sondato nelle sue reazioni e preso in considerazione in maniera scientifica
come mero consumatore di messaggi.
Tra la fine degli anni Sessanta e quella del decennio successivo, la
scoperta dell’impossibilità di raggiungere il benessere che la società e lo Stato
sembravano promettere, unita alla prova della debolezza del sistema
produttivo capitalistico, provocarono più di una rottura nei comportamenti
tradizionali e di crisi dei valori delle persone più giovani. I movimenti
giovanili del ’68 e quelli del 77, pur diversi nelle loro rivendicazioni e nella
loro composizione sociale, avevano alla base un forte senso di insofferenza
nei confronti di una società ad “una dimensione”, sentita lontana e non
partecipata.
La presa della parola da parte di nuovi soggetti sociali, il loro rifiuto di
integrarsi nella cultura dominante ed il tentativo di creare una
“controcultura”, si manifestarono nell’elaborazione di codici culturali nuovi
che, per diffondersi, si servirono paradossalmente degli stessi mezzi di
comunicazione di massa utilizzati dai poteri forti, utilizzati, però, con
“tattiche” differenti e su scala territoriale ridotta: mutavano i temi ed il
linguaggio, ma soprattutto le modalità che ne regolavano l’accesso da parte
delle persone.
La democratizzazione dell’accesso ai mezzi di comunicazione fu
l’elaborazione dei movimenti che trovò, in particolar modo all’estero, un
fertile terreno su cui svilupparsi negli anni a venire.
La democratizzazione del diritto di parola in senso partecipativo è
l’eredità che ancora oggi possono vantare le radio che, in Italia, provengono
da un passato “militante”, ma che anche molte altre emittenti locali e
comunitarie, con retroterra culturali differenti, hanno finito con l’adottare.
Negli ultimi tempi sentiamo parlare, con sempre maggior frequenza, di
estensione dei diritti di cittadinanza e di forme partecipative che permettano
ai cittadini di prendere parte attiva alla vita democratica del proprio paese,
soprattutto a livello locale; in molti paesi europei, questa realtà è già viva da
anni e gode anche di un’ottima salute, come ci dimostrano gli esempi di paesi
quali la Spagna, l’Olanda e la Francia, con le loro catene di emittenti
comunali e democratiche.
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In Italia, lo sviluppo di un modello moderno di radiofonia locale di tipo
partecipativo, con una sezione informativa ricca e attenta al rapporto col
territorio, che dia spazio alle voci di tutti i soggetti del territorio, sembra
ancora oggi, un traguardo molto lontano.
Ciononostante, esistono piccole realtà che negli anni hanno cercato di
non cadere nell’omologazione di stampo commerciale, fatta di “radio
jukebox” o di dediche, ma hanno cercato, invece, una “via italiana” allo
sviluppo di queste “piccole antenne” comunitarie e partecipative.
Sebbene il nostro sia stato da sempre il paese con il maggior numero di
radio in Europa, il fenomeno delle emittenti locali e comunitarie di qualità è
storicamente molto ridotto e poco organizzato, e solo da alcuni anni a questa
parte sta conoscendo una certa vivacità.
Popolare Network è stato il primo network di radio non religiose a
nascere sul nostro territorio che, non più tardi del 1994, ha unito una decina di
emittenti locali attorno alla capofila milanese Radio Popolare.
In Piemonte hanno sede due delle radio appartenenti al network, Radio
Flash a Torino e Radio Gold ad Alessandria. Sono entrambe radio a statuto
commerciale, che presentano una programmazione modellata sul territorio in
cui sono situate.
Sono radio nate e cresciute in due contesti sociali ed economici molto
diversi; una situata in città, dove è sempre stata forte la presenza di lavoratori
dell’industria e di studenti, mentre l’altra è situata in una provincia molto
estesa e culturalmente variegata, dove la compagine sociale presenta una forte
connotazione del settore terziario - con l’industria orafa – ed agricolo.
Gli studi condotti fino ad oggi, hanno preso in considerazione solo
marginalmente realtà radiofoniche locali come queste, si sono concentrate a
loro volta sulla produzione o sull’organizzazione dei lavoratori, tralasciando,
perlopiù, la questione della partecipazione dei cittadini ai media locali.
Questo lavoro si occuperà di quelle radio locali provenienti da un
retroterra socio-politico appartenente al movimentismo di sinistra, che, in
Piemonte, sono state portatrici di una logica di partecipazione cittadina al
mezzo di comunicazione.
La tesi qui esposta ha come domanda oggetto di studio le emittenti
piemontesi affiliate a Popolare Network; di queste emittenti si indagano gli
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strumenti e gli spazi che esse offrono alla partecipazione dei cittadini, alla
vita politica e sociale della comunità territoriale a cui appartengono. L’ipotesi
è che esse contribuiscano a potenziare gli spazi pubblici in qualità di
mediatori tra le diverse istanze della società locale
Si è scelto di suddividere il lavoro in quattro capitoli. Il primo traccia il
cammino storico che ha portato, dai primi esperimenti di radiofonia libera in
Italia e in Europa, alla nascita e allo sviluppo, nel nostro paese, dei network di
radio comunitarie e locali negli anni ’90. Il capitolo presta attenzione, si
sofferma sulle caratteristiche che differenziano questo tipo di radiofonia da
quella commerciale.
Nel secondo capitolo, di carattere teorico, si esaminiamo i principali
contributi che, nel corso degli ultimi settant’anni, hanno studiato le relazioni
tra la società civile ed il sistema mediatico, soffermandosi sui lavori di quegli
studiosi che hanno concentrato l’attenzione alle dinamiche di
democratizzazione della parola nei mezzi di comunicazione.
Il terzo capitolo presenta la metodologia utilizzata per il lavoro di
ricerca svolto sul palinsesto e sui programmi, sulle sedi ed i lavoratori di
Radio Flash e Radio Gold.
Il quarto capitolo è dedicato alla presentazione dei risultati della ricerca,
ottenuti analizzando, da un punto di vista sociologico, la struttura interna
delle emittenti, per comprenderne il funzionamento e l’organizzazione del
lavoro. Parte del capitolo è rivolta all’analisi linguistica e contenutistica di ciò
che le radio quotidianamente producono.
La speranza, alla fine, è quella di dare un contributo all’indagine su
queste piccole realtà ancora poco esplorate in Italia, spesso considerate
marginali da coloro che si occupano di radiofonia, in quanto poco redditizie
economicamente. Il processo di ricerca ha come obiettivo quello di
dimostrare che il vero valore di una radio locale risiede nel perseguire non
una logica di profitto economico, bensì culturale; una logica che metta al
centro dei propri interessi la massimizzazione degli utili a livello sociale.
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1. Struttura teorica: radio comunitarie e cittadinanza
1.1 Voci dagli anni Settanta: le radici delle radio comunitarie
Il vasto processo di ristrutturazione della produzione industriale, che
investì l’Italia a metà degli anni Settanta, ebbe come conseguenza sociale la
graduale sostituzione del lavoro umano con quello svolto dalle macchine,
attraverso una progressiva “robotizzazione del processo lavorativo” che
coinvolse interi cicli di produzione. Gli strascichi della crisi petrolifera del
1973, provocarono una diffusa debolezza dell’economia nazionale e
portarono ad una rapida crescita del settore sommerso del mercato del lavoro,
alla riduzione della produzione ed ad un incontrollato aumento del debito
pubblico dello Stato.
In questo nuovo panorama economico i partiti di massa, che
tradizionalmente rappresentavano il blocco produttivo, non riuscivano più ad
assicurare la rappresentanza politica di quella parte di cittadini che era stata
maggiormente colpita dalla crisi economica e che cominciava a manifestare
un certo malcontento.
La frattura che si venne a creare in quegli anni tra la politica dei partiti
ed alcuni settori della società fu netta e mai più risanabile: da una parte
avvenne l’istituzionalizzazione di alcune organizzazioni della sinistra
libertaria – che entrarono in parlamento o parteciparono ai nuovi organismi
decentrati di governo - , mentre dall’altra parte si vennero radicalizzando le
forme di protesta.
La rottura tra i gruppi della sinistra extraparlamentare e il PCI, avvenne
nel febbraio 1977, quando il comizio del leader della CIGL Luciano Lama
presso l’Università di Roma, fu interrotto dalle proteste degli studenti, che
presto si trasformarono in scontro aperto con il servizio d’ordine del
sindacato.
Un mese più tardi, un militante di Lotta Continua, il venticinquenne
Francesco Lo russo, venne ucciso durante uno scontro di piazza tra autonomi
e militanti di Comunione e Liberazione a Bologna, provocando violente
reazioni da parte dei manifestanti.
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Iniziava con questi due fatti il movimento del 1977, periodo di
mobilitazione sociale caratterizzato da rivendicazioni di carattere differente,
portate avanti da soggetti tra loro molto diversi: un’ala del movimento,
considerata pacifista, era portatrice di rivendicazioni riguardanti l’ambiente,
la liberazione della donna, la condizione giovanile; mentre sotto l’area della
cosiddetta Autonomia si raggruppavano militanti provenienti dalle lotte
studentesche ed operaie di quegli anni, in particolare di coloro che avevano
abbandonato la formazione extraparlamentare Lotta Continua, nel 1976.
L’area dell’autonomia era a sua volta caratterizzata da due “anime” ben
distinte, una più operaista, di stampo marxista-leninista, l’altra più anarchica
e libertaria.
Ciascuna delle due aree dell’autonomia possedeva propri mezzi di
comunicazione: l’ala operaista faceva sentire la propria voce attraverso
pubblicazioni mensili a stampa, come Controinformazione, Rosso e Lotta
Continua; l’area creativa, invece, raccolta intorno al collettivo bolognese
A/traverso, si avvaleva di pubblicazioni come la rivista Zut e le trasmissioni
su radio pirata, la più famosa delle quali fu Radio Alice a Bologna.
Il linguaggio e le tematiche dell’area più pacifica del movimento, quella
che trovava terreno d’azione nelle periferie delle città, riguardavano
l’espropriazione dei beni di consumo, la rivalutazione del tempo libero, dello
spettacolo e del gioco, proprio mentre lo spettacolo della merce della società
dei consumi avanzante provocava nuovi desideri di consumo attraverso i
nuovi linguaggi pubblicitari.
Un’ampia gamma di soggetti appartenenti alla società civile come le
donne, i giovani, i disoccupati cominciarono focalizzare i propri obiettivi sul
presente e scelsero di misurarsi col sistema a partire dalla propria marginalità;
cambiava la percezione che le persone avevano di loro stesse, non più come
produttori di merci, ma come individui portatori di significato in quanto tali.
La loro scelta fu quella di rimanere ai margini dei canali della partecipazione
politica e, di conseguenza, fuori dal controllo del sistema politico,
alimentando un’esasperata conflittività sul piano sociale.
Erano mutate, rispetto alle contestazioni di fine anni Sessanta, le
rivendicazioni collettive degli individui: ora riguardavano la qualità della vita,
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i diritti civili, l’ecologia e i diritti dei gruppi minoritari, delle donne,
generalmente al margine dei canali abituali della mediazione politica.
La struttura di questi gruppi tendeva a privilegiare il consolidamento
delle relazioni all’interno, piuttosto che la mobilitazione all’esterno del
gruppo; la costruzione dell’identità avveniva con una sorta di chiusura in sé
stessi e con la creazione di una controcultura fatta di rapporti amicali e
politici poco sensibile alle influenze esterne.[Della Porta, 1996]
Le dinamiche di questo nuovo ciclo di proteste videro il mutamento
all’interno dei modelli organizzativi dei gruppi di interesse: il modello
burocratizzato e centralizzato tipico delle organizzazioni della nuova sinistra
venne sostituito da piccoli gruppi decentrati ed informali, caratterizzati da un
basso livello di coordinamento e dal rifiuto del leader, da una forte enfasi sul
com’unitarismo e l’amicizia e da una maggiore importanza attribuita
all’espressività.
L’obiettivo sembrava voler essere quello di
“difendere la proprietà che compone l’appartenenza ad una identità, la creatività,
l’affettività, l’esistenza biologica e razionale”[Emilio Prado, Las Radios Libres, 1984].
Il movimentismo giovanile si frammentò in numerosi gruppi come le
associazioni di base, le organizzazioni alternative (ecologiste, femministe e
antinucleari), collettivi e gruppi politici progressisti, ma anche di destra, tutti
piuttosto agguerriti nella rivendicazione della possibilità di gestire mezzi di
informazione, comunicazione e produzione culturale propri e realmente
autonomi, legati ai propri interessi ed esigenze particolari.
L’esperienza dei movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta e
il crescente spazio occupato sui media dalle richieste di cambiamento sociale
da parte di quella generazione che si era resa protagonista delle lotte in quegli
anni, fecero sì che, a partire dalla presa di coscienza del ’68, le critiche al
sistema dei media dominante, accusato di aver manipolato e mentito sugli
avvenimenti di piazza di qualche anno prima, arrivassero ad occupare uno
spazio sempre maggiore nel dibattito in seno ad una buona parte della società
italiana , al punto da divenire, in molti casi, l’obiettivo centrale delle stesse
agitazioni o talvolta, la causa della caduta dei governi.
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In altri termini, per una fetta consapevole della società italiana,
l’urgenza di disporre di canali alternativi a quelli statali, per diffondere
pensieri e tendenze, divenne imprescindibile: fu evidente che l’apertura al
dialogo tra le diverse opinioni, tendenze sociali, politiche, culturali e religiose
nel rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione, rappresentava un principio
fondamentale del sistema radiotelevisivo, che non poteva realizzarsi con la
presenza della Rai come unico soggetto in campo.
Accanto alle rivendicazioni sui media da parte di questi gruppi
organizzati di cittadini si aggiunsero, ben presto, gli interessi di grandi gruppi
editoriali nazionali in via di espansione (Panorama, l’Espresso), attirati dalla
possibilità di un’inaspettata spinta all’ apertura del mercato dei mezzi di
comunicazione e dalla conseguente tendenza alla concentrazione delle
iniziative oligopolistiche con forti interessi economici e commerciali che
permettessero il controllo contemporaneo su una testata giornalistica e su più
emittenti radio locali.
Tale fenomeno, oltre a rappresentare un fattore di concentrazione
oligopolistica, costituiva, per i grandi gruppi industriali italiani, una sorta di
lobbying mediatico, attraverso cui esercitare pressioni o anche solo far
conoscere le proprie intenzioni, riguardo temi di ordine pubblico, ad altri
soggetti.
Già nel 1973, nonostante la crisi economica che aveva colpito
l’industria, si era registrato un aumento significativo degli investimenti di
capitali e tecnologie nel settore delle comunicazioni di massa, con lo
sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti, delle tecnologie di broadcasting via
satellite e via cavo; il che dimostra come il sistema dei media statali
monopolistici fosse già da tempo messo sotto pressione da spinte
liberalizzatici per lo più eterogenee, provenienti da differenti soggetti sociali.
A fianco di queste grandi concentrazioni di media esisteva poi tutta una
serie di piccole iniziative imprenditoriali a livello locale, sparse su tutto il
territorio nazionale, impegnate già dal 1972 nella trasmissione di programmi
televisivi via cavo.
Fu il caso di Telebiella, televisione locale via cavo della omonima
cittadina piemontese, aperta il 6 aprile del 1972 e chiusa per ordine del
Governo il 1 giugno 1973.
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In un tal clima di fermento, il monopolio pubblico della RAI si vide
costretto, più per obbligo che per virtù, a rivedere in senso più partecipativo il
suo ruolo di servizio di pubblica utilità. Già nel 1960, la Corte Costituzionale
intervenne su questioni relative al controllo e alla democratizzazione dei
mezzi di comunicazione via etere, legittimando il monopolio, ma a patto che
venissero rispettati i fini di utilità generale previsti dalla Costituzione.
Negli anni successivi, l’ esigenza che l’emittenza pubblica
corrispondesse alle richieste di partecipazione espresse dalla collettività fu
sostenuta, a livello istituzionale, da tre soggetti, quali: le maggiori forze
politiche, il gruppo composto dalle istanze emergenti dei sindacati, uomini di
cultura e costituzionalisti e infine dal gruppo che si identificava con lo stesso
management della RAI, preoccupato oramai dal problema della propria
sopravvivenza in un contesto in rapido mutamento. Nel 1969 questo ultimo
gruppo aveva tentato, con il cosiddetto ordine di servizio, un radicale
rimpasto di tutte le cariche direttive, nella speranza di mantenere quanto più
inalterato lo status quo della struttura aziendale. Tuttavia il documento non
venne firmato dal governo e il rimpasto non passò.
Intanto, negli stessi anni delle manifestazioni dei movimenti giovanili in
piazza, Radio Rai, sotto la gestione Bernabei, apriva i suoi microfoni ai
fermenti creativi di minoranze artistiche ed intellettuali ed alla liberazione dei
costumi.
Lo fece con due trasmissioni, Alto Gradimento e Chiamate Roma 3131,
magistralmente condotte dalla coppia Boncompagni-Arbore la prima, e da
Gianni Boncompagni, Franco Moccagatta e Federica Taddei la seconda.
Furono trasmissioni rigorosamente in diretta che contribuirono a
rinnovare il profilo linguistico dell’azienda pubblica e, nel lungo periodo,
anche della radiofonia privata che di lì a qualche anno avrebbe fato il suo
esordio nel panorama italiano.
Alto gradimento fu una trasmissione di cabaret e intrattenimento che
stravolse i crismi del parlato radiofonico tradizionale, con l’introduzione di
espressioni dialettali, versi disarticolati e di un linguaggio iterativo e
sovrapponendo, per la prima volta in radio, le parole alla musica,
“sporcando”, così, le canzoni.
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Chiamate Roma 3131 era una trasmissione basata completamente sulle
chiamate telefoniche degli ascoltatori. Le parole pronunciate dagli ascoltatori
nel ricevitore e trasmesse in diretta acquistavano un certo diritto alla
cittadinanza, mentre la radio sembrava acquistare la possibilità di un
“ feedback in tempo reale, la cui negazione aveva da sempre costituito una della
qualifiche caratterizzanti tutti gli elementi delle comunicazioni di massa”[Bettetini 1992,
365]
Se il sistema politico si trovò incapace di gestire le richieste di
cambiamento di una società in fermento, fu a livello più popolare che il suo
apparato informativo si rivelò in grado di rispecchiare maggiormente le
richieste di partecipazione, visibilità, e corretta informazione dei cittadini
attraverso i media.
Il problema dell’obiettività e dell’imparzialità di un servizio pubblico
ancora sottoposto alle pressioni governative si ripropose nel dicembre 1972,
alla vigilia del rinnovo della convenzione ventennale fra Stato e
Concessionaria pubblica.
Si dovette però aspettare il 1974 per vedere per la prima volta
seriamente incrinata la certezza del monopolio statale, ad opera, però, di un
organo non politico, bensì giuridico: in seguito allo smantellamento da parte
dello Stato dei ripetitori di Telecapodistria e di alcune emittenti svizzere, due
sentenze della Corte Costituzionale, la 225 e la 226 di quello stesso anno,
stabilirono per la prima volta “l’incostituzionalità della riserva statale
dell’attività di ritrasmissione di programmi delle emittenti radiotelevisive
estere” , oltre che “l’incostituzionalità della riserva statale nei servizi
radiotelevisivi via cavo in ambito locale,[…] in qualità della natura tecnica
del mezzo e dei limitati costi di gestione” che permettevano, così, un certo
pluralismo informativo. Il caso di queste due sentenze e della successiva, nel
1976, ha fatto parlare alcuni autori di una certa “giurisprudenza demolitoria”
[Monteleone 1992] della Corte, in mancanza – o forse nell’attesa – delle
messa a punto, da parte del governo, di un quadro legislativo chiaro. Il quale
giunse finalmente nell’aprile del 1975, dopo estenuanti trattative
parlamentari protrattesi nel corso di tutto l’inverno del ‘74, quando il
governo promulgò la tanto attesa legge di riforma n°103, che nasceva in base
al presupposto, ampiamente condiviso da molte forze politiche,
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dell’incapacità della RAI di assicurare un’informazione ed una
programmazione rispondenti alle richieste della stessa classe politica e alle
esigenze degli utenti.
La legge 103 si snodava attorno a tre punti principali:
ξ La riserva dello Stato sulla diffusione dei programmi su scala
nazionale, a patto che la concessionaria pubblica garantisse una maggiore
apertura pluralista a tutte le componenti della società italiana. Vigilanza,
gestione e controllo della RAI passavano, per la prima volta nella storia della
radiotelevisione italiana, sotto la giurisdizione del parlamento, attraverso
l’istituzione di una Commissione Parlamentare e la nomina, sempre ad opera
del parlamento, di buona parte dei membri del Consiglio di Amministrazione.
ξ Costituzione di una terza rete pubblica a cui venivano affidate le
istanze locali e le esigenze di decentramento e di partecipazione dei cittadini.
Le stesse esigenze avrebbero trovato spazio, secondo il legislatore, anche
nello sviluppo di reti televisive via cavo, con un bacino di utenza non
superiore ai 150.000 abitanti.
ξ Era consentita la ripetizione del segnale a televisioni straniere sul
territorio nazionale.
Tuttavia, proprio tra la fine del 1974 e i primi mesi del ’75 , alcuni
soggetti sociali e politici, legati all’area delle sinistre, avevano dato vita, a
livello locale, a trasmissioni radiofoniche libere, ovvero non dotate di nessun
tipo di licenza di trasmissione(la prima trasmissione in assoluto fu quella di
Radio Bologna per l’accesso pubblico, il 23 novembre 1974). Dai loro
microfoni i primi promotori di queste iniziative chiedevano la
decentralizzazione del monopolio e la capillarizzazione delle emittenti di
base.
Il momento dovette sembrare quello opportuno perché, nel giro di
qualche mese, l’etere di molte città italiane fu letteralmente invaso da
centinaia di iniziative simili, le cosiddette radio libere.
Da questo momento in poi il legislatore resterà sempre un passo indietro
nella messa a punto di leggi capaci di regolare secondo un quadro ben
definito ed equo il sistema medianico italiano.
Bisogna dire che negli anni precedenti la sinistra tradizionale aveva
mostrato una visione talvolta anacronistica della lotta per il rinnovamento del
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sistema televisivo, ancora troppo ideologica e legata principalmente alle
preoccupazioni dell’attività di propaganda, mentre la nuova sinistra e le
diverse correnti del movimento giovanile che si era formato sull’onda lunga
delle grandi lotte operaie e studentesche della fine degli anni ’60,
consideravano il sistema radiotelevisivo come un’arma irrimediabilmente
controllata dalla classe dominante e vedevano solo una lontana prospettiva di
cambiamento.
Le forze politiche tradizionali non avevano compreso che quel modello
radiotelevisivo aveva evidenziato punti di “strangolamento”, che impedivano
il pieno sviluppo del pluralismo, dell’ accesso, del decentramento e della
partecipazione dei cittadini. Non si era compreso, a livello della classe
politica, che , se si voleva legare il sistema radiotelevisivo al processo di
democratizzazione del paese, era assolutamente necessario trasformare quel
modello in profondità.
La “nuova sinistra”o meglio, la sinistra extraparlamentare (una
definizione che appunto comprendeva movimenti eterogenei portatori di
richieste spesso differenti), si era mossa, fino ad allora, nell’ottica ristretta
dell’informazione alternativa - o “controinformazione” - utilizzando
prevalentemente media di tipo tradizionale come i manifesti, fogli ciclostilati
e la stampa. La “nuova sinistra” si accontentava di occupare spazi ridotti
all’interno del sistema informativo, senza alcuna strategia organizzata,
teorizzando la cancellazione della qualità tecnica e professionale e
rinunciando a qualsiasi approfondimento teorico nella messa a punto di una
strategia politica nel settore della comunicazioni di massa e, in particolare,
nel sistema radiotelevisivo.
Al principio le ipotesi, diffuse nella coscienza degli appartenenti ai
movimenti, di arrivare ad un uso attivo e di massa della radio (Brecht) o di
moltiplicare il numero delle emittenti, ampliando la base produttiva di cultura
e informazione (Enzensberger), se da una parte sembravano bloccate dal
controllo del potere dominante sugli apparati di comunicazione, dall’altra
erano estranee alla cultura prevalente nelle forze della sinistra tradizionale in
materia di comunicazioni di massa.
I partiti della sinistra tradizionale, si rivelarono essere forze ancora
legate ad una vecchia concezione del monopolio televisivo dello Stato, più
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attente ai problemi di contenuto dei programmi che a quelli della struttura
dell’apparato che gestiva il servizio, oltre a credere che, per trasformare il
sistema radiotelevisivo, bastasse introdurre nel modello tradizionale processi
di pluralismo, decentralizzazione, accesso e partecipazione.
Le radio libere, in questo senso, cambiarono i codici del linguaggio
parlato con cui erano andate in onda le trasmissioni fino ad allora. L’italiano
senza accenti ed uniforme - poiché letto da un testo scritto - della radio
statale, veniva sostituito da un italiano ricco di inflessioni locali. Gli speaker
parlavano, per la prima volta, nello stesso modo degli abitanti della città; per
la prima volta venivano impiegate nelle trasmissioni le parole del linguaggio
quotidiano. Con l’utilizzo di un registro linguistico più informale e
spontaneo, più popolare ed accessibile, l’efficacia del messaggio su chi
ascoltava dovette essere sicuramente maggiore.
Lontani dai canali di dialogo tradizionali, sembrava che i movimenti
avessero una forte necessità di espressione per acquisire visibilità nel dialogo
sociale; il bisogno di disporre di canali di comunicazione rapidi, efficaci e
facilmente accessibili, orientarono il movimento verso l’utilizzo di media
come il cinema e la radio. Al grido di “guerriglia semiologica” e di
“controinformazione” il compito dei media alternativi rimaneva comunque
quello di operare una critica sui media dominanti, grazie anche agli strumenti
forniti da discipline quali la semiotica, insegnate in quegli anni negli atenei
più attivi nella contestazione, come all’Università di Bologna dove la
cattedra di semiotica era tenuta da Umberto Eco. [Gruber, 1997]
Le forze della sinistra parlamentare avevano perseverato, fino a quel
momento, nella loro disattenzione al momento storico contingente,
particolarmente favorevole sotto il profilo tecnologico (ad esempio l’arrivo
sul mercato di attrezzature più leggere), senza sviluppare mezzi di produzione
propri e flessibili, di facile utilizzo tecnico e professionale. Quando si
trovarono concretamente davanti a questa possibilità, non seppero elaborare
una strategia di trasformazione del sistema radiofonico nel suo complesso,
che, invece di basarsi su un lento processo di decentralizzazione della RAI, si
basasse sulla moltiplicazione delle emittenti libere. Queste ultime, ben
integrate nella realtà locale specifica e capaci di realizzare una
moltiplicazione delle fonti e dei centri di produzione, avrebbero potuto
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costituire un prolungamento della base produttiva destinata ad alimentare il
sistema delle reti radiofoniche regionali e nazionali, come invece successe in
altri paesi come la Spagna, dove negli ultimi anni del regime franchista la
nascita della Cadena SER raggruppò in una syndication le radio locali legate
storicamente alla sinistra.
Il fenomeno delle radio libere, costituito per un lato dai movimenti e
dall’altro dai piccoli impresari locali e dai grandi gruppi editoriali, vide ai
suoi albori una felice sintonia di interessi tra queste due anime del movimento
per la libertà di antenna, senza però che i suoi protagonisti diretti si
accorgessero dei conflitti di fondo tra due modi differenti di vedere
l’organizzazione di un futuro sistema dei media post-monopolistico.
Questa “doppia anima” del movimento mostrò tutte le sue
contraddizioni nel momento in cui la Corte Costituzionale, con l’ennesima
sentenza - la n°202 del 1976 - dichiarò legittima l’attività radiotelevisiva,
accogliendo la tesi dei ricorrenti in ordine alla disponibilità, a livello locale,
di un numero di frequenze utilizzabili “idoneo a scongiurare il pericolo di
monopoli ed oligopoli privati” , dichiarando allo stesso tempo anche la
parziale illegittimità del monopolio pubblico.
La sentenza 202 costituì il punto di snodo tra la fase in cui il movimento
che sosteneva le radio libere rivendicava l’esercizio di un diritto e la fase in
cui un il diritto – i famosi articoli 2 e 21 della Costituzione – veniva
legalmente esercitato.
Il fatto curioso è che il diritto prevalentemente rivendicato nella prima
fase non coincideva con il diritto esercitato in seguito alla legittimazione della
Corte Costituzionale. Di fatto, durante la fase di “illegalità” il movimento per
la libertà di antenna (raggruppato sotto le sigle ANTI, Associazione
Nazionale Teleradiodiffusioni Indipendenti e FRED, Federazione delle Radio
Emittenti Democratiche) lottò per il diritto alla libertà di espressione, quello
sanzionato dall’art 21 della Costituzione Italiana.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 202, dichiarò legittime le
emittenti locali sulla base del diritto, sì, alla libertà di espressione, ma anche
sulla base di quello alla libertà di impresa (art 41).
Quello che accadde in seguito fu rivelatore dell’occasione perduta dalle
sinistre nello sviluppo di un sistema di media indipendente: dopo il 1979,
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anno che vide nascere circa 1500 emittenti libere e democratiche, nel
decennio successivo una grande percentuale di queste fu costretto a chiudere
per mancanza di fondi e finanziamenti e per il mutamento del contesto sociale
in cui queste emittenti avevano trasmesso fino a quel momento.
Le emittenti sopravvissute dovettero in maggioranza piegarsi alle
logiche della massimizzazione dell’audience e del profitto, abbandonando
così il loro obiettivo di esercizio della libertà di informazione e di
espressione, oppure dovettero accettare l’entrata di un partito o di un
sindacato nel comitato di gestione, con la conseguente perdita
dell’indipendenza dell’informazione.
L’esperienza ha inoltre mostrato che la ricerca del profitto da parte delle
radio commerciali ha necessariamente comportato la continua
massimizzazione dell’audience, un processo che finì per condizionare i
contenuti e la struttura dei programmi trasmessi, imponendo, nella maggior
parte dei casi, una programmazione diretta ad un pubblico generico e
indeterminato.
Nonostante si possa chiaramente parlare di occasione perduta da parte
del movimento dei media indipendenti e democratici, rimane comunque
necessario sottolineare il valore di alcune sue rivendicazioni e conquiste,
l’importanza di un periodo di “moratoria” in cui si elaborarono i temi che
saranno ripresi come spunto e poi sviluppati, nel corso della decade
successiva, da molte emittenti locali, fino al traguardo del loro
riconoscimento nella legge sulla radiofonia comunitaria del 1990.
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