone gli aspetti più positivi
ed incoraggianti. In particolare, riteneva che questo modo di concepire l’analisi
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consentisse una maggiore visibilità degli atteggiamenti transferali dei pazienti grazie
alla presenza di “transfert multilaterali” e al fatto che il gruppo si costituisse per
ciascun membro come possibile riproduzione del nucleo familiare originario. Inoltre,
attribuiva al gruppo una maggiore efficacia per quanto riguarda lo stabilirsi della
capacità di effettuare corretti esami di realtà da parte dei pazienti, per la simultanea
presenza di più percezioni. Tuttavia non giunse mai ad attribuire un vero e proprio
valore terapeutico al gruppo in quanto tale, al punto che considerava la coesione un
ostacolo al lavoro del terapeuta e ritenendo che quest’ultimo dovesse porre le
interpretazioni sempre e comunque verso il singolo paziente in termini strettamente
intrapsichici. Successivamente Wolf e Schwartz sistematizzarono il modello in modo
più rigoroso con la pubblicazione nel 1962 del trattato Psychoanalysis in Groups. Wolf,
pur rimanendo sempre aderente ai principi psicoanalitici, assunse via via una posizione
più tollerante di quella di Slavson rispetto alle dinamiche di gruppo, senza però
giungere a considerarle fattore terapeutico. Il gruppo viene visto, quindi, come un
semplice insieme sommatorio di individui, privo di peculiari caratteristiche
psicodinamiche extraindividuali (Di Maria & Falgares, 2004).
L’analisi di gruppo
L’analisi di gruppo si sviluppò in America ed Inghilterra durante la seconda guerra
mondiale, quando numerosi psicoanalisti presero in carico situazioni d’urgenza, come
le nevrosi traumatiche prodotte dalla guerra, e nacque la necessità di inventare
strumenti economici (nel senso finanziario e psichico del termine) per trattarle,
scoprendo così la loro efficacia. Uno dei centri psichiatrici militari più importanti era
quello di Northelfield, dove per la prima volta, ad opera di Bion (1961), furono
applicate le regole del setting psicoanalitico ai gruppi. Il gruppo non viene più
considerato in modo semplicistico come la somma dei suoi membri bensì come
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un’unità, un tutto. In quest’ottica considerò il reparto intero e non i singoli pazienti al
suo interno come destinatario degli interventi. In un’interessante definizione, Bion
descrive il gruppo come un “insieme di persone che si trovano allo stesso grado di
regressione per effetto delle rinunce che derivano dal contatto di ciascuno con la vita
affettiva del gruppo” (Bion, 1961). Ciò può essere spiegato dal fatto che Bion ebbe
alcune intuizioni durante il suo lavoro con i gruppi: notò, in particolare, che l’individuo
adulto deve stabilire un contatto con la vita emotiva del gruppo e ciò gli pone il
problema di evolversi, differenziarsi e affrontare le paure connesse con questa
evoluzione. Pertanto, le esigenze e le difficoltà che emergono all’interno di un gruppo
portano il soggetto ad una regressione. Secondo il pensiero di Bion, la terapia possiede
una duplice finalità: da un lato vi è la cura dei sintomi nevrotici, e dall’altro lato si mira
alla maturazione delle forze che facilitano la cooperazione di gruppo. In questo senso la
terapia di gruppo deve tener conto di alcuni fattori da lui definiti come
Mentalità di gruppo
Cultura di gruppo
Assunti di base
Gruppo di lavoro VS Gruppo fondato sugli assunti di base.
La mentalità di gruppo può essere definita come l'espressione unanime del volere del
gruppo, è il “luogo” in cui confluiscono i singoli contributi dei membri e in cui in parte
vengono soddisfatti i desideri e gli impulsi del gruppo. La mentalità di gruppo
rappresenta, per il singolo, un ostacolo al raggiungimento dei propri obiettivi. Il
conflitto che scaturisce tra la mentalità del gruppo e i desideri del singolo viene risolto
elaborando una cultura di gruppo, la quale è caratterizzata da struttura, organizzazione,
regole e attività che il gruppo adotta. Gli assunti di base descrivono la manifestazione
delle regressioni dei membri e costituiscono uno dei concetti fondamentali della teoria
bioniana. Gli assunti sono tre e si presentano a tutti gli effetti come delle difese che
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impediscono l'emergere di angosce primitive, e sono: la Dipendenza, l'Accoppiamento e
l'Attacco – Fuga. Essi giocano un ruolo determinante nell’organizzazione di un gruppo,
nella realizzazione del suo compito e nel soddisfacimento dei bisogni e dei desideri dei
suoi membri. Sono e rimangono inconsci, esprimono fantasmi inconsci e sono soggetti
al processo primario.
Nell'assunto della “dipendenza” il gruppo si riunisce in attesa di protezione, conforto e
difesa che dovrebbe derivare da un capo che assicura conforto e nutrimento. In questo
senso i membri desiderano trarre benefici non dal gruppo ma solo dal suo capo. Il
gruppo vive una sorta di relazione simbiotica con il leader, sentendo il bisogno di
essere protetti dal sopraggiungere di affetti vissuti come potenzialmente disturbanti e
destabilizzanti, ai quali i soggetti non si sentono preparati.
L'assunto dell’“accoppiamento” è connesso con un sentimento di speranza e di
attesa per l'arrivo di un messia, che “dovrà nascere” dal rapporto tra due componenti, e
tale sentimento supporta la speranza di una possibile evoluzione del gruppo. Infatti,
quando due membri creano una relazione più stretta viene letta dal gruppo come
rapporto di coppia e si vengono a creare perciò dei conflitti. Questa relazione di coppia
può avere lo scopo di opporsi alla cultura predominante del gruppo.
Il terzo assunto, l'attacco – fuga, rappresenta un tentativo di autodifesa che ha come
obiettivo la conservazione del gruppo; i membri percepiscono una minaccia e si
preparano nella lotta contro qualcosa o nella difesa di qualcosa. La funzione del leader
è quella di guidare, come capo, gli sforzi del gruppo verso l'attacco o nella difesa
contro il nemico. L'assunto di attacco – fuga è per Bion la principale fonte, se non
l'unica, di autodifesa del gruppo, e può accadere che il leader venga giudicato come
colui che si sottrae al proprio compito, poiché il bisogno dei singoli partecipanti è di
avere un capo che mobilita il gruppo, per attaccare qualcuno o per essere la guida nella
fuga. Bion considera gli assunti di base come tecniche di autoconservazione del gruppo
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e rappresentano, in prospettiva filogenetica, l'allevamento e la cura (dipendenza), la
riproduzione della specie (accoppiamento) e la protezione del gruppo da pericoli interni
o esterni (attacco – fuga). L’autore ha messo in evidenza la somiglianza delle loro
caratteristiche con i fenomeni descritti dalla Klein nella sua teoria sugli oggetti parziali,
sulle angosce psicotiche e sulle difese primarie. Da questo punto di vista, gli assunti di
base sono delle reazioni difensive gruppali contro le angosce psicotiche riattivate dalla
regressione imposta all’individuo nella situazione di gruppo.
Bion, infine, distingue due modalità di funzionamento del gruppo: il gruppo di
lavoro e il gruppo fondato sugli assunti di base, i quali tendono ad assumere un
equilibrio nel corso della terapia. Nel gruppo di lavoro il funzionamento psichico del
gruppo è caratterizzato da meccanismi più evoluti, dalla disponibilità ad apprendere
dall'esperienza e dalla cooperazione per il raggiungimento di un obiettivo comune,
pertanto rappresenta la condizione ottimale. Diversamente, il gruppo governato dagli
assunti di base costituisce una potente difesa gruppale, che si oppone al cambiamento e
alla trasformazione in senso maturativo, per quanto riguarda l'obiettivo terapeutico.
Bion (1961) considera il gruppo di lavoro come una dimensione mentale, sempre
presente, che ha bisogno di essere sviluppata con impegno costante. I membri del
gruppo devono “apprendere dall'esperienza”, riconoscendo di avere un compito
specifico da svolgere, stabilendo delle regole, promuovendo la cooperazione e
definendo un metodo di lavoro comune e condiviso.
Il pensiero bioniano si è rivolto anche al concetto di leader. Egli rovescia l'ipotesi di
Frued sul rapporto tra leader e gruppo: non è il capo a generare il gruppo bensì è il
gruppo ad esprimerlo, e tale scelta avviene mediante processi quali l'identificazione
proiettiva.
In conclusione Bion (1961) afferma che alcune caratteristiche dell'individuo non
possono essere spiegate se non all'interno del terreno di studio adatto: il gruppo. Egli è
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