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Introduzione
La modernità ha delle caratteristiche sociali e culturali che possono definirsi peculiari
del nostro tempo, e che furono estranee ad ogni civiltà del passato e ad ogni località
geografica del mondo. Sono caratteristiche che basano la permanenza dell’uomo nel
mondo e il suo vissuto su un forte antropocentrismo, derivanti dall’illusione di una
profonda scissione tra sé e la natura. Sono caratteristiche figlie di una tradizione
giudaico-cristiana, che fin dal mito delle origini nella Genesi ha riconosciuto
un’importanza peculiare all’uomo rispetto agli altri esseri senzienti. E sono
caratteristiche che sono derivate, soprattutto negli ultimi due secoli, dal culto
dell’uomo, del potere, del controllo della natura e di sé in nome di un primato
economico che garantisca il progresso verso un mondo sempre più certo, prevedibile,
sottomesso.
Ma parallelamente alla ricerca del progresso, del controllo, della salvezza di sé nella
costruzione sociale di un mondo entro cui poter garantire certezze e “salute” a sé e alle
generazioni future, la modernità è anche il luogo storico delle più grandi fragilità
esistenziali. Un’epoca di profondi disagi psichici, legati a un senso di vuoto e di
smarrimento umano che vengono mascherati da una fretta e rincorsa al successo
personale compensatorie. E’ l’epoca di una grande crisi esistenziale e spirituale, che
se inizialmente ha promesso nella forza dell’Io la possibilità per l’uomo da un lato di
elevarsi al vertice della catena degli esseri viventi, e dall’altro di controllare la
direzione della sua stessa esistenza, dagli inizi del XX secolo ha mostrato il suo lato
oscuro, negato, rimosso attraverso diverse forme di psicopatologia.
Per comprendere, contestualizzare, significare e curare questi sintomi, in Occidente è
nata una forma di psicologia rivoluzionaria nella sua profondità d’indagine, la
psicoanalisi. Se prima del suo avvento vi era un forte biologismo nella considerazione
delle cause delle nevrosi, grazie a S. Freud si cominciò a riconoscere l’importanza
della psiche inconscia sia nella loro produzione, che nella loro terapia. Cominciava a
rivelarsi il fatto che “l’Io non è padrone in casa propria”.
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Con lo sviluppo industriale e l’ingresso nella società moderna dalla seconda metà del
secolo scorso, la situazione psicologica tuttavia non è migliorata. Il numero di pazienti
che si rivolgevano agli analisti aumentava, ma soprattutto il tipo di richieste anche
inconsce che si rivolgevano loro erano diverse: non più tante persone sintomatiche o
manifestanti segni di nevrosi, ma più spesso persone che avvertivano un senso di
estraneità da sé stessi e dalla loro vita, una profonda infelicità esistenziale.
E’ la condizione che Fromm, promotore di un nuovo tipo di psicoanalisi, più affine a
queste esigenze, chiamava alienazione. Fu uno dei primi a sostenere che non solo
queste richieste vaghe e a-sintomatiche, ma anche i sintomi nevrotici, fossero basati
tutti su un ben più radicale male dell’uomo moderno, la perdita di contatto autentico e
intimo con la propria interiorità e, di riflesso (ma c’è poca differenza), con l’ambiente
in cui si vive. Un uomo alienato dunque, alienato spiritualmente dalla propria essenza
profonda, in preda al lavoro meccanico, al consumismo, e ad ogni altro tipo di attività
sociale “compensatrice” rispetto alle sue più profonde esigenze auto-realizzative e
umanistiche, da cui la denominazione di psicoanalisi umanistica.
Ma gli sviluppi di Fromm non furono né gli unici, né i primi in questa direzione.
Contemporaneamente all’operato analitico di Freud, nei primi decenni del ‘900,
fondava un nuovo tipo di teorie sull’inconscio e un nuovo tipo di analisi Carl Gustav
Jung. L’idea di Jung, derivatagli dall’osservazione di un tipo di sintomatologia diverso
da quello freudiano (in quanto Jung aveva a che fare con pazienti psicotici), una
sintomatologia fortemente immaginativa e simbolica, fu che il fondamento più intimo
e profondo della coscienza e della vita psicologica umana fosse un Inconscio
Collettivo, sede non del rimosso (depositato in un Inconscio personale), ma delle più
grandi potenzialità creative dell’uomo, quindi seme della sua possibilità di
autorealizzazione, di individuazione. Ed è uno strato talmente profondo ed essenziale
della psiche umana, da caratterizzare ogni essere umano in ogni luogo e tempo, in
quanto parte di questa specie.
Se in Occidente ci sono stati questi tentativi di recuperare il contatto con la propria
Reale, profonda, autentica natura, come soluzione alla crisi spirituale ed
antropocentrica (intesa come ego-centrica, dato che secondo questi nuovi orientamenti
porre al centro l’Uomo, la persona totale, non può che significare tenere in
considerazione, riconoscere, rispettare tutto ciò che scaturisce della natura), l’Oriente
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non ha mai avuto necessità di recuperare un tipo di contatto spirituale mai perso. In
realtà non si può dire che l’Occidente lo abbia mai perso, in quanto è impossibile non
sottostare alle leggi della natura, piuttosto ha creduto, si è illuso di potersene
differenziare e porre al di sopra, e da questa illusione i sintomi che hanno caratterizzato
(e quanto mai oggi stanno caratterizzando) la modernità come uniche modalità della
natura di potersi esprimere (compensazione inconscia junghiana: “le divinità sono
diventate malattie”). Un Oriente che in tutte le sue tradizioni filosofico-religiose ha
posto al centro della propria presenza nel mondo l’esperienza religiosa, psicologica.
Un Oriente che ha prodotto una mole incredibile (soprattutto con l’induismo) di miti e
testi, espressione dell’esigenza interna di riconoscere delle forze naturali avvertite in
sé come minacciose, estranee, distruttrici, o al contrario generose, salvifiche, creatrici,
che sono anche parti così profonde e varie della completezza della natura umana. Un
Oriente che è depositario di una concezione dell’uomo mai slegato dagli altri esseri
viventi, dalla natura e dalle sue leggi, come manifestano i grandi testi taoisti
nell’evidenziare il movimento, il dinamismo, la ciclicità degli opposti come la
caratteristica più essenziale ed ineliminabile della natura (e dell’uomo, che ne fa parte).
E un Oriente che proprio in virtù di questi aspetti così “mistici” e a-scientifici è
risultato quanto mai estraneo, speculativo, occulto agli occhi di noi occidentali.
Ma nei testi e nei principi di queste culture millenarie è palese una grande
consapevolezza e apertura al Sé. E un riconoscimento della libertà spirituale come
allineamento con le leggi naturali che ci muovono, le stesse che muovono anche il
mondo che ci circonda. Libertà come servitù, paradosso che fa accedere a quel
sentimento tanto ricercato all’esterno ma mai trovato dall’occidentale, paradosso la cui
accettazione coincide con la “grande rinascita”.
E allora come poter trovare un punto d’incontro tra queste forme d’espressione
spirituale così religiose, mistiche, mitologiche, e un Occidente pratico, pragmatico,
tecnico, che rifiuta ogni tipo di mistica e mitologia, ma che comunque necessita di
recuperare consapevolezza della propria natura e spiritualità?
Nel contatto tra una Cina molto pratica e pragmatica del IV-V secolo e il buddhismo
mahayana che si andava diffondendo in diversi paesi dell’Asia in quel periodo, la
cultura cinese diede origine a una nuova forma di buddhismo, il Ch’an, che poi a partire
dal XXII secolo si consolidò in Giappone con il nome di zen.
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Diversi autori occidentali e orientali figli della modernità hanno richiamato
l’attenzione sullo zen, che ha una peculiarità rispetto a tutte le altre forme di
buddhismo, o di qualsiasi altra tradizione filosofico-religiosa antica o moderna,
occidentale o orientale; una peculiarità che ha portato i più grandi esperti
sull’argomento a definirlo come universale nella sua possibilità esperienziale: la
mancanza di ogni altro aspetto che non sia l’esperienza diretta di presenza interiore in
ogni momento; la mancanza quindi di ogni tipo di autorità, principio, dogma, logica,
orientamento etico, sistema di raggiungimento di uno stato diverso da quello attuale.
In questo approccio diretto alla vita, alla propria vita, lo zen vuole la grande morte
dell’ego, la rinuncia ad ogni credenza, idea, distorsione dettata da conoscenze
convenzionali, nella creazione di uno spazio vuoto solo dal quale può scaturire l’unica
azione spontanea del momento, quella che si accorda alle leggi del Tao, alla nostra
posizione nell’ambiente date le condizioni degli elementi della situazione e le loro
relazioni sincroniche. Una situazione potenziale e abissale, che precede ma anche
segue la divisione auto-cosciente in dicotomie logiche, ed entro cui pertanto non vi è
distinguo tra passato, presente e futuro, ma in cui tutto si concentra nel gesto
spontaneo, nell’unico atteggiamento che può condurci verso la nostra destinazione.
Essendo questa la condizione naturale dell’uomo come di ogni altro essere vivente,
dovrebbe essere quanto di più semplice possa esistere. Ma per l’uomo moderno sembra
essere quanto di più lontano ci sia dalla sua vita, figlio di una società estranea a
qualsiasi possibilità di arresto e di ascolto interiore. E allora “proprio questo non far
nulla (affidamento al vuoto) potrebbe essere la cura migliore per l’Io sofferente
moderno” (Kawai, 1995), in quanto “facendo niente, non c’è niente che non si faccia”
(Lao-tze).
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Capitolo 1
Verso il buddhismo
1. Differenze sostanziali nei modelli di pensiero tra Occidente e Oriente
Un paragrafo introduttivo sulle differenze tra la tradizione occidentale e quella
orientale nel “pensare” il mondo e sé stessi è fondamentale per poter comprendere
l’approccio alla vita che caratterizza le tradizioni Vedanta, buddhista e taoista, ognuna
delle quali ha dato un contributo fondamentale per la nascita del buddhismo zen.
La consapevolezza di tali differenze può aiutare il lettore occidentale che si approccia
a quelle tradizioni a superare le difficoltà nelle quali può facilmente incorrere, se le
guarda attraverso la lente del suo sistema di pensiero convenzionale.
Lo zen infatti, come le tradizioni sopra citate, non appartiene ad alcuna categoria
formale del moderno pensiero occidentale: non è religione, né filosofia, né psicologia,
né un particolare tipo di scienza. Nella sua essenza, è un esempio di ciò che in India e
in Cina è noto come “via di liberazione”, e in quanto tale non può esser racchiuso in
una definizione positiva in termini occidentali: si può solo suggerire ciò che esso “non
è”, come vedremo nello specifico nel secondo capitolo.
Data questa prima fondamentale difficoltà, è necessario tenere in considerazione le
differenze nei modelli di pensiero delle culture qui esposte rispetto all’Occidente,
evitando che le filosofie indiana e cinese diventino una proiezione di idee tipicamente
occidentali (compreso un approccio scientifico all’argomento), che porterebbero il
lettore a valutare lo “spirito orientale” come irrazionale e imperscrutabile.
In realtà non è necessariamente questo il destino del lettore occidentale, e sebbene
questi temi siano squisitamente indiani, cinesi e giapponesi, non dobbiamo credere che
manchi un punto di contatto con la nostra cultura. Anzi, la forza dello zen, com’è stato
detto da più autori, è l’universalità delle sue intuizioni (Suzuki, 1939). Un esempio di
questa visione è offerto dal testo di R.H. Blyth, Zen in English literature and Oriental
Classics (Blyth R.H., 1948; cit. in Watts, 1957), e da Suzuki stesso quando afferma: