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dinamiche psichiche profonde, risultando talora un’evenienza spiacevole,
negativa, non voluta, non desiderata e non ricercata (Randaccio, De Padova,
Fenocchio, 2003).
La mancata accettazione della gravidanza e l’incapacità di identificarsi e
riconoscersi come madre possono essere determinati da vissuti psichici
conflittuali consci od inconsci, legati alla struttura di personalità ed alle
esperienze affettive precoci, ma anche da un contesto ambientale, culturale e
socio-relazionale negativo, problematico, non supportivo, difficoltoso.
Una gestazione percepita come indesiderata, stressante o decisamente
traumatica può avere ripercussioni talmente pesanti e destabilizzanti sulla
psiche della donna da causare l’insorgere di difficoltà e di problematiche
psicologiche, talora di tipo nettamente clinico, direttamente suscitate dall’evento
precipitante del divenire madre (Monti, 2000).
Le patologie psichiche in gravidanza e nel puerperio possono essere
estremamente diversificate ed eterogenee, nel periodo d’insorgenza, nelle
caratteristiche e nella severità dei sintomi; solitamente consistono in fenomeni
lievi e transitori, considerabili come conseguenza di un normale adattamento
alla maternità, ma in una non trascurabile percentuale possono divenire
particolarmente gravi e degni di attenzione terapeutica (forme nevrotiche o, con
minore frequenza, quadri psicotici) (Volterra, in Pancheri, Cassano, 1999).
Tra questi gli esordi più comuni si registrano nell’ampia classe diagnostica dei
disturbi affettivi. I disturbi dell’umore nel post-partum rappresentano una
categoria psicopatologica la cui insorgenza risulta direttamente connessa con la
nascita di un figlio, manifestandosi tipicamente nel corso dei dodici mesi
successivi al parto. In letteratura, vengono distinte tre differenti tipologie cliniche
di disturbi puerperali (O’Hara, 1987; Romito, 1992; Milgrom et al., 2003),
disponibili lungo una sorta di continuum differenziabile in termini di gravità,
manifestazione clinica, prevalenza e decorso (esordio, durata e ricorrenza):
- Baby-blues (o maternity-blues);
- Depressione post-partum;
- Psicosi post-partum.
L’argomento della presente Tesi di Laurea è costituito dalla condizione
psicopatologica dei disturbi dell’umore puerperali ed, in particolar modo, dalla
categoria clinica della depressione post-partum.
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La depressione post-partum si definisce come una sindrome clinica
caratterizzata da un quadro sintomatologico complessivamente equiparabile
alla manifestazione tipica di un disturbo depressivo psichiatrico, di natura
prevalentemente unipolare o anche bipolare, con sintomi tipici quali: tristezza,
sofferenza, disperazione, frequenti crisi di pianto, apatia, umore disforico,
sentimenti di inadeguatezza, di fallimento, di colpevolezza, paura di non essere
all’altezza del ruolo di madre, ansie, fobie, timore ossessivo di poter fare del
male al bambino, possibile ideazione suicidaria.
L’esordio di tale patologia tende a verificarsi nel corso dei dodici mesi
consecutivi alla nascita del bambino, prevalentemente tra la quarta e l’ottava
settimana del periodo puerperale. La prevalenza stimata dalle relative ricerche
appare decisamente variabile, a seconda delle scelte metodologiche adottate,
attorno al 10-15% (Pitt, 1968; O’Hara, 1987; Evans et al., 2001; Eberhard-Gran
et al., 2004; Dennis & Boyce, 2004), al 10-20% (Chaudron et al., 2001;
Smallwood Fergerson et al., 2002; Beck, 2002) potendo estendersi in casi
particolarmente problematici e difficoltosi, con una frequenza globale dal 3,5 al
30-33% (Stowe & Numeroff, 1995; Evins et al., 2000; Gale & Harlow, 2003).
Non potendo prescindere da alcune fondamentali e basilari conoscenze
riguardanti i disturbi dell’affettività, il presente lavoro di Tesi è stato organizzato
con l’obiettivo di offrire sia una rassegna bibliografica sul tema, sia una
prospettiva di ricerca e di sperimentazione. Pertanto, la struttura generale della
trattazione è costituita da due sezioni distinte: la prima parte, dedicata alla
depressione, e la seconda parte, dedicata più specificatamente alla
depressione post-partum. La scelta di operare tale differenziazione è stata
attuata allo scopo di fornire un’esposizione della natura sintomatologica nelle
diverse categorie diagnostiche dell’area depressiva, unitamente ad un tentativo
di interpretazione eziopatogenetica di stampo psicodinamico; in tal modo, il
discorso sulla depressione post-partum può trovare una collocazione
maggiormente estesa e completa, rappresentando questa una delle possibili
forme di sofferenza depressiva tra le numerose e diversificate esistenti nel
panorama nosografico dominante.
La prima parte si compone, così, di due capitoli dedicati rispettivamente alle
caratteristiche cliniche e alle dinamiche psicologiche profonde sottese alla
genesi dei disturbi depressivi, ripercorrendo i contributi e le opere di alcuni tra i
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più classici esponenti del movimento psicoanalitico, dall’epoca della nascita
della psicoanalisi fino ai tempi più recenti, suddivisi in base ad una loro
maggiore sensibilità nei confronti di concezioni più marcatamente intrapsichiche
o più spiccatamente relazionali.
La seconda parte affronta il tema centrale e fondante del lavoro, ovvero la
depressione post-partum. Particolare attenzione è stata riservata a focalizzare
la discussione sia sugli vissuti psichici interiori, consci ed inconsci, sia
sull’influenza del contesto ambientale e relazionale, cercando di fondare ogni
affermazione riportata su di un contributo bibliografico il più possibile
consistente e recente, soffermandosi soprattutto sugli studi sperimentali degli
ultimi anni. La trattazione affronta l’esperienza della maternità, con riferimento
agli aspetti psicodinamici e socio-relazionali della gravidanza, del parto, del
puerperio, sottolineando gli indubbi vissuti di maturazione, di ridefinizione della
propria identità femminile, di realizzazione personale nell’incontro col bambino e
nella formazione di un intimo e profondo legame di amore tra madre e figlio;
parallelamente, si è descritta la maternità anche come esperienza critica e
complessa, potenzialmente connotata di elementi negativi di rifiuto e di non
accettazione, esponendo l’ampio scenario dei possibili disturbi psichici durante
la gestazione e durante il puerperio.
Di seguito, viene affrontato il tema dei disturbi dell’umore puerperali e della
depressione post-partum; il discorso fa riferimento alla descrizione
sintomatologica e clinica, alle conseguenze sulla donna, sulla relazione madre-
bambino, sulla qualità del rapporto col partner ed, infine, ad un tentativo di
comprensione eziopatogenetica il più completo e multilaterale possibile,
tenendo conto di modelli di riferimento di tipo medico-biologico, psicodinamico-
psicoanalitico, socio-relazionale con un’esposizione dei possibili fattori di rischio
psicosociali, ambientali e relazionali evidenziati dalla letteratura come gli
elementi maggiormente predisponenti allo scompenso depressivo.
Il presente lavoro non vuole limitarsi ad una forma unicamente bibliografica-
compilativa, ma propone un approfondimento di ricerca, attuato (tenendo conto
dei limiti connessi a restrizioni di tempo, di applicazioni metodologiche, di
risorse materiali ed umane) con lo scopo di indagare la prevalenza ed i fattori
socio-relazionali predisponenti all’insorgenza di disturbi depressivi nelle neo-
mamme.
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La rilevazione dei dati è avvenuta su di un campione di 120 puerpere,
utilizzando due strumenti:
- L’Edinburgh Postnatal Depression Scale – EPDS (Cox et al., 1987), un
questionario validato anche sul territorio nazionale (Carpiniello et al., 1997;
Benvenuti et al., 1999) ed attualmente ritenuto uno degli strumenti di screening
più utili per una valutazione delle condizioni psicoemotive delle donne dopo il
parto;
- Una scheda di raccolta dati stilata con lo scopo di ottenere informazioni
generali su alcuni dei fattori ritenuti dalla letteratura come maggiormente
predisponenti all’esordio della depressione puerperale.
L’analisi statistica, oltre a finalità descrittive delle caratteristiche del campione,
ha perseguito l’obiettivo di individuare possibili correlazioni e legami tra
punteggi depressivi ed elementi psicologici e sociali di rischio.
I risultati ottenuti risultano significativi e globalmente concordi con la letteratura,
pur con alcuni esiti differenti; essi forniscono dunque un contributo, in
riferimento alla possibilità di un confronto con più ampie ricerche, costituendo
un’opportunità di riflessione e di ulteriore approfondimento ed indagine.
Ogni nuova ricerca sul tema, difatti, conferma come l’attenzione clinica e
specialistica (da parte di psicologici, psichiatri, medici, personale ostetrico, ma
anche da parte dell’opinione comune) su una condizione psicopatologica come
la depressione post-partum (così delicata, complessa, potenzialmente
debilitante e pericolosa per la donna e per la relazione mamma-bambino)
debba essere sempre mantenuta vigile ed incrementata.
La comprensione delle dinamiche sottese alla sofferenza depressiva delle neo-
madri, così come l’individuazione di fattori psico-sociali potenzialmente
predisponenti, risulta fondamentale per sviluppare adeguati metodi di screening
e di valutazione e per agire opportune strategie di prevenzione e di intervento
precoce, al fine di scongiurare le conseguenze più terribili e nefaste che talora,
purtroppo, macchiano tragicamente le notizie di giornali e televisione, rendendo
sempre più attuale e doveroso un impegno sociale nei confronti delle madri
sofferenti di tale condizione.
PARTE PRIMA
LA DEPRESSIONE
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CAPITOLO 1
DEPRESSIONE: CARATTERISTICHE E
SINTOMATOLOGIA
Il termine depressione è divenuto ormai un vocabolo di uso comune e frequente,
entrato ampiamente a far parte del linguaggio corrente per indicare situazioni
tra loro anche molto differenziate.
In primo luogo, da un punto di vista descrittivo, la depressione viene intesa
come uno stato d’animo generale contraddistinto da tristezza, pessimismo,
insoddisfazione e senso di scoraggiamento, di per sé non specificatamente
patologico ma presente anche in condizioni normali (Bogetto, Maina, 2000).
Difatti, l’affettività nelle sue molteplici dimensioni costituisce una caratteristica
essenziale dell’esperienza e dell’identità umane, che accompagna ed avvolge
costantemente la globalità delle azioni, delle sensazioni, delle percezioni e dei
pensieri, conferendo loro precise coloriture emotive. Il tono affettivo di fondo,
l’umore, risulta soggetto a modificazioni fisiologiche, oscillando periodicamente
tra i due estremi opposti della tristezza e dell’euforia, sia spontaneamente, sia
in rapporto ad eventi esterni; tali possibili cambiamenti umorali, privi di alcuna
connotazione patologica, agiscono una specifica funzione adattiva, modulando
la spinta all’azione e favorendo l’adozione di modelli comportamentali adeguati
alle mutevoli circostanze contingenti (Cassano et al., in Pancheri, Cassano,
1992). Pertanto, ogni individuo può attraversare momenti più o meno durevoli di
calo del tono dell’umore in senso depressivo, solitamente come comprensibile
reazione a difficoltà o a episodi spiacevoli della vita, di fronte ai quali può
assolvere un ruolo riparativo e rielaborativo (Valente Torre, Freilone, 1996).
In secondo luogo, al di là di tale accezione semantica comune, la depressione
definisce innanzitutto una condizione psicopatologica vera e propria consistente
in uno stato di significativa, marcata, prolungata e non adattiva alterazione
dell’umore verso il polo negativo dell’afflizione e della disforia, con sintomi tipici
quali: una profonda tristezza e sofferenza; un’inibizione dell’attività psichica e
fisica con apatia, disinteresse, insoddisfazione, affaticabilità, difficoltà di
pensiero, di concentrazione e di rievocazione; un dolore morale che si esprime
con disperazione, cupo pessimismo, sentimenti di colpa e di autosvalutazione
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cui spesso si associano alterazioni del sonno e dell’appetito, sensazioni di
soffocamento, palpitazioni, disturbi fisici e manifestazioni ansiose (Lis, 1993).
La depressione clinica non si configura come un disturbo psichico unitario; può
presentarsi entro quadri nosografici eterogenei nella natura sintomatologica,
nell’esordio, nel decorso e nei fattori causali.
Oltre alle forme patologiche più tipiche, essa può realizzarsi anche come
“depressione secondaria” (ulteriormente denominata “sintomatica” o
“somatogena”) ovvero una forma secondaria all’interno di svariate malattie
primarie, di tipo psichiatrico (schizofrenia, sindromi deliranti croniche) o anche
di tipo organico (sindrome di Cotard, lesioni cerebrali, tumori, turbe vascolari,
atrofie neuronali, arteriosclerosi, patologie endocrine o metaboliche,
ipotiroidismo, diabete, processi infettivi, stati di intossicazione da sostanze o da
farmaci ipotensivi) (Ey et al., 1978). Ancora, può manifestarsi come
“depressione dell’età involutiva” ad insorgenza mediamente dopo i
quarantacinque anni, con un marcato aspetto ansioso, tematiche deliranti,
tendenza alla cronicizzazione e al decadimento mentale progressivo.
Infine, può verificarsi nelle sembianze della cosiddetta “depressione atipica”,
data dalla comorbità tra disfunzione affettiva ed altre condizioni: il tipo A con
sintomi ansiosi associati a Disturbo da Attacchi di Panico; il tipo B con fenomeni
vegetativi (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
Una simile variabilità delle espressioni sindromiche determina un estremo
polimorfismo clinico, cui si aggiunge l’ulteriore difficoltà di differenziare tra
normali fluttuazioni umorali e manifestazioni patologiche lievi o moderate; ciò ha
comportato negli anni problemi classificatori di non facile risoluzione, con
continue rielaborazioni di categorie diagnostiche che potessero rendere conto
della complessità clinica della sfera depressiva, in relazione al prevalere di
diversi orientamenti eziopatogenetici o terapeutici (ibidem).
Il modello classificatorio categoriale si è affermato in psichiatria per la sua
innegabile utilità nella pratica clinica, in quanto comporta una notevole capacità
semplificativa identificando un numero relativamente ristretto di tipologie che
definiscono le caratteristiche sintomatologiche nucleari dei disturbi. Tuttavia,
presupponendo l’esistenza di entità distinte alle quali dovrebbero corrispondere
unità psicopatologiche separate, esso implica il potenziale rischio di delinearsi
secondo limiti eccessivamente rigidi che precludono la possibilità di riflettere la
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ben più composita e variegata fenomenologia psichiatrica (De Girolamo,
Magone, 1995). Pertanto, al fine di meglio comprendere i meccanismi e le
dinamiche sottese alla malattia psichica, può risultare importante il fondamento
su di un modello dimensionale-funzionale.
L’approccio dimensionale concepisce i diversi disturbi depressivi-affettivi
caratterizzati da molteplici dimensioni disposte lungo un continuum di livelli di
gravità crescenti, comprendente da un lato forme attenuate, dall’altro gravi
quadri psicotici fortemente invalidanti, secondo una progressione lineare tra le
varie categorie diagnostiche (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
Il punto di vista funzionale, interpretando il disturbo psichico come una modalità
pur se disadattiva di far fronte alla vita, analizza gli specifici significati funzionali
assunti da ogni manifestazione della patologia; pertanto “è la forma particolare
del funzionamento (o dell’operatività) col suo contenuto che costituisce
l’essenza predominante e primaria (benché non la sola) della malattia e che
conduce a conseguenze secondarie, sia organiche sia funzionali. Esso implica
anche che la disfunzione sia collegata a, o determinata in modo predominante
da un disadattamento affettivo, che a sua volta è almeno parzialmente
provocato da un ambiente umano” (Arieti, 1969, pag. 585).
Non prolungando oltre tali dissertazioni, la depressione viene comunemente
descritta attraverso molteplici forme differenziate, riconosciute in ambito
psichiatrico.
La nosografia classica ha storicamente distinto due ambiti:
- la depressione endogena (e la psicosi maniaco-depressiva);
- la depressione psicogena (reattiva o nevrotica).
1.1. LA DEPRESSIONE ENDOGENA
La depressione endogena configura un quadro sintomatologico che irrompe
nella vita dell’individuo in modo inatteso, senza possibilità di identificare
chiaramente fattori esterni immediati di natura psicologica o fisica che ne
motivino l’insorgenza (Leonhard, 1968). Per tale ragione, in passato il termine
endogeno assunse un chiaro significato eziologico, sottolineando la presenza di
una causalità biologico-costituzionale, sebbene non del tutto conosciuta.
Nella vigente sistemazione nosografica, invece, tale denominazione non
compare più e le si riconosce unicamente un esclusivo valore clinico-descrittivo
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senza alcuna implicazione eziopatogenetica (Cassano et al., in Pancheri,
Cassano, 1992).
Attualmente, nei sistemi classificatori dell’American Psychiatric Association, la
depressione endogena va a corrispondere alla diagnosi di Disturbo Depressivo
Maggiore, caratterizzato da un’evoluzione sintomatologica estremamente
variabile; esso può presentarsi come evento isolato o con andamento episodico
ricorrente, di stampo unicamente depressivo oppure in alternanza ad episodi
maniacali determinando in tal caso il quadro di una psicosi maniaco-depressiva,
oggi denominata Disturbo Bipolare (DSM-IV-TR, 2000).
La PSICOSI MANIACO-DEPRESSIVA può essere definita come una sindrome
clinica caratterizzata da un’alternanza periodica di episodi depressivi e di
episodi di eccitamento maniacale (Giberti, Rossi, 1986).
Essa è una malattia nota fin dall’antichità che, rispetto ad altre entità
psichiatriche, sembra aver mantenuto una certa costanza sintomatologica nel
tempo (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992). Negli scritti di Ippocrate si
riscontrarono i primi riferimenti clinici sui disturbi affettivi, con l’introduzione del
concetto di “melanconia”, considerata conseguenza dell’azione patogena della
bile nera sul cervello (melos= nero; cole= bile). Nel primo secolo dopo Cristo,
Areteo di Cappadocia descrisse melanconia e mania con osservazioni così
acute e profonde da essere paragonabili alle vedute moderne e per primo colse
il legame tra le due forme. Fu comunque a partire dagli inizi dell’Ottocento, con
la nascita della psichiatria moderna, che si giunse alle prime interpretazioni
nosografiche secondo un modello scientifico. Esquirol coniò il termine
“monomania”, un delirio parziale che comprendeva la patologia espansiva e la
“lypemania”, corrispondente alla depressione. Falret, nel 1854, riconobbe
l’alternanza tra melanconia e mania ideando la nozione di “follia circolare”,
nominata da Baillarger, suo contemporaneo, come “follia a doppia forma”.
Kraepelin, nel 1899 e più compiutamente nel 1913, identificò due grandi psicosi
endogene: la dementia praecox (ribattezzata schizofrenia nel 1911 da Bleuler)
e la psicosi maniaco-depressiva; quest’ultima sindrome, nelle sue molteplici
varietà, comprendeva la mania semplice, la maggior parte dei casi di
melanconia e la follia circolare-periodica, accomunate da una predisposizione
costituzionale e genetica analoga. Leonhard richiamò l’attenzione sulle
peculiarità di decorso di tale psicosi, proponendo nel 1968 la dicotomia
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unipolare-bipolare per descrivere rispettivamente le forme a polarità singola e le
forme con alternanza depressiva-maniacale.
Pervenendo ad una descrizione clinica (Bogetto, Maina, 2000), l’esordio della
psicosi maniaco-depressiva può essere acuto e drammatico, ma solitamente è
lento ed insidioso, dispiegandosi nel corso di giorni o settimane; può
sopravvenire senza cause apparenti, conformemente alla concezione classica
di patologia endogena; talvolta, tuttavia, possono riscontrarsi fattori precipitanti
quali shock emotivo o una situazione stressante o conflittuale che favoriscono
lo scompenso di una vulnerabilità psichica già preesistente (Ey et al., 1978).
L’età media in cui si verifica il primo episodio è in genere tra i venti e i
quarant’anni, mentre è tendenzialmente più precoce nelle forme bipolari, tra i
venti e i trenta anni; il sesso femminile risulta più frequentemente colpito (circa il
70% dei pazienti sono donne). La durata di ogni episodio è variabile e tende a
peggiorare nel tempo col ripetersi delle crisi, mentre non pare in relazione
all’estensione degli intervalli di normalità (Arieti, 1969): la manifestazione
depressiva si aggira mediamente sui sei-sette mesi (talvolta può persistere fino
a due anni e più); la sintomatologia maniacale va da qualche settimana a due-
tre mesi circa. Statisticamente gli episodi di depressione sono numericamente
superiori a quelli maniacali. La prognosi è quasi sempre buona per quanto
riguarda l’episodio singolo, ma è incerta a lungo termine riguardo alla possibilità
di ricadute; fattori di rischio in tal senso sono: la frequenza elevata delle crisi, il
passaggio alla cronicità, l’apparizione di un certo grado di indebolimento
intellettuale (Giberti, Rossi, 1986).
Come suddetto, si distinguono nella psicosi maniaco-depressiva fasi alternate
di depressione e di mania, le quali comunque possono pur sempre presentarsi
come disturbi a sé stanti, isolati, o con andamento fasico di tipo monopolare.
a) La depressione
La depressione è caratterizzata da uno stato di tristezza intensa e pervasiva, di
profonda disperazione e di dolore morale che si struttura come vera e propria
“tristezza vitale”, come un nucleo inintaccabile, greve ed impenetrabile avvertito
con un senso di oppressione, pesantezza e sofferenza anche a livello somatico,
nella testa, nel cuore, nel petto (Valente Torre, Freilone, 1996). Tale vissuto
depressivo si sviluppa inglobando completamente la funzioni psichiche ed
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interferendo pesantemente nel continuum esistenziale dell’individuo, senza
motivazioni scatenanti evidenti e comprensibili (Bogetto, Maina, 2000).
La tristezza è cupa, monotona, profonda, resistente alle sollecitazioni ambientali
e progredisce fino ad una estrema e penosa inibizione psichica, con apatia,
affaticabilità, astenia, disinteresse, noia, mancanza di gusto e di piacere per
ogni situazione (anedonia), perdita dell’abituale slancio vitale (Borgna, 1992).
L’inerzia si riflette sul piano motorio con un generale rallentamento psicomotorio:
la mimica è fissa ed afflitta, l’andatura è greve, faticosa e strascicata, i
movimenti spontanei e il fluire dell’eloquio si riducono, con discorsi brevi,
risposte sommesse e monosillabiche, ideazione rallentata, vuoto mentale,
ruminazione e rievocazione penosa.
La percezione della realtà esterna risulta stravolta da penosi quadri di
depersonalizzazione affettiva con impressioni di autentica anestesia affettiva, di
impoverimento dei sentimenti, di distacco ed estraneità.
Anche l’esperienza del tempo vissuto viene alterata con un persistere della
psiche in un presente vuoto, freddo, stagnante e con l’impossibilità di proiettarsi
nel futuro e nella progettualità. Un oscuro senso di pessimismo pervade la
coscienza e si rivolge soprattutto contro l’individuo stesso, con imperanti vissuti
di impotenza, d’inferiorità e d’indegnità personale e con pesanti sentimenti di
colpa, di autosvalutazione e di autoaccusa, per i quali egli si sente
costantemente colpevole, disonesto, disprezzabile, indegno (Musetti et al., in
Pancheri, Cassano, 1992).
Tutto ciò porta frequentemente al desiderio e alla ricerca della morte, con
episodi di autolesionismo e con continua ideazione suicidaria (Lis, 1993); il
suicidio, percepito come un obbligo, un castigo o una soluzione alla sofferenza,
può divenire un pensiero ossessionante, costituendo senza dubbio il rischio più
temibile, soprattutto all’inizio e al termine della fase depressiva, quando
l’inibizione motoria non si è ancora cristallizzata oppure è andata diminuendo
pur mantenendosi vivo il sentimento melanconico. Il tentativo di suicidio viene
talvolta preparato con abilità, premeditazione ed accuratamente dissimulato;
diversamente può manifestarsi come raptus suicida impulsivo, brutale e
subitaneo; molto più raramente, in certi casi gravi, l’aggressività può indirizzarsi
anche verso l’esterno realizzandosi il tipico “omicidio-suicidio”, ovvero
l’assassinio delle persone amate seguito dalla propria uccisione: il depresso
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che vuole morire, senza però abbandonare il proprio mondo degli affetti, si
riunisce ai suoi cari nella morte oppure pensa, in modo delirante, di preservarli
da una realtà per lui fatta solo di dolore (il cosiddetto “omicidio per pietà” o
“omicidio altruistico”) (Ponti, 1999).
In ultima analisi, sintomi fisici che accompagnano la depressione sono (Giberti,
Rossi, 1986): alterazioni del ritmo sonno-veglia, con ipersonnia diurna ed
insonnia notturna, prevalentemente insonnia da risveglio precoce; perdita
dell’appetito e notevole calo ponderale; disfunzioni digestive e cardiovascolari;
diminuzione netta del desiderio sessuale spesso fino all’impotenza completa.
Tipica è la fluttuazione dei segni clinici con peggioramento mattutino e parziale
miglioramento serale.
Nonostante la presenza di una sintomatologia depressiva tipica e comune,
talune caratteristiche possono risultare particolarmente predominanti,
determinando diverse varietà di depressione (Musetti et al., in Pancheri,
Cassano, 1992):
- La depressione malinconica semplice, contraddistinta da una relativa
modestia dei sintomi tra i quali prevale l’inibizione, il senso d’impotenza e di
affaticabilità.
- La depressione agitata, nella quale è preponderante l’agitazione; il depresso
vige in uno stato permanente di irrequietezza, si percuote, si torce le mani, si
lamenta, singhiozza, geme e supplica; il tormento lo spinge ad idee suicidarie
costanti e attive.
- La depressione ansiosa, in cui prevalgono sintomi ansiosi e talora ossessivi,
tensione, preoccupazione e paura vissute come vero e proprio panico ed
angoscia.
- La depressione rallentata, con la presenza accentuata del rallentamento
psicomotorio che, oltre ad esprimersi sul piano motorio, compromette le diverse
funzioni psichiche: linguaggio, pensiero, memoria, concentrazione, ecc.
- La depressione stuporosa, ove l’inibizione psicomotoria raggiunge il suo apice
in uno stato di assoluta immobilità e di compromissione della coscienza che può
andare dal torpore fino allo stupore o al semi-coma: il malato non parla, non
mangia, non fa alcun gesto, non risponde a nessuno stimolo; il suo volto resta
contrito in un’espressione di disperazione.
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- La depressione pseudo-demenza, caratterizzata da un disturbo cognitivo o da
riduzione delle capacità mnestiche che tendono a mascherare il nucleo
depressivo; in realtà l’apparente deficit delle funzioni psichiche risulta del tutto
reversibile con la risoluzione del disturbo dell’umore.
- La depressione delirante-psicotica, forma particolarmente grave in cui le idee
e le convinzioni depressive giungono ad un grado estremo con la comparsa di
deliri, talvolta accompagnati da allucinazioni a contenuto autodenigratorio. La
presenza di deliri e l’assenza di consapevolezza della malattia definiscono la
depressione endogena come autentica esperienza psicotica. I temi deliranti più
frequenti nella depressione sono (Valente Torre, Freilone, 1996): il delirio di
colpa (per il quale il soggetto si sente oppresso da ogni sorta di colpevolezza
morale, fino a giungere al limite della colpa esistenziale, in cui il fatto stesso di
vivere è motivo di colpa); il delirio di rovina (nel quale vige il convincimento di
essere in una condizione di miseria, di povertà, di perdita o di sventura); il
delirio ipocondriaco (per cui il depresso è certo di essere affetto da
un’inguaribile malattia somatica); il delirio di negazione (ovvero il negare le
proprie funzioni fisiologiche, il proprio corpo o parti di esso o addirittura il non
riconoscere la propria stessa esistenza). Più raramente, i sintomi psicotici
risultano incongrui all’umore, con contenuti di persecuzione, di riferimento, di
influenzamento, di gelosia, di veneficio.
- La depressione cronica, che comprende gli episodi depressivi di durata
superiore a due anni in assenza di disturbi attenuati cronici preesistenti; in essa
si assiste alla tendenza ad amplificare le proprie sofferenze, una spiccata
sensibilità agli eventi con la cristallizzazione di sentimenti di autosvalutazione e
di insicurezza, con tratti ansiosi, evitanti, dipendenti, istrionici, manipolativi e
vittimistici (Musetti et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
b) La mania
La mania può essere definita come uno stato psicopatologico di elevazione del
tono dell’umore verso il polo positivo, speculare all’affettività depressiva
(Bogetto, Maina, 2000).
Sintomo centrale dell’episodio maniacale è, pertanto, l’umore euforico, esaltato,
sovraeccitato.
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L’individuo appare allegro, vivace, espansivo, facile alle relazioni interpersonali
e alla comunicazione, entusiasta, ottimista, dinamico ed iperattivo; vive un
costante atteggiamento ludico nei confronti dell’ambiente e una diffusa
sensazione di benessere, per cui tutto diventa fonte di gioia, motivo di scherzo
e di gioco; avverte un impulso irrefrenabile a muoversi, ad agire, a parlare, a
realizzare molteplici iniziative e progetti (Musetti et al., in Pancheri, Cassano,
1992). Spinto da una forte autostima, da un’ipervalutazione delle proprie qualità
intellettuali o fisiche e da un senso di totipotenza per il quale tutto appare
possibile e facilmente disponibile, il maniaco si impegna in svariate attività
volendo mettere in atto tutto ciò che gli viene in mente, in ogni campo
(lavorativo, lucrativo, affettivo, sociale) in modo impulsivo, superficiale,
inconcludente, disinibito, senza limiti né confini.
Manifesta un’assoluta mancanza di freni inibitori e un affrancamento da ogni
vincolo o convenzione sociale.
L’umore euforico, tuttavia, è decisamente instabile e, di fronte alla minima
contrarietà od opposizione, può trasformarsi in irritabilità, malumore, disforia
degenerabili con facilità in collera, rabbia, aggressività. In certi casi, lo stato
maniacale può essere dominato proprio da questi tratti anziché dall’euforia
affettiva (pur considerata tipicamente come sintomo patognomonico) per cui il
paziente diventa burbero, prepotente, malignamente sarcastico e cinico coi suoi
interlocutori, litigioso o francamente violento.
L’impulsività, la disinibizione e la facile irritabilità possono ripercuotersi in
condotte potenzialmente rischiose, con pesanti conseguenze sociali o anche
con risvolti legali (perdita del lavoro, spese eccessive, investimenti in affari
avventati, rotture di legami affettivi, infedeltà con corteggiamenti compulsivi e
promiscuità sessuale, comportamenti esibizionistici, guida spericolata, attività
illegali e reati, aggressioni a danno di cose o di persone, ecc.) (Giberti, Rossi,
1986).
Ulteriori peculiarità maniacali sono un’eccitazione psicomotoria e un disturbo
del pensiero che si riflettono nell’espressività comunicativa e nel linguaggio.
La mimica è vivace, gioiosa o furiosa: occhi brillanti, sguardo acuto ed
ammiccante, gesti esuberanti, talora eccessivi o teatrali. L’eloquio è fluido ed
abbondante fino ad assumere l’aspetto di una logorrea irrefrenabile.