Jessica Rabbit, ‹‹‘proverbiale’ icona vamp del fumetto››, come si legge nella
didascalia.
Inoltre, la scorsa estate, sul Corriere della Sera, nell’ambito della pagina
di approfondimento culturale Corriere Estate, Giulio Nascimbeni ha curato
un’interessante rubrica dal titolo: “Modi di dire”, accanto a quella, pur
interessantissima, di Giorgio De Rienzo sull’etimologia di alcuni cognomi
italiani. Come afferma lo stesso Nascimbeni
5
, testo di riferimento di questa
sua rubrica è il Dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni che, col
titolo Frase fatta capo ha, curò nel 1992 per la Zanichelli Giuseppe Pittàno,
latinista e linguista, che Nascimbeni non esita a definire ‹‹padre dei modi di
dire››.
Stessa dichiarazione, quella di Nascimbeni, che avremmo potuto
scrivere noi all’inizio di questo nostro lavoro, essendone proprio il testo di
Pittàno tra gli elementi ispiratori e comunque tra le fonti maggiormente
consultate nella sua elaborazione. Un lavoro che vuole inserirsi in questo
recente solco di fortuna del proverbio, pur essendo nato, almeno come idea,
già tre anni fa; un lavoro che tenta di approfondire lo studio dei proverbi,
visti col filtro manzoniano dei Promessi Sposi.
Il primo corso in assoluto di Letteratura Italiana che ho frequentato una
volta approdato all’università, verteva sul genere romanzo e sul capolavoro
manzoniano in particolare
6
. Giunto più o meno a metà della lettura
dell’opera e notata una cospicua presenza di proverbi e locuzioni
idiomatiche, mi sono domandato se si potesse ipotizzare una linea di lettura
“proverbiale”, per così dire, del romanzo.
Ne è nata questa ricerca, nella quale, dopo una prima breve
presentazione del genere proverbio e il suo impiego in letteratura (capitolo
5
‹‹Il Dizionario di Pittàno sarà il nostro testo di riferimento: è un dovere dichiararlo
anche se, quando si presenterà l’opportunità, lo integreremo con altri contributi››. G.
Nascimbeni, La lentissima lumaca e i polli del professore romagnolo. Frase fatta capo ha,
in Corriere della Sera (Milano), 20.VII.2004.
6
Il corso in questione, tenuto dal prof. Massimiliano Mancini, aveva per titolo:
“Manzoni e la nascita del romanzo in Italia”, e nel programma prevedeva anche la lettura
integrale dei Promessi Sposi.
6
I), mi propongo l’interrogativo: Manzoni paremiologo? (capitolo II),
supportato, tra l’altro, dalla lettura diretta del volume Dictionnaire | des |
proverbs français […]
7
,collocato presso la Biblioteca Visconti-Venosta di
Grosio (SO) e postillato da Manzoni stesso.
Quindi entro maggiormente in medias res, commentando alcuni dei
principali proverbi presenti nel romanzo (capitolo IIII), di cui riporto la lista
completa, insieme ai numerosi modi di dire e locuzioni, nell’Appendice.
Vorrei, in sostanza, dimostrare che Manzoni non solo farcisce il suo
romanzo con un cospicuo numero di proverbi – che sarebbe davvero
imbarazzante non rilevare quasi ad ogni capitolo – ma che è talmente
interessato a questo genere letterario da farne oggetto di studi e di ricerca. E
in più che, inconsapevolmente e lontano da ogni intento scientifico, proprio
attraverso le pagine dei Promessi Sposi, Manzoni stesso si fa, oltre che
paremiologo, inventore di proverbi ancor oggi in voga.
Dopo aver affermato che i commenti al romanzo ‹‹si sono moltiplicati, e
ormai non passa anno che non ne appaia qualche altro: ogni editore vuole il
suo››, e dopo aver sottolineato come ‹‹gli ultimi cinquant’anni [siamo nel
1939] sono stati molto fruttuosi per gli studi manzoniani››, il Barbi
8
bacchettava chi a tutti i costi volesse aggiungere qualcosa al romanzo:
osservazioni, discussioni, rivendicazioni storiche. ‹‹Più credono di
aggiungere di quelle loro così inutili annotazioni, e più distraggono dal testo
del loro autore; più ingombrano con la loro persona lo spazio che dovrebbe
esser riservato allo scrittore, e più fanno perdere a chi legge il contatto
diretto con lui››.
7
Il titolo completo sul frontespizio recita così: ‹‹Dictionnaire | des | proverbs français |
par M. de la Mésangère, | de la Société Royale des Antiquaires de France. | Trosième
édition. | A Paris chez Treuttel et Würtz, libraires, | rue du Bourbon, n° 17. | A Strasbourg et
à Londres, même Maison de Commerce | et chez Rey et Gravier, libraires, | quai de S.
Augustin, n° 55 | 1823››.
Si veda in proposito l’articolo di S. EVANGELISTI, Un postillato inedito manzoniano,
apparso sugli ‹‹Annali Manzoniani››, Nuova Serie IV-V 2001-2003, di cui riporto alcuni
brani nel II capitolo.
8
M. BARBI, Note per un nuovo commento ai Promessi Sposi, in ‹‹Annali
Manzoniani››, I, 1939.
7
Lungi dal voler anch’io incorrere in questo rischio, cosciente che ‹‹già si
è detto tutto›› e che non avrei comunque – a quest’altezza dei miei studi –
gli strumenti adeguati per apportare un valido e significativo giudizio critico
(se ancora ce ne fosse bisogno), mi limito, col presente lavoro, a lasciar
spazio a Manzoni, a far parlare lui con quel filtro del proverbio che, così
presente nel suo romanzo, senz’altro ricopre un ruolo non secondario nella
mente del Nostro.
‹‹Generalmente si dovrebbero avere postille “brevi ed argute”, per
valersi di un’espressione dantesca troppo dimenticata››, suggeriva ancora
Barbi. Quanto all’arguzia, lascio decidere al lettore; sulla brevità, invece, ci
dovremmo essere: sia per i parametri richiesti in questa sede, sia perché è
proprio la brevità uno dei canoni peculiari del proverbio.
‹‹Pensino ora i miei venticinque lettori››
9
se procedere nella lettura;
‹‹forse dieci de’ miei lettori››
10
converranno con questa mia tesi. Chissà?
‹‹Ai posteri l’ardua sentenza››.
11
9
A. MANZONI, Promessi Sposi, I, 60. Salvo differente indicazione, la numerazione del
romanzo è quella della edizione stampata a Milano dalla tipografia Guglielmini e Redaelli,
riprodotta in copia anastatica nel progetto editoriale di Salvatore Silvano Nigro per ‹‹I
Meridiani›› Mondadori, I ed., 2002.
10
A. MANZONI, Promessi Sposi, IX, 17.
11
A. MANZONI, Il cinque maggio, vv. 31-32.
8
I
IL LIBRO DEI POPOLI
‹‹Libro dei popoli››: così il classicista Giordani definì il capolavoro manzoniano,
auspicando tra l’altro ‹‹che fosse riletto, predicato in tutte le chiese e in tutte le osterie,
imparato a memoria›› (P. GIORDANI, lettera a Francesco Testa del 25 dicembre 1828 in
Epistolario di P. G., edito per Antonio Gussalli, Milano, Borroni e Scotti, VI, 1855, pag.
15).. In questa sede, con l’espressione libro dei popoli si vuole alludere non solo ai
Promessi Sposi, ma anche a quell’ideale libro del popolo, dei popoli: quello che raccoglie la
sapienza popolare, i proverbi; e dimostrare, quasi in un gioco di specchi, l’incontro e la
sovrapposizione spesso tra questo ‹‹libro gravido di pensieri›› – per riprendere
l’espressione del Tommaseo in epigrafe – e lo stesso capolavoro manzoniano.
‹‹Se tutti si potessero raccogliere
e sotto certi capi ordinare i proverbi
di ogni popolo e di ogni età, colle
varianti di voci, d’immagini e di
concetti; questo, dopo la Bibbia,
sarebbe il libro più gravido di
pensieri››.
(Tommaseo)
I.1 Il carattere “popolare” della poesia romantica.
‹‹Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe
di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti,
l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le
superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che
assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo››.
Così esordisce nella celebre Introduzione ai Sonetti – ‹‹libro di
filastroccole poetiche›› – Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863); il quale,
dopo averci informato che ‹‹i nostri popolani non hanno arte alcuna: non di
oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai››, e che pertanto
‹‹tutto esce spontaneo dalla natura loro››, così prosegue nella sua
preliminare dichiarazione poetica: ‹‹Dati i popolani nostri per indole al
sarcasmo, all’epigramma, al dir proverbiale e conciso, ai risoluti modi di un
genio manesco, non parlano a lungo in discorso regolare ed espositivo››
1
.
Questa pagina, che funge da dichiarazione di intenti, da carta di identità,
per così dire, dei ‹‹distinti quadretti›› che il lettore si accinge a leggere,
potrebbe benissimo essere assunta a manifesto di quella che è la poetica
1
G. G. BELLI, Introduzione, in ID., Sonetti, a cura di Pietro Gibellini, Milano, 1978,
Mondadori. (il corsivo è mio).
10
romantica, almeno in uno dei suoi aspetti peculiari: il suo carattere
“popolare”. Infatti, il Belli, pur rifuggendo l’etichettatura di romantico, in
quell’universo culturale si mosse, concordando coi romantici non solo
nell’aborrimento degli eccessi del classicismo purista, ma anche in questa
comune attenzione alla letteratura sul popolo e per il popolo.
È noto l’interesse che, a partire da Johann Gottfried von Herder (1744-
1803), pervade alcuni tra i maggiori protagonisti della scena letteraria sette-
ottocentesca. Lo storico e pensatore tedesco intese la letteratura quale
manifestazione diretta dell’anima popolare. Ad onor del vero, va detto che
‹‹questo principio è recepito, in Italia, più nel senso di una letteratura
destinata al popolo e da esso fruibile, che in quello originario, ricavabile
dalla filosofia di Johann Herder››
2
.
Però non si possono tacere esperienze che si muovono in tale direzione
“popolare” di letterati romantici, tanto nella produzione poetica diretta, che
nelle numerose pagine di critica letteraria: dal più famoso manifesto
romantico, la Lettera semiseria (1816) di Giovanni Berchet (1783-1851), in
cui si va affermando ‹‹come la vera poesia sia la popolare››, alle Avventure
letterarie di un giorno (1816), in cui Pietro Borsieri (1786-1852) va alla
ricerca dell’ ‹‹immagine fedelissima delle abitudini, dei costumi, delle idee
e delle passioni predominanti dei popoli››; dagli acuti interventi di Carlo
Tenca (1816-1883) sui Proverbi toscani (1852) di Giuseppe Giusti (1809-
1850) e sui Canti popolari del Tigri (1856), all’interesse per la poesia
popolare di Carlo Cattaneo (1801-1869) e dello stesso Tenca, entrambi, tra
l’altro, versificatori in dialetto.
Qualche riga in più, in questa velocissima e incompleta rassegna – che
non ha presunzione di essere esauriente, ma che mira soltanto a fornire
qualche rapida coordinata dell’argomento – richiedono il Tommaseo e il già
menzionato Belli.
2
G. BARONI (a cura di), Storia della critica letteraria in Italia, Torino, UTET, pag.
324.
11
‹‹Il Tommaseo è il più autentico rappresentante nel nostro
Romanticismo del culto della “poesia popolare”, nel senso dato
all’espressione da Herder, come, cioè, poesia nata dall’anima popolare e
contrapposta polemicamente, come più genuina e spontanea, alla “poesia
d’arte”, letteraria e accademica››
3
. È Mario Puppo, tra i più acuti critici
ottocentisti, a fornirci in poche pennellate questo eloquente ritratto dello
scrittore, critico e uomo politico che fu Niccolò Tommaseo (1802-1874);
evidenziando al contempo che ‹‹manifestazione massima di questo suo culto
(e l’opera, in questo senso, più significativa del Romanticismo italiano) è la
grande raccolta dei Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci (1841-42)››.
Quali i motivi di tanta e tale attenzione per il “popolo”? È ancora Puppo a
risponderci:
Le ragioni di simile esaltazione non sono soltanto estetiche: infatti il Tommaseo vede
nel popolo la matrice dei più alti valori morali e politici. Al popolo attribuisce anche la
creazione della lingua: da esso il singolo scrittore trae insieme con le ispirazioni più
autentiche anche il suo linguaggio più vero. Dalla mistica fede nel popolo creatore
nasce nel Tommaseo la difesa, nella polemica intorno alla lingua, dell’uso popolare
toscano (da motivi diversi, quindi, da quelli che spingevano il Manzoni in analoga
direzione).
Di questa particolare propensione per il “popolare” – che si è soliti far
risalire all’influenza del Rousseau
4
, di cui fu appassionato lettore,
soprattutto nell’adolescenza – il Tommaseo ce ne fornisce un importante
saggio anche in campo linguistico
5
. In questo senso, il Dizionario dei
3
M. PUPPO, Tommaseo, in Dizionario critico della letteratura italiana, II edizione,
volume IV, RO – Z, Torino, Utet, 1986.
Per un approfondimento della tematica “popolare” in Tommaseo, si veda pure M. PUPPO,
Poetica e poesia di Niccolò Tommaseo, Roma, Bonacci; in particolare il capitolo intitolato
Tommaseo e il mito del popolo, pp. 53-67.
4
L’intensa affinità interiore tra Rousseau e Tommaseo ebbe inevitabili conseguenze
anche in atteggiamenti esterni: si narra che la madre del Manzoni lo chiamava ‹‹il suo
Rousseau››; le fa eco il Cantù nel Romanzo autobiografico.
5
Non dimentichiamo che per i romantici uno dei principali elementi costitutivi della
“nazione” – concetto che trova in quegli anni la sua genesi e la sua fortunata teorizzazione
– è la lingua, che solo il popolo possiede nel suo aspetto più genuino, vero, autentico. Lo
12
Sinonimi (1830) e quello Della lingua italiana (1859-79) sono esempi
lampanti di come l’unica norma seguita sia l’uso vivo del popolo, nella sua
primigenia genuinità
6
: non, quindi, il fiorentino colto manzoniano, ma l’uso
del popolo, la sua lingua che non è frutto di convenzione e di artificio, ma
peculiarità datagli da Dio stesso.
Stesso modo di procedere quello del Belli, che nella già citata
Introduzione non manca di informarci che sarà suo scopo ‹‹esporre le frasi
del Romano quali dalla bocca del Romano escono tuttodì, senza ornamento,
senza alterazione veruna, senza pure inversione di sintassi o troncamenti di
licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso››. È suo
intento ‹‹insomma, cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso››.
Grammatica che, seguendo quel gusto, già evidenziato, per l’erudizione
linguistica, proprio dei romantici, il Belli non manca di fornirci al termine
dell’Introduzione stessa: una sorta di manuale per l’uso, di legenda per
meglio leggere e interpretare non già ‹‹la poesia popolare, ma i popolari
discorsi svolti nella [sua] poesia››, nei quali il lettore si accinge a muovere i
primi passi.
In Belli questo dir popolare va spesso a braccetto col dir proverbiale. Lo
stesso poeta romanesco non manca di informarci di ciò, come ho già avuto
modo di dire all’inizio di questo paragrafo. Chiunque può facilmente notare
che quello popolare sia per lo più ‹‹un dialogo inciso, pronto ed energico: un
metodo di esporre vibrato ed efficace; una frequenza di equivoci ed
anfibologie, [che] risponde ai loro bisogni e alle loro abitudini, siccome
conviene alla loro inclinazione e capacità››
7
.
stesso Tommaseo ci spiega: ‹‹Nazione avremo quando avrem lingua comune… è questione
di vita e di morte; e solo gli educatori possono scioglierla davvero; confermando il
linguaggio a un tipo vivente, un tipo certo: il Toscano. Che s’abbia a pensare di quella
lingua che non è ispirata dal popolo, che i modi del popolo fugge, lingua de’ libri e de’
grandi, cioè lingua de’ morti; il suo titolo vel dice: aulica e cortigiana››. Cfr. N.
TOMMASEO, Dell’Italia, a c. di R. Balsamo Crivelli, Torino, 1920, II, p. 132.
6
Sul concetto di “popolare” che ha mosso anche il lavoro del Dizionario, si veda C. DI
BIASE, Il Dizionario dei sinonimi di Niccolò Tommaseo, Napoli, Casa editrice Federico &
Ardia, 1967, in particolare L’uso vivo popolare, pp. 155-169.
7
G. G. BELLI, op. cit.
13
Col Belli, pertanto, facciamo un ulteriore passo avanti, si entra nel vivo
di quella attenzione al “popolare” propria dell’Ottocento: con il
“proverbio”
8
, una delle forme per eccellenza più “popolari” che
l’espressione umana abbia mai conosciuto. Se non altro perché legata
all’oralità, come qualsiasi forma popolare che si rispetti, visto che il popolo
manca anche di scrittura
9
.
I.2 Il proverbio.
‹‹È stata più volte segnalata la difficoltà di dare una definizione univoca
ed esauriente di ciò che intendiamo con proverbio››. Così chiarisce fin
dall’inizio della Presentazione alla Proverbiade romanesca
10
, Tullio De
Mauro, parlando di ‹‹statua dell’Indeterminatezza nel tempio del
linguaggio››, secondo una famosa immagine di Francesco De Sanctis. Il
proverbio, questo sconosciuto!
11
Un ‹‹volto enigmatico, per dirla con Del
8
Per i rapporti strettissimi tra Belli e il proverbio, tanto in lingua che in dialetto, si
veda l’ottimo volume curato da M. TEODONIO e R. VIGHI, La proverbiade romanesca di
Giuseppe Gioachino Belli. Proverbi e forme proverbiali nei versi e nelle prose del poeta,
Roma, Bulzoni, 1991, del quale mi sono avvalso in questo capitolo; in particolare la ‹‹densa
introduzione storica›› – per dirla con Tullio De Mauro nella Presentazione – di Teodonio,
di cui riporterò ampi stralci.
9
‹‹Nel mio lavoro io non presento la scrittura de’ popolani. Questa lor manca; né in
essi io la cerco, benché pur la desideri come essenziale principio di incivilimento. La
scrittura è mia, e con essa tento d’imitare la loro parola››. G. G. BELLI, op. cit.
10
TEODONIO – VIGHI, op. cit., p- IX
11
Non è mio intento, in questa sede, fare uno storia del proverbio e della sua teoria, per
almeno due motivi: primo, perché ritengo già esaurienti e qualificati gli studi finora svolti
in questa direzione (valga, su tutti, lo studio del più grande paremiologo del Novecento, A.
TAYLOR, The Proverb, Cambridge Mass 1931; per un apporto critico più recente, si
consultino i validissimi contributi di T. FRANCESCHI – direttore dell’Atlante Paremiologico
Italiano – e di V. BOGGIONE, nella corposa Introduzione al Dizionario dei Proverbi della
Utet, di cui ho già riferito nell’Introduzione); secondo, perché scopo di questa Tesi è di
trattare quei proverbi che troviamo nei Promessi Sposi. ‹‹Veduta la qual cosa, – è il caso di
dire col Nostro, nella celebre conclusione dell’Introduzione – abbiamo messo da parte il
pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro
impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile di un altro, potrebbe parer cosa ridicola; la
seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo››.
È pur vero, però, che bisogna conoscere un minimo chi è il protagonista di un discorso,
fare le dovute presentazioni. Mi limiterò pertanto a riportare, commentandoli, ampi stralci
14
Ninno, che il proverbio nasconde dietro la familiarità dell’uso
quotidiano››
12
.
Quando si vuol conoscere una persona, in genere si comincia dal suo
nome; e se non sempre vale il detto nomina sunt consequentia rerum, va pur
riconosciuto che in alcune circostanze i nomi parlano da sé e ci informano
su chi o cosa abbiamo davanti. Nel caso del proverbio è quanto mai utile
risalire al suo etimo. Come avviene per la maggior parte dei fenomeni,
annota Tullio De Mauro,
le parole che denotano il proverbio appaiono in età più tarda delle prime attestazioni di
strutture proverbiali: paroimía appare in Grecia nel V secolo; e a Roma solo nel I
secolo a.C. appaiono le diverse parole concorrenti per questa nozione: il prestito grezzo
dal greco, ritenuto preferibile da Varrone, adagio e adagium; proverbium (forse calco
dal greco paroimía) che infine ha prevalso nelle lingue neolatine.
Si tratta di vocaboli non esenti da qualche difficoltà etimologica, d’ordine sia
fonologico sia semantico. La parola greca pare ricondurci al mondo della sapienza
degli Omeridi, alle oîmai, ai temi che i rapsodi negli agoni intessendo la complessiva
narrazione poetica. Ma, nonostante il diverso parere di recenti studiosi, non risulta
perspicua la funzione del proverbo para-. Solo, come si accennava, si intravede nella
denominazione un collegamento tra la nozione di proverbio e un materiale linguistico
già dato e canonizzato, come appunto le oîmai. Questo legame è ancor meglio marcato
da vocaboli come adagium e adagio, in cui, a parte qualche non insuperabile difficoltà
fonetica (a causa del rapporto con prodigium), si stabilisce un legame con aio
“parlare”.
Pur con qualche margine di incertezza, il proverbio pare dunque identificato come un
“detto”, cioè come una parte del materiale linguistico dato a monte delle costruzione
del singolo discorso ed enunziato. (…).
Gli etimi insomma convergono nel sottolineare nel proverbio la sua natura di “già
detto”, di appartenente a un materiale testuale già precostituito, obbligante rispetto alle
possibili scelte volontarie del singolo scrivente e parlante. Come i sintagmi
cristallizzati o idioms, come le frasi famose e i detti memorabili, anch’essi sono a
dell’esauriente e ricca introduzione storica di Marcello Teodonio alla Proverbiade,
integrando, laddove ce ne fosse bisogno, con altri testi.
12
M. DEL NINNO, Proverbio, in Enciclopedia Einaudi, vol. 11, Torino 1980, p. 385.
15