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INTRODUZIONE
Nel 1999 siamo venute a conoscenza dell‟esistenza di una nuova filosofia
all‟interno del campo medico che inizia ad operare quando “non c‟è più niente da
fare” per il tecnico e per la terapia rivolta alla guarigione.
Le cure palliative rappresentano un‟attitudine che si traduce in un‟attenzione
rivolta prima alla persona, poi alla malattia, consistono in attività rivolte al malato
e alla sua famiglia, rispondendo ai loro reali bisogni nell‟ottica di salvaguardare la
dignità della persona e la qualità di vita del malato.
Uno dei bisogni principali del paziente terminale risulta essere quello di morire
nella propria abitazione e circondato dagli affetti più cari; questa necessità di
vicinanza e conforto viene soddisfatta pienamente dai programmi domiciliari,
garantiti dalle équipes di cure palliative.
Questi temi hanno, da subito, suscitato in noi grande interesse perché, pur
essendo apparentemente scontate la priorità del malato sulla malattia e la
legittimità di voler trascorrere gli ultimi giorni di vita a casa, nella pratica questo
non avveniva e si moriva in ospedali soli e nascosti da un paravento.
Abbiamo iniziato, così, a documentarci utilizzando sia i principali testi inerenti
questo argomento, sia numerose informazioni presenti su internet.
Il nostro lavoro si articola in tre parti: la prima di carattere esclusivamente
bibliografico, la seconda calata nella realtà biellese e la terza “esperienziale”.
La prima parte è suddivisa in tre capitoli: nel primo capitolo, dopo aver
definito la filosofia delle cure palliative, compiamo un breve excursus storico del
loro sviluppo in Italia e nel mondo. Segue un paragrafo dedicato a coloro che
beneficiano delle cure palliative e alcuni studi, in ambito psicologico, compiuti in
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questo campo. Il capitolo si conclude con la descrizione dei contesti in cui si
applicano le cure palliative.
Nel secondo capitolo riportiamo l‟indispensabile cambiamento della filosofia
medica che ha reso possibile lo sviluppo delle cure palliative; altro argomento
trattato è quello della morte che nella nostra società è spesso ancora considerata
un tabù.
Il terzo capitolo è dedicato all‟équipe multidisciplinare di cure palliative con
particolare attenzione al ruolo e agli interventi dello psicologo.
Nella seconda parte è descritto il nostro contesto di osservazione all‟interno
della realtà biellese per quel che concerne le cure palliative.
La terza parte è composta da tre capitoli: nel primo, una descrizione degli
strumenti da noi utilizzati nella nostra esperienza; nel secondo, la raccolta di
alcune storie famigliari di pazienti presi in carico dall‟Unità Operativa di Cure
Palliative (UOCP) e dall‟hospice ed infine, nel terzo, le nostre conclusioni e
riflessioni finali.
Non abbiamo avuto, se non nelle riunioni mensili, rapporti diretti con il malato
terminale e la sua famiglia, ma filtrati dagli infermieri professionali dell‟équipe
che hanno compilato le schede di osservazione, rendendo possibile il nostro
avvicinamento a queste delicate tematiche.
Nel convegno “Perché le cure palliative?” tenutosi a Casale Monferrato il 7
ottobre 2000, abbiamo conosciuto il responsabile dell‟UOCP di Biella, e abbiamo
preso i primi contatti.
Il responsabile, in collaborazione con la psicologa dell‟équipe, ci ha offerto la
possibilità di partecipare alle riunioni settimanali del team multidisciplinare, in
qualità di osservatrici.
Durante il suddetto convegno, è stata proiettato un filmato che riportava
l‟intervista ad un malato terminale preso in carico dalle cure palliative; riportiamo
di seguito le commoventi parole che non necessitano di commento:
“ ... ho incominciato a capire lo scollamento che c‟è tra il medico che ti cura il
tumore, ... non voglio dire che non si occupa più di te, è che non è nella loro
cultura, loro pensano esclusivamente a cercare di curare il tumore, ... io so che
devo morire ... cioè l‟ho seguita talmente passo a passo questa mia malattia, che lo
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so benissimo che devo morire, però si può morire con tanta dignità o con
nessunissima dignità.
Questo non è bello perché uno non è più un uomo, perché perde il senso di quello
che significa essere un uomo ...
Io sentivo urlare una donna ... poverina ... - fatemi morire -, ma si può sentire
cose del genere dopo quattro mesi, ... una notte, infatti, è morta dal dolore ... è
qualcosa di disumano.
Io mi sento ancora il tumore, ma mi sento un uomo, un uomo che ha riacquistato
la voglia di vita ... è importantissimo!
... ma può un ospedale oncologico essere privo di strutture del genere, siamo
fuori della grazia di Dio! Non è possibile, non è umano!
Qui mi sono sentito un essere umano, il loro problema in quel momento era il mio
dolore, è chiaro che io non spero di curare il tumore, ma la mia dignità di uomo!
Dopo tre giorni non ho più dolori, tanto è vero che ho ricominciato a mangiare
del brodo ... ma sa che neanche l’acqua mi entrava?
Speriamo in Dio che li illumini a fare qualcosa di serio, che aiuti strutture serie
che vogliono fare cose del genere ...”
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PARTE PRIMA
LE CURE PALLIATIVE
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1. COSA SONO LE CURE PALLIATIVE
“Non esiste nell’assistenza un momento in cui non si possa più
fare nulla, anche il più piccolo dei gesti ha il suo valore.
Bisogna prestare molta attenzione, riuscire a leggere un viso è
una delle esperienze umane più belle, ma anche una delle più
difficili; il viso parla un linguaggio speciale, è come leggere
un meraviglioso libro, che si apre soltanto quando sa di essere
compreso.” (Costa A.)
1.1. Definizioni
“La cultura dominante nelle aree forti e ricche del nostro pianeta tende a
rimuovere la sofferenza e la morte, vissute solo come terribili e inaccettabili
sconfitte, rispetto alle possibilità all‟apparenza illimitate offerte dalla scienza e
dalla tecnica. Non si tratta della fisiologica rimozione che ci aiuta a vivere e a non
pensare al giorno della nostra morte, ma di qualcosa di più profondo e oserei dire
istituzionalizzato che, paradossalmente, trascura la qualità della vita del paziente
senza speranza di guarigione ed emargina tutto ciò che disturba l‟onnipotenza
tecnologica. Non a caso, si muore sempre più spesso in ospedale, in un ambiente
anonimo e talora lontani dalla propria famiglia e dagli affetti più cari ...”
Questo è lo scenario culturale delineato dall‟ex ministro della sanità Rosy
Bindi nell‟editoriale del primo numero del 1999 della Rivista italiana di Cure
Palliative, cioè di quelle cure che nascono sia per dare una risposta al dolore del
malato terminale, sia per elaborare risposte assistenziali che diano valore
all‟ultimo tratto della loro vita.
Le cure palliative, infatti, sono il trattamento attivo, globale e multidisciplinare
dei pazienti affetti da malattia che non risponde più ad interventi specifici.
Gli scopi di questi interventi sono il raggiungimento della migliore qualità di
vita possibile per i pazienti, mettendo in secondo piano la sopravvivenza, e la
sollecitazione di tutte le potenzialità del malato, incoraggiandone le capacità di
autodeterminazione e coinvolgendolo nel processo decisionale.
Il controllo del dolore, degli altri sintomi e dei problemi psicologici, sociali e
spirituali è di fondamentale importanza; la terapia del dolore è una parte della
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medicina oncologica che si è sviluppata negli ultimi venti anni, prima a livello
internazionale e da qualche anno, anche in Italia.
Fu all‟inizio degli anni‟80 che si cominciò a capire come, insieme al dolore, ci
fossero molti sintomi che riguardavano altri aspetti in una persona che soffre nelle
fasi terminali della sua esistenza: il dimagrimento, la nausea, il vomito, le piaghe,
le infezioni.
Tutta la malattia, a quel punto, pur restando inguaribile, non era più considerata
incurabile; si passò, così, dalla terapia del dolore alla terapia palliativa, dove ad
ogni sintomo, in base all‟eziologia, corrispondeva un trattamento sintomatico, in
modo da alleviare le sofferenze procurando il minor numero di effetti collaterali.
Le cure palliative, secondo l‟Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS):
“Affermano la vita e considerano il morire come un evento naturale, non
accelerando né ritardando la morte ed integrano gli aspetti psicologici, sociali e
spirituali dell‟assistenza, offrendo un sistema di supporto per aiutare i pazienti e la
famiglia durante la malattia fino alla morte.”
L‟ambito d‟applicazione riguarda patologie irreversibili come il cancro,
l‟AIDS, le malattie neurologiche (morbo di Parkinson), le malattie
cerebrovascolari e le demenze, ma anche altri tipi di malattia che presentano una
fase terminale più o meno lunga.
Esse si occupano, quindi, prima della persona, poi della malattia, attribuendo
assoluta importanza ai bisogni dell‟individuo quali: non essere lasciato solo,
vivere gli ultimi giorni a casa con i famigliari, godere di ambienti idonei alle
proprie esigenze, ricevere regolarmente le cure necessarie, essere accudito in base
alle necessità fisiche, psicologiche e sociali.
Elisabeth Kübler Ross suddivide le esigenze del malato terminale in tre
categorie: bisogno di accudimento, bisogno di relazione e bisogno di significato.
L‟insieme delle mansioni mediche, infermieristiche e famigliari rispondono agli
innumerevoli bisogni fisici degli ammalati (pulizia, alimentazione etc.) e
soddisfano il primo di questi bisogni (accudimento).
Alla base della paura della morte vi è l‟angoscia di separazione dai propri cari,
solo grazie alla loro presenza e al loro affetto è possibile rispondere alla seconda
necessità (relazione).
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Alla base del terzo bisogno (significato) vi è la necessità di trovare un posto per
la malattia nel mondo dei valori individuali, per poter dare un senso alle
sofferenze, alle paure e, quindi, all‟ultimo periodo della propria vita.
Lo stato di questi bisogni e la possibilità di soddisfarli dipende sia dal malato
sia dalle persone che si occupano di lui, perciò la tipologia di relazione, cui
l‟individuo ha accesso, diventa una variabile fra le più importanti nel determinare
la qualità della sua vita residua e della sua morte.
La commissione ministeriale per le cure palliative (1999) indica, come
caratteristiche principali di questo tipo di cure:
la globalità dell‟intervento terapeutico che, avendo per obiettivo la qualità
della vita residua, non si limita al controllo dei sintomi fisici, ma si estende
al sostegno psicologico, relazionale, spirituale e sociale;
la valorizzazione delle risorse del malato e della sua famiglia, oltre che del
tessuto sociale in cui sono inseriti;
la molteplicità delle figure professionali e non che sono coinvolte nel
piano di cura;
il pieno rispetto dell‟autonomia e dei valori della persona malata;
la forte integrazione e il pieno inserimento nella rete dei servizi sanitari e
sociali;
l‟intensità, poiché le cure che devono essere in grado di dare risposte
pronte ed efficaci al mutare dei bisogni del malato;
la continuità e la qualità delle cure, poiché esse devono essere prestate fino
all‟ultimo istante.
Esiste una tendenza a disumanizzare il rapporto tra medico e paziente e a
spersonalizzare il malato: troppe volte s‟identifica la persona ammalata con il
numero del letto che occupa in ospedale o, peggio ancora, con la sua patologia.
In tutti i malati, non solo in quelli inguaribili, l‟umanizzazione e la
personalizzazione del loro rapporto con il curante è un‟esigenza fondamentale.
Nel concetto di palliazione i requisiti umani e morali hanno grande risalto; il
fatto di esserci, di saper ascoltare, di non avere fretta, hanno importanza per il
malato: questo è il significato di un atteggiamento medico caritatevole da
instaurare nell‟approccio al malato.
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Apportare un miglioramento alla qualità di vita del malato inguaribile significa:
libertà dal dolore, libertà da altri sintomi, sufficiente numero di ore di sonno,
adeguata alimentazione, conservazione di una certa autonomia fisica e di un ruolo
sociale e famigliare.
La domiciliarità è un aspetto fondamentale di questo tipo di cure e necessita,
quindi, del passaggio di alcuni compiti di cura ai famigliari, trasferendo loro
gradualmente alcune competenze e assegnando, così, significato alla loro presenza
accanto al malato.
Si costruisce, in questo modo, una rete di protezione attorno al paziente,
attivando tutte le risorse pubbliche, private, sociali e famigliari.
In letteratura questa nuova disciplina è stata definita in svariati modi, ma i
principi cardini delle cure palliative sono:
non nuocere. Per alleviare una sofferenza, non è necessario procurarne
un‟altra. La terapia è per via orale, né invasiva e né tanto meno aggressiva,
i farmaci più comunemente usati sono: gli oppiacei, la morfina, il
metadone;
non impedire la libera scelta della sofferenza. Se qualcuno vuole soffrire,
nessuno glielo deve vietare; nella maggior parte dei casi, però, i pazienti
non vogliono soffrire e sono desiderosi di “morire con dignità” (Saita,
1993);
l‟occuparsi prima della persona, poi della malattia;
il prendere atto che il curare (to care) è prevalente sul guarire (to cure);
il considerare come obiettivo prioritario la qualità della vita del paziente
piuttosto che la sua sopravvivenza;
l‟alleviare i sintomi con trattamenti, il cui principale e unico scopo è il
massimo comfort possibile per il paziente;
il considerare il morire un processo naturale;
il non affrettare né posporre la morte.
In ultima analisi, le cure palliative sono una sfida a non adagiarsi su soluzioni
sanitarie scontate, nel rispetto di vecchi schemi organizzativi; costituiscono
inoltre, un pretesto per cercare soluzioni innovative, tagliate su misura per “quel”
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malato, così diverso dagli altri, recuperando una dote molto importante: la
fantasia.
I bisogni dell‟uomo sono sempre gli stessi e dalle situazioni più difficili si esce
più con la fantasia che con la ragione; la fantasia, nella medicina, sta proprio nel
capire ciò di cui il paziente ha più bisogno e nel come trovare una soluzione
adatta.
Le cure palliative impongono alla nostra attenzione questa nuova
consapevolezza: il modo di comportarsi nei confronti dei malati terminali, non è
solo un problema dei medici, delle infermiere e degli psicologi, ma un problema
di tutti.
La consapevolezza della morte induce un‟attenzione più acuta alla qualità della
vita ed alla sofferenza di chi sta per morire; come ben sottolinea Spinsanti: “La
medicina delle cure palliative è, e rimane, un servizio alla salute, non dunque una
medicina per aiutare a morire, ma una medicina per l‟uomo, che rimane un
vivente fino alla morte” (Spinsanti, 1988).
1.2. Un po’ di storia
“Il senso della storia si conquista facendone un po’.”
(A. Baldini)
Il termine palliativo deriva dal latino “pallium”, che si traduce con “mantello”.
Secondo la tradizione agiografica, S. Martino di Tours non esitò, infatti, a
dividere il proprio mantello con un colpo di spada per donarne la metà ad un
povero incontrato sul suo cammino.
Del “pallium” facevano uso i pellegrini durante i loro viaggi verso i santuari,
per proteggersi dalle intemperie; analogamente le cure palliative hanno lo scopo di
proteggere il malato nella sua globalità di persona, durante l‟ultimo tratto della
vita.
Nell‟uso corrente il termine palliativo ha una connotazione negativa: il
significato di inutile e inefficace; al contrario, le cure palliative sono le sole cure
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veramente utili per il malato morente, perché lo proteggono dalle sofferenze
evitabili, salvaguardando la dignità della persona fino all‟ultimo istante.
1.2.1 Date fondamentali nella storia delle cure palliative in Italia e nel mondo
Anche se il termine “cure palliative” è recente, l‟assistenza alla persona
morente risale molto indietro nel tempo.
Ne troviamo testimonianza già ai tempi in cui l‟imperatore Giuliano l‟Apostata
(475 d.C.), per opera della matrona romana Fabiola, discepola di S. Gerolamo,
costruì in Siria l‟“antenato” degli attuali hospice: un ostello per viandanti, malati,
morenti.
Ospedale, hospice derivano dalla parola cristianamente intesa “Hospitale” da
“hospitalia”, ospitalità. Numerosi furono gli “Hospitales” che sorsero sulla via
della Palestina durante le crociate e su tutti i percorsi dei pellegrini.
Nell‟XI secolo essi ebbero un ulteriore diffusione per merito dei Cavalieri
Ospitalieri dell‟ordine di S. Giovanni; tradizionalmente i monasteri ed i conventi
divennero luogo di rifugio e di cure e, nella storia, diversi furono i gruppi religiosi
o i fondatori che videro nell‟assistenza agli ammalati e soprattutto agli inguaribili
e ai morenti una via di particolare servizio: ricordiamo, fra i più noti, la
Congregazione delle Suore della Carità, S. Camillo de Lellis, S. Giovanni di Dio e
S. Vincenzo de Paoli.
Ben più tardi, nel 1842, Jeann Garnier fonda a Lione le prime case per assistere
i morenti (Calvaires), mentre le Irish sisters of Charity aprono a Dublino l‟“Our
Lady Hospice” e, nel 1905, il “Saint Joseph Hospice” a Londra.
Nel 1893, sempre a Londra, viene aperta la “Saint Luke‟s Home for Dying
Poor” e, nel 1899, è inaugurato a New York il “Calvary Hospital”, ispirato
all‟opera di J. Garnier.
Verso la fine degli anni ‟40 è costituita la “Marie Curie Memorial Foundation”
con lo scopo di assistere, nelle loro case, malati inguaribili di tumore; negli anni
successivi, seguendo a domicilio oltre settemila pazienti, viene ufficializzato un
programma per la cura infermieristica continua a domicilio e il “nursing home.”
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Il programma si basa sulla constatazione che le cure normalmente erogate ai
pazienti con malattia avanzata non soddisfano le loro necessità di controllo del
dolore e degli altri sintomi, di supporto psico-sociale e spirituale, di informazione
e comunicazione oltre che di aiuto alla famiglia.
Le cure palliative moderne sono nate in Gran Bretagna negli anni ‟60 e si sono
diffuse, grazie al cosiddetto “movimento Hospice” o “filosofia Hospice”, come
alternativa all‟abbandono terapeutico e al sottotrattamento di cui erano oggetto i
pazienti in fase terminale.
Ben diversa la realtà statunitense, che vedeva le cure palliative come risposta ai
trattamenti sproporzionati ed eccessivi di cui, in quei paesi tecnologicamente
avanzati, i malati terminali erano vittime (accanimento terapeutico).
L‟esperienza Hospice si diffonderà ampiamente prima nei paesi di lingua
inglese (Canada, Stati Uniti, Australia) e, in seguito, in tutto il mondo occidentale.
Negli anni ‟70 si verificherà un grande sviluppo soprattutto degli hospice
residenziali, molti dei quali opereranno su base caritatevole, mentre altri saranno
pienamente inseriti nel National Health Service.
In questo periodo si giungono a definire quattro modelli assistenziali:
gli hospices autonomi e fisicamente separati dalle istituzioni ospedaliere
(case o villette), in cui si privilegia il rapporto umano rispetto
all‟intervento sanitario;
le unità di cure palliative collocate all‟interno delle strutture ospedaliere;
le unità di cure palliative domiciliari, in cui équipes organizzate svolgono
al domicilio del paziente un servizio di risposta ai bisogni assistenziali del
malato ed un servizio di supporto alla famiglia;
i servizi ospedalieri di consulenza di terapia del dolore e cure palliative.
Nel 1975 viene istituito da Balfour M. Mount il primo servizio di cure
palliative al “Royal Victoria Hospital” di Montreal (Canada): è la prima volta che
viene usata l‟espressione cure palliative per indicare un programma di trattamento
per pazienti in fase avanzata di malattia.
In Italia le cure palliative hanno fatto la loro comparsa alla fine degli anni ‟70,
infatti, nel 1978 la Fondazione Floriani organizzò a Venezia il primo congresso
sul dolore da cancro: il prof. Ventafridda e l‟ing. Floriani avevano capito che le
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