6
Il seguente lavoro nasce da questi interrogativi. Si propone di dare una qualche
risposta ad essi attraverso la ricognizione della letteratura e una ricerca sul campo.
Oggetto di interesse sono stati in primo luogo i significati e le finalità della
mediazione culturale, intesa come tecnica di gestione dei conflitti, ma anche, in
senso più ampio, come strumento di facilitazione del dialogo e della relazione tra
gruppi culturali.
Ci si è proposti poi di esaminare i percorsi e le esperienze di mediazione culturale, le
caratteristiche del ruolo del mediatore ed i possibili percorsi formativi. L’attenzione
è stata qui focalizzata principalmente sulle coordinate italiane del mediare, anche se
è sembrato doveroso gettare almeno uno sguardo superficiale alle realtà
internazionali più significative.
La ricognizione delle esperienze ha giustificato inoltre un approfondimento sulla
mediazione come servizio inserito in contesti organizzativi ed istituzionali specifici.
Oggi che l’Unione Europea e le massicce immigrazioni rendono attuale la sfida del
multiculturalismo e mettono in primo piano l’attenzione al benessere del cittadino e
all’offerta di servizi su misura e di qualità, investire sulla mediazione sembra una
scelta di notevole lungimiranza.
Particolare attenzione in questo senso è stata rivolta infine alla realtà della provincia
bergamasca. L’approfondimento è motivato dal fatto che essa è la cornice in cui
sorge un’esperienza organizzativa di notevole ricchezza, quella dell’Unità Operativa
Interculturalità della Asl di Bergamo e del suo servizio di mediazione culturale.
La seconda parte del lavoro è dedicata, come accennato sopra, ad una ricerca sul
campo intorno a questo caso specifico. Lo studio qualitativo e descrittivo
sull’organizzazione e soprattutto sull’esperienza di mediazione culturale, che in essa
si svolge, ha permesso di presentare dal vivo la complessità e la fatica di questo
processo e i punti di vista dei suoi attori protagonisti.
Anche in questo caso l’obiettivo è fare ordine nell’insieme delle pratiche e dei
significati del mediare, con particolare attenzione al concetto di conflitto, che si
ritiene cruciale per dispiegare al meglio le potenzialità ed il fine della mediazione.
Mediare oggi significa gettarsi nell’operatività e lavorare concretamente per
uno scopo ambizioso. Sospendere per un momento l’azione, riflettere sul percorso e
sulla direzione intrapresa è tuttavia necessario per dare un senso al presente e per
potersi orientare efficacemente al futuro.
Perché le Oasi di Pace non restino confinate in un angolo del mondo. O meglio,
perché in ogni angolo del mondo si possa credere nella soluzione pacifica dei propri
conflitti quotidiani.
La speranza è che il presente lavoro di analisi e ricerca possa dare il proprio
contributo a questa causa.
7
CAPITOLO I
L’IDEA FORTE
Il dio è giorno e notte, inverno estate,
guerra pace, sazietà fame,
e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi
e prende nome dall’aroma di ognuno di essi.
Eraclito
Un “vocabolo alla moda per un’idea forte” (P. Dewitte, 1993): questa è la
“mediazione culturale”, pratica tanto celebrata quanto priva di una definizione
univoca, sia in Italia, dove l’esperienza nel campo ha poco più di una decina di anni,
sia all’estero, dove già da tempo si riflette su di essa e sui temi dell’immigrazione e
del conflitto interculturale.
Avventurarsi nell’universo delle “mediazioni” significa accettare l’esistenza di
molteplici prospettive e modelli di intervento che portano lo stesso nome. Se è
possibile trovare un dato in comune entro questo complesso di azioni altamente
differenziato, esso sta nel fatto che il mediare è sempre una pratica “ternaria e
discorsiva” (Castelli, 2000), cioè basata su una “comunicazione a tre”, che si ritiene
efficace per sostenere la relazione tra due parti, entro un contesto più o meno
esplicitamente conflittuale.
Per dare un senso più articolato a questo processo comunicativo di mediazione,
si parta dunque dal suo fine, dall’ “idea forte”.
La finalità della mediazione può essere riassunta nel concetto di integrazione sociale,
intesa in generale come coesione e interdipendenza delle parti del sistema, in
particolare come inclusione, non discriminazione e accoglienza delle minoranze
etniche.
Se la mediazione culturale è un processo che ha per fine l’integrazione sociale, essa è
dunque al servizio di una società che aspira a costituirsi su legami solidi, su relazioni
di cooperazione e di reciprocità, su una capacità matura di gestire gli inevitabili
conflitti e di accogliere la diversità.
In questo modello di integrazione si riconoscono in effetti le due principali aree di
esperienza da cui la mediazione culturale prende vita: la prima consiste nelle pratiche
appartenenti alla famiglia delle mediazioni, che hanno in comune il principio della
gestione dei conflitti entro una logica costruttiva e di rilancio delle relazioni tra le
parti; la seconda comprende l’insieme delle attività che, a fronte della nascita di
8
nuove società multietniche, si orientano alla costruzione di spazi di incontro, di
accoglienza e di comunicazione efficace tra le culture.
Nella sua origine latina, il termine “mediare” assume una varietà di sensi ed
utilizzi che vanno dallo “stare in mezzo”, in una posizione neutra, all’ “interporsi”,
cioè fare da collegamento e mettere in relazione due termini o due soggetti. La stessa
etimologia giustifica dunque il fatto che per mediazione culturale si intendano sia
interventi di gestione di espliciti conflitti interculturali, dovuti alle difficoltà di
convivenza tra gruppi etnici o all’emergere di “incompatibilità” nei contesti più
diversi, sia interventi che, pur sotto il nome di mediazione, sono compresi in ben più
articolati progetti di accoglienza, di prevenzione e di risposta ai bisogni delle
minoranze etniche.
La mediazione culturale non sembra solo una pratica di gestione dei conflitti, quindi,
ma appare anche più in generale come un’azione sociale composita e ad ampio
raggio. Essa consente di mantenere e rigenerare il sistema di relazioni tra i cittadini,
le generazioni, le istituzioni, realizzando una matura espressione di nuove forme di
cittadinanza e convivenza.
Se è possibile individuare un’idea forte e comune alle varie mediazioni, essa è
in conclusione quella di una società in grado di gestire i propri conflitti, in base al
principio per cui il conflitto è “comunità” e “legame sociale” (Simmel, 1908), da una
parte, e in grado di trattare le differenze sapendosi rinnovare grazie ad esse,
dall’altra: una società integrata ed integrante.
Dall’indicazione di questo duplice scopo può avere inizio l’approfondimento sul
significato e sulle esperienze del mediare.
9
1. L’ALTERNATIVA DELLA MEDIAZIONE
Secondo la prima accezione, l’integrazione è il risultato di un processo di
costruzione e ricostruzione del legame sociale messo a repentaglio da una esplicita
situazione conflittuale.
La mediazione culturale è, in questo caso, riconducibile alle pratiche di mediazione
sociale, che nascono come forme di gestione responsabile e alternativa del conflitto
(ADR, alternative dispute resolution) in contesti sociali significativi come la scuola,
la comunità, il luogo di lavoro.
Nonostante le differenze notevoli relative agli ambiti e alle tipologie di
conflitto trattate, il senso “originario” del mediare, a cui tutte queste esperienze
attingono, si mantiene nel complesso unitario, ed è bene espresso nella definizione di
Castelli:
“La mediazione è un processo attraverso il quale due o più parti si rivolgono
liberamente ad un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli effetti indesiderabili di
un grave conflitto. La mediazione mira a ristabilire il dialogo tra le parti per poter
raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di riorganizzazione
delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale
della mediazione si realizza una volta che le parti si siano creativamente
riappropriate, nell’interesse proprio e di tutti i soggetti coinvolti, della propria attiva
e responsabile capacità decisionale” ( Castelli, 1996, p.3).
In questa definizione è chiara l’idea secondo cui il mediare sia un intervento
finalizzato alla rapida riparazione di rotture (intervento “di emergenza” o “di
situazione”, Pisapia, 1997), ma anche e soprattutto volto alla costruzione di
“compatibilità relazionali” a lungo termine (intervento “di problema”).
Come intervento “di situazione”, la mediazione è quella pratica libera e
costruttiva di gestione del conflitto, che rappresenta un’alternativa al procedimento
giudiziario da una parte, al negoziato dall’altra.
A differenza della pratica giudiziaria, pur prevedendo sempre l’intervento di un terzo
neutrale, la mediazione non persegue una logica vincitore-perdente, la ricerca della
colpa, la soluzione mediante sentenza di un’autorità superiore a cui è delegata la
definizione del problema, il controllo delle azioni delle parti e l’applicazione di
sanzioni in caso di violazione delle norme.
A differenza del negoziato, pur condividendo la logica di soluzione del conflitto
costruttiva e responsabile, la mediazione comporta l’intervento di una terza parte,
che si rende necessaria laddove una negoziazione diretta si riveli impraticabile.
A differenza dell’arbitrato, il mediatore è sì scelto dai contendenti, ma non ha il
potere di imporre la propria decisione nella gestione della disputa.
Mediare implica dunque lo “stare in mezzo” ed il “condividere” il conflitto grazie
alla presenza di un “terzo”, che costruisce insieme alle parti un terreno culturale e
semantico di reciproca comprensione per favorire la ripartenza del dialogo, ma non
interviene sui suoi contenuti, né sui termini della soluzione del litigio.
Come intervento “di problema”, viene posta enfasi sul fatto che la mediazione
non è una consulenza tecnica, legale o psicologica, ma un sostegno al dialogo e alla
10
responsabilizzazione. Non è neppure tanto una soluzione di conflitti, ma una tecnica
per trattarli, per evitare che divengano distruttivi, per creare un sistema di relazioni
diversificato in cui si riconosce l’altro nel suo valore e si viene a patti con lui.
Riconoscimento e cura della relazione: la mediazione accompagna i soggetti in
questi compiti complessi e consente a tutti uguale potere e possibilità di
partecipazione, facendo propri i principi di un intervento di “crescita”. Se la cura è
perseguita nella terapia grazie alle competenze dell’esperto, la crescita è un percorso
in cui il paziente guarisce se stesso con l’aiuto di un operatore. Nel caso della
mediazione dei conflitti, le coordinate della crescita possono essere riassunte come
segue (Besemer, 1993):
ξ Le parti coinvolte sono più in grado di prendere decisioni migliori che
riguardano la propria vita di quanto possa fare un’autorità esterna.
ξ Le persone prendono decisioni che tengono in maggior conto tutti gli aspetti
del problema quando percepiscono in modo consapevole i reciproci
sentimenti, gli interessi, i punti di vista emersi nei conflitti e li integrano nelle
decisioni
ξ Le trattative sono più efficaci e le soluzioni più durature quando le parti in
causa sono costrette a mantenere rapporti dopo la lite rispetto a quando esse
non continuano ad averne.
ξ Coloro che hanno raggiunto un accordo rispettano più le decisioni se essi
stessi hanno contribuito al loro raggiungimento e se accettano il
procedimento che ha portato all’accordo.
ξ Il carattere non terapeutico, neutrale e basato sulla fiducia della mediazione
incoraggia a parteciparvi.
ξ Le capacità di relazionarsi, di riconoscere i reciproci punti di vista e di
negoziare apprese nella mediazione, sono strumenti fondamentali per
risolvere conflitti futuri.
Intervento di crescita, dunque, che si offre come strategia potente di sviluppo
individuale e di trasformazione sociale, che promuove il valore del confronto,
dell’autodeterminazione e soprattutto del conflitto come luogo di ridefinizione delle
relazioni e cambiamento collettivo.
1.1 So-stare nel conflitto
Il conflitto come particolare forma di relazione sociale è stato per le scienze
umane oggetto di studio sempre più consapevole e sistematico.
La sociologia ne ha indagato le forme, le origini e le evoluzioni interessandosi del
suo ruolo entro i sistemi sociali, dalle contese di ampia portata tra le nazioni e le
classi sociali, ai frammenti di conflittualità che invadono gli strati interni della
società, come l’odio razziale, i problemi ambientali, le politiche pubbliche, lo scontro
generazionale, le differenze di genere.
La psicologia sociale si è interessata delle sue dinamiche, delle modalità di sviluppo
e soluzione, degli aspetti comunicativi, prendendo in considerazione il livello
interpersonale e intergruppo. Il conflitto è stato infine parola chiave anche
11
dell’indagine intraindividuale: a partire da esso la psicologia del profondo ha
condotto riflessioni rivoluzionarie sull’individuo, minando le tradizionali concezioni
di integrità e unitarietà della psiche.
E’ evidente da ciò che dare una definizione univoca e proporre un modello
assoluto di studio del conflitto e delle sue caratteristiche sia pressoché impossibile.
Pare tuttavia utile tentare una ricognizione delle voci più autorevoli che di esso si
sono occupate, privilegiando i contributi che aiutino a comprendere il senso della
mediazione come legittimo intervento di gestione delle dispute e di promozione di
cambiamento e integrazione sociale.
Il campo è molto vasto, e la scelta non può che essere arbitraria. Si può iniziare con il
dividere l’area di interesse in due settori (Luison 2000c):
1. Teorie e concetti di tipo macro strutturale, rivolti a spiegare e analizzare la
categoria del conflitto nei diversi livelli (gruppi, classi, società..). Tra queste
vi sono le cosiddette “teorie del conflitto”, direttamente applicabili ai conflitti
del relativo livello di aggregazione sociale, o utili come cornici grazie a cui
interpretare conflitti di livello diverso (es. studio delle determinanti culturali
che fanno da sfondo a conflitti tra individui).
2. Teorie e concetti che si interessano in particolare dell’individuo e
dell’interazione, del comportamento e delle rappresentazioni. Si tratta di
modelli che si prestano a processi di analisi, intervento e soluzione dei
conflitti sul campo, al livello dell’interazione e della comunicazione.
Alle “teorie del conflitto” sono riconducibili modelli sociologici come quelli di
George Simmel (1908) e di Lewis Coser (1956), che enfatizzano la relazione tra
conflitto e integrazione sociale, e quelli di Ralph Dahrendorf (1959) sui gruppi di
potere e sulla mobilitazione del conflitto.
Interessanti e degne di nota sono in particolare l’idea che il conflitto promuova
l’integrazione e non sia in contraddizione con l’ordine sociale: esso contribuisce a
rafforzare la percezione dei confini, l’identità e la struttura interna di un gruppo e
inoltre esiste solo entro un ordine sociale che fissa interessi e strategie comuni tra le
parti (dalle loro reciproche posizioni al valore attribuito socialmente all’oggetto della
disputa). Del conflitto viene colto il carattere complesso e multidimensionale, il
potenziale di scambio e di cambiamento sociale e non solo la componente distruttiva.
Al secondo gruppo appartengono modelli e teorie sociologiche e della
psicologia sociale che riguardano da una parte in generale le interazioni e le modalità
di organizzazione del vivere sociale quotidiano, dall’altra in particolare alcuni aspetti
del conflitto, come la comunicazione tra i contendenti, le reciproche
rappresentazioni, gli stereotipi, le attribuzioni ecc.
Tra i primi si collocano correnti e teorie come l’interazionismo simbolico (per cui
sono gli individui stessi in interazione che definiscono cognitivamente ed
emotivamente la propria situazione v. Mead, 1934), l’etnometodologia di Garfinkel
(studio delle modalità con cui la realtà sociale si costruisce e si riproduce attraverso i
ragionamenti pratici di senso comune degli individui nelle situazioni quotidiane;
1967), la frame analysis di Goffman (con il concetto di cornice, cioè dell’insieme dei
presupposti e assunzioni implicite che danno significato alle situazioni e
comunicazioni; 1974). Essi hanno numerosi risvolti applicativi nello studio del
conflitto, dalla dinamica del suo scatenamento dove ogni parte “definisce” il proprio
12
approccio alla relazione, al conflitto tra cornici dove è necessario pervenire ad una
esplicitazione dei presupposti e alla creazione di un terreno comune per la ripartenza
del dialogo.
Tra i secondi si possono annoverare studi più specifici su alcuni aspetti del conflitto.
Le prime ricerche sull’etnocentrismo, il pregiudizio e la discriminazione tra gruppi
(Sherif et al., 1961), hanno portato allo sviluppo della “teoria del conflitto realistico
tra gruppi” (1965, Campbell), in parte contraddetta dalla successiva “teoria
dell’identità sociale”. Secondo la prima solo un reale conflitto di interessi –scopi
incompatibili e competizione per scarse risorse- genera conflitto tra gruppi, che
produce poi in seconda istanza un atteggiamento reciprocamente ostile, solidarietà e
coesione interna ed enfasi sull’identità di gruppo. La seconda invece, partendo dai
lavori di Tajfel e altri (1970), sostiene che la mera appartenenza ad un gruppo, anche
artificiale, produce discriminazione per l’outgroup e favoritismo verso l’ingroup:
l’essere membri di un gruppo è uno dei fondamenti dell’ identità sociale e
dell’autostima, che sono ancorate al confronto con i membri del proprio gruppo di
appartenenza e dei gruppi esterni.
Altri contributi interessanti provengono dalle teorie sui giochi, con le ricerche sui
comportamenti competitivi vs. cooperativi come mezzo per comprendere le strategie
di gestione e sviluppo del conflitto. Non si può dimenticare a questo proposito il
lavoro di Deutsch (1964) sull’escalation del conflitto, intesa come una spirale
negativa di comportamenti competitivi che esitano in una interazione distruttiva, in
cui le parti non sembrano più in grado di limitare i danni e a cui peraltro non possono
sottrarsi senza inaccettabili perdite.
Di grande rilievo infine sono i contributi di Taylor e altri (anni ’80), che si
concentrano prevalentemente su gruppi in condizioni di squilibrio di potere e sugli
effetti della percezione di ingiustizie e del mancato riconoscimento di pari
opportunità (equity theory).
Tutti questi modelli, di cui sarebbe auspicabile una integrazione più che un
semplice confronto o una giustapposizione, offrono punti di vista utili per
comprendere oggi il conflitto in molti contesti. Appare chiara l’idea che il conflitto
sia un processo multidimensionale, nella cui analisi e soluzione non si possono
trascurare la “dimensione strutturale”, relativa alla posta in gioco, che va dal
controllo sui beni materiali all’incompatibilità di valori, la “dimensione osservabile”,
relativa ai comportamenti degli attori, e quella “soggettiva”, relativa agli
atteggiamenti, percezioni emozioni in gioco (Arielli e Scotto, 1998).
In particolare un quadro di questo genere si presta molto bene come strumento
di lettura di una delle forme più pervasive e complesse di conflitto esistente nel
mondo attuale: il conflitto tra identità di gruppo.
Se il conflitto è incompatibilità dichiarata di obiettivi e di interessi, oggi le sue
manifestazioni più evidenti e distruttive sono quelle che riguardano non più le aree
tradizionali dell’economia e del potere, ma quelle del riconoscimento dell’identità
culturale ed etnica, della sicurezza personale e collettiva, della partecipazione alle
decisioni, della libertà e delle opportunità sociali.
Dove il conflitto nasce nelle sfere della socializzazione, dell’integrazione sociale e
culturale, come lotta per la qualità della vita, per i diritti e il riconoscimento, esso
scatena inoltre tutto il suo potenziale trasformativo, divenendo un mezzo per alzare il
velo su alcune pratiche discriminatorie, ridefinire rapporti iniqui, mettere in
discussione visioni rigide.
13
Si tratta di conflitti che toccano gli individui in modo intimo e personale e che non
possono essere risolti in termini di un “gioco a somma zero”, dove o si vince o si
perde, perché la “posta in gioco” è alla radice dell’identità e della convivenza.
Se è vero che la legalità moderna affida al sistema giuridico il compito ed il
dovere di risolvere le dispute, garantendo l’imparzialità in virtù dell’applicazione
della legge, di fronte a questi conflitti di “seconda generazione” (Ceretti, 2001) il
giudice si trova in difficoltà, non tanto perché il sistema è ingolfato e a volte poco
efficiente, ma per la natura stessa del contendere. Sono infatti questioni che non
possono essere delegate ed altri e sulle quali la logica del win-lose e della sanzione
penale impoverisce la capacità di ciascuno di autodeterminarsi e di dirigere
responsabilmente la propria vita: il rischio è addirittura quello di peggiorare i
rapporti tra le parti esponendole ad altissimi costi economici, sociali, affettivi e
relazionali.
In questi casi la soluzione della disputa e il cambiamento non si ottengono stabilendo
“chi ha ragione”. E’ piuttosto stimolando il confronto che consente agli individui di
decentrarsi e di considerare nella propria definizione del mondo anche punti di vista
differenti, che questi possono essere integrati in tutto o in parte per individuare una
via comune alla gestione del problema.
La mediazione è uno degli strumenti grazie al quale è possibile questo
percorso, andando oltre il risarcimento del danno, per garantire la ridefinizione
positiva dei legami sociali e l’annullamento del sentimento di ingiustizia.
In ogni conflitto un’incompatibilità di obiettivi, di valori, di significati produce una
relazione nella quale ogni parte cerca di imporre all’altra il ruolo di “oggetto”. Se
l’altro è “cosa”, e non persona di uguale dignità, tutte le scelte compiute saranno
impregnate di strategie di possesso, manipolazione, strumentalizzazione, o
addirittura di sopraffazione ed eliminazione.
La mediazione restituisce a tutte le parti il ruolo di soggetto, che ha il diritto di
difendere la propria visione del mondo e che si assume consapevolmente la
responsabilità delle proprie decisioni. Apre canali di dialogo e di reciproco
riconoscimento di dignità nella diversità di prospettive e di appartenenza, mette in
mano alle parti il difficile ma indispensabile compito di “vincere insieme”,
individuando la soluzione al conflitto ed impegnandosi perché essa sia messa in
pratica efficacemente. In una situazione inaccettabile di escalation di violenza e
chiusura, la scelta del mediare ha il carattere del “dono” (Mierolo, 2000), l’atto
gratuito e rischioso con il quale si afferma il tentativo di produrre un cambiamento
positivo nella relazione, perché l’avversario nasconde in sé un bene prezioso: è
l’altro che serve per risolvere il problema, è l’estraneo che aiuta a definirsi, senza il
quale la identità vacilla, i confini personali si dissolvono.
La mediazione è propria di una società che si mantiene giovane perché
salvaguarda il valore del conflitto, inteso non come patologia da negare per quieto
vivere o da utilizzare per eliminare l’avversario, ma come fonte di ricchezza e di
adattività, come occasione per confrontarsi con le differenze in modo responsabile e
aperto.
L’obiettivo è quello di “so-stare” nel conflitto (Novara, 2001) concentrandosi sulla
possibilità di trovare in esso una risorsa per un sistema di relazioni che non possono
prescindere dalla differenza; la sfida è quella di capire le ragioni altrui e di creare le
condizioni perché un rapporto si alimenti anche nella discordanza.
14
Una visione del conflitto quale quella che la mediazione propone consente di trovare
degli strumenti utili anche di fronte a dispute che paiono “catastrofiche” ed
irrisolvibili: concentrandosi infatti non soltanto sulla soluzione ma anche e
soprattutto sulla comunicazione e sul cambiamento, si trova il modo per convivere
con il disordine, riscoprendo ad esempio la funzione terapeutica del tempo e la
possibilità che il dialogo faccia evolvere il conflitto minimizzandone i danni.
Le teorie sul conflitto che la sociologia e la psicologia hanno prodotto non
arrivano, si è detto, a darne una visione unitaria ed esaustiva. Da tutti i contributi
emerge però più o meno forte l’idea che è il significato che gli attori, individuali e
collettivi, danno ad esso ed il modo in cui lo affrontano che determina il carattere
positivo o negativo dell’evento e le sue conseguenze. Un conflitto in sé non è malato,
ma, se irrisolto, è pericoloso, e la sua escalation spesso viene generata dal fatto che le
parti non sanno come risolverlo, più che dalla mancanza di motivazione a farlo.
La mediazione si inserisce in questa impasse, permettendo al conflitto-risorsa di
prendere il posto del conflitto-piaga.
1.2 La tecnica del “buon senso”
La mediazione è una “pratica discorsiva” che permette l’evoluzione di una
situazione di conflitto principalmente attraverso l’apertura di nuovi canali
comunicativi.
A volte l’origine della disputa è proprio un problema di comunicazione; altre
volte la comunicazione è una questione ulteriore; in ogni caso essa è messaggera del
problema, e può fornire i mezzi per raggiungere una soluzione.
Se è vero che il linguaggio è uno strumento fondamentale di co-costruzione della
realtà, delle identità e della relazione, esso è il primo “mediatore” tra gli individui e i
loro differenti punti di vista, ma è anche ciò che per primo viene compromesso, in
una situazione di grave conflittualità.
L’analisi conversazionale mette in evidenza che nella escalation di un conflitto, la
comunicazione tra le parti subisce un forte mutamento: si passa dalla semplice
affermazione della propria posizione (in dissenso dall’altra parte), alla
contraddizione esplicita del contenuto espresso dall’altro o al rigetto di eventuali
rimproveri/accuse, al contrasto metacomunicativo (dissenso sui turni di parola, sulla
competenza…), alla svalutazione e attacco ad personam, fino alla rottura definitiva
del dialogo.
La posta in gioco di un conflitto può essere di varia natura, come si è detto, ma
il dato centrale è che per trovare una via comune alla gestione del problema bisogna
averne una comune rappresentazione, facendo sì che la comunicazione sia di nuovo
praticabile, in un’interazione paritaria ed equilibrata:
“Chi riesce ad imporre la definizione del problema acquista un vantaggio decisivo,
perché porta la controparte a giocare sul proprio terreno” (Arielli, Scotto, 1998,
p.22).
In una società in cui il potere si impone sempre più come controllo della
comunicazione e delle risorse semantiche in luogo di quelle materiali, il mediatore
svolge una funzione cruciale di redistribuzione di tale potere a tutte le parti in gioco.
15
Il dialogo esiste se c’è interesse alla relazione; l’orientamento che esso assume
dipende ed è segno della qualità del rapporto tra le parti: rilanciando la
comunicazione il mediatore sostiene la fiducia nella possibilità e nel valore della
relazione tra i contendenti.
Il mediatore contribuisce con la propria competenza comunicativa alla
creazione di uno spazio relazionale e semantico negoziato e condiviso, nel quale ogni
partecipante al conflitto si possa riconoscere come avvantaggiato e possa uscire dalla
propria definizione della relazione per gestire insieme il problema comune. Così
facendo si istituisce una “via del buon senso” (Castelli, 1996), cioè dei sensi e
significati ritrovati nell’incontro tra sensibilità differenti.
Nel colloquio il mediatore è il terzo che sa essere obiettivo di fronte alle situazioni,
rileva interessi, sentimenti e risorse delle parti (più che posizioni e diritti), mette
insieme il numero più alto possibile di informazioni, coglie i diversi punti di vista,
rendendoli reciprocamente comprensibili, offre strumenti metodologici per uscire
dalla crisi e prendere decisioni.
E’ imparziale, ma non freddo e distante: rispetta la libertà ed i valori di ognuno, non
intervenendo con i propri; considera tuttavia insieme alle parti le conseguenze delle
decisioni e delle soluzioni stabilite, ed ha il dovere di opporsi ad esse nel caso in cui
siano palesemente inique. Questo è il fenomeno che Castelli (1996) definisce
“paradosso della mediazione”: per quanto neutrale, il mediatore non è fuori dal
gioco, la sua presenza modifica il corso della relazione tra i contendenti e fornisce gli
strumenti processuali per un suo cambiamento, nel rispetto delle regole e della
legalità.
Da un punto di vista tecnico, il mediatore ristabilisce il dialogo tra le parti,
fissandone le regole e facendole rispettare, ad esempio attraverso la gestione dei
passaggi da una fase all’altra del colloquio; interviene di volta in volta per limitare i
danni, per far capire a fondo le questioni, per cambiare argomento, per incoraggiare
il processo, per garantire l’ordine del colloquio e il contatto diretto. I suoi strumenti
sono, secondo Morineau, (1998) lo “specchio”, grazie a cui egli restituisce
empaticamente agli interlocutori i loro propri sentimenti e punti di vista; il
“silenzio”, per dare il giusto spazio, libertà e potere decisionale agli altri, chiamati a
riflettere e a non agire d’impulso; l’ “umiltà” di accostarsi al conflitto senza
pregiudizi o imposizioni autoritarie.
Con l’ascolto attivo, le domande aperte, le riformulazioni, il brainstorming, il
mediatore favorisce dunque le parti nel chiarimento e nell’approfondimento del
conflitto e si conquista la loro fiducia, dando credito alle istanze di ciascuno.
1.2.1 Un colloquio di mediazione
Per cogliere in atto le competenze del mediatore nel gestire la comunicazione
tra le parti può essere utile descrivere un modello di colloquio.
In realtà i modelli di mediazione esistenti e praticati sono molteplici, gran parte dei
quali si inserisce nel solco del lavoro di Fisher Ury e Patton (1991). Per questi due
autori, la mediazione è l’arte di “separare le persone dal problema”, il che significa
fare in modo che i contenuti della disputa siano trattati prioritariamente, in modo
neutro ed oggettivo. Al mediatore è dunque richiesto di guidare una discussione
16
centrata sugli interessi delle parti, entro un percorso altamente strutturato.
Un’evoluzione di tale modello è sostenuta da Bush e Folger (1994), che pongono
enfasi sulla trasformazione delle relazioni, più che sul semplice soddisfacimento
degli interessi: il mediatore deve concentrarsi e valorizzare i rapporti, cercando di
alimentare la crescita personale degli attori del processo. Una buona relazione non è
più solo la condizione di una trattativa efficace, ma diventa uno degli obiettivi più
significativi del percorso.
Quest’ottica è in parte anche quella di Cobb (in Luison, 2000c), che sottolinea
l’importanza, nel colloquio di mediazione, di “riscrivere” la storia del conflitto
modificando le aspettative intorno ad esso, i miti e i valori che traspaiono dal modo
in cui i fatti sono raccontati. Il centro dell’attenzione si sposta progressivamente dai
fatti alle percezioni, emozioni e atteggiamenti, che devono poter essere liberati nel
colloquio per giungere ad una soluzione.
Un modello che si focalizza radicalmente su quest’ultimo aspetto è infine quello
“catartico” descritto da Morineau (1998), secondo cui la mediazione sarebbe un
percorso simile allo sviluppo della tragedia greca: da una iniziale esposizione dei
fatti e dei punti di vista (”teoria”), si giungerebbe al confronto critico che riattiva le
emozioni negative (“crisi”), fino all’accoglimento e alla comunicazione della
sofferenza, trasformata in agente purificatore (“catarsi”). Solo nella scoperta della
reciproca sofferenza e nella sua elaborazione tramite la parola, dunque, le parti, come
in un rituale, sarebbero in grado di riscoprire la radice comune e ambigua della
propria esistenza, rinunciando alla vendetta o a richieste di riparazione e progettando
insieme una soluzione più consapevole.
I possibili modelli di intervento sono dunque molto numerosi e diversificati; la loro
applicazione dipende, tra l’altro, dal contesto e dalle caratteristiche specifiche del
conflitto in atto.
Dovendo scegliere un percorso di mediazione da descrivere nei particolari,
l’opzione è caduta su quello proposto di recente da Besemer (1993), che sembra
riassumere bene alcune delle caratteristiche più salienti dei contributi sopra
accennati.
L’autore distingue una fase preliminare dal colloquio di mediazione vero e proprio:
Fase Preliminare
Alcune controversie si possono risolvere a questo livello. Essa comprende diversi
momenti:
Presa di contatto e motivazione.
La situazione ottimale è quando le parti si rivolgono di comune accordo al
mediatore; il caso in realtà più frequente è quello in cui una sola parte o addirittura
un terzo richiedono la mediazione. Può accadere anche, soprattutto in contesti in cui
tale esperienza è poco nota, che siano i servizi di mediazione a proporsi per sostenere
la soluzione di un conflitto.
Per l’autore il problema fondamentale è in questi casi quello di accertare le
motivazioni delle parti ed eventualmente di stimolarle a collaborare nel processo,
illustrando gli innumerevoli vantaggi del procedimento e gli svantaggi minimi di un
suo eventuale fallimento e stando attenti a non apparire “a favore” delle parti più
motivate.