dall’applicazione dell’Irap sia in realtà indipendente dalla ricchezza prodotta, visto che nella base
imponibile figurano anche i costi per le retribuzioni e gli interessi passivi. In definitiva quel che
riesce difficile comprendere è come il semplice esercizio di un’attività organizzata, il mero
combinarsi di fattori della produzione, possa di per sé essere assunto a indice di capacità
contributiva in aggiunta agli indici attuali: il reddito, il patrimonio, il consumo o le altre
manifestazioni di potenzialità economica già alla base dei tributi vigenti.
Le difficoltà di inquadramento riguardano, dunque, la componente dell’imposta relativa a
retribuzioni ed interessi passivi. Come rilevato da R.Lupi
4
“sotto questo profilo si presenta nel
complesso debole la giustificazione dell’imposta attraverso il ‘potere di comando’ dell’imprenditore
sui fattori della produzione o attraverso il consumo di servizi pubblici”.
5
Lupi fornisce però una parziale soluzione alla questione ritenendo meno precaria una giustificazione
che faccia riferimento non al potere di comando dell’imprenditore, quanto alla ricchezza percepita
dai dipendenti e dai terzi: il costo del lavoro e gli interessi passivi sarebbero manifestazioni di
capacità contributiva di dipendenti e terzi finanziatori. Infatti, pur essendo l’imprenditore il soggetto
passivo dell’imposta, egli avrebbe, comunque, la possibilità di rivalsa sugli stessi, “anche se la
rivalsa sui percettori non è sancita dalla legge, ma affidata ai meccanismi di formazione dei prezzi e
ad eventuali clausole contrattuali”.
Peraltro Lupi rileva che la deducibilità di questa quota di Irap è un corollario della sua
giustificazione in termini di capacità contributiva e rappresenterebbe un indubbio rafforzamento
della razionalità generale del nuovo tributo: infatti “se anche l’impresa riuscisse a traslare tutta
l’Irap, l’indeducibilità dell’imposta farebbe comunque acquisire allo Stato, sotto forma di Irpeg, il
37 per cento di quanto l’impresa è riuscita a porre a carico dei dipendenti e dei finanziatori”. Ma in
realtà l’Irap è indeducibile, ed è questa un’altra questione, che sarà in seguito ripresa, sulla quale
sono state avanzate molte critiche.
La risposta del Ministero delle Finanze a queste critiche riguardo all’incompatibilità dell’imposta
con il principio della capacità contributiva è la seguente: “Giuridicamente l’Irap è un’imposta sul
valore della produzione. In termini economici è un’imposta sul valore aggiunto, ovvero sul prodotto
netto. La base imponibile sarebbe assimilabile ai consumi nazionali qualora si esentassero le spese
per investimenti; l’Iva infatti esenta gli investimenti ed è un’imposta sui consumi finali. La base
imponibile dell’Irap è confrontabile con quella dell’Iva a meno della differenza tra spese per
investimenti e spese per ammortamento e a meno di tutte le operazioni esenti o escluse dal campo di
applicazione Iva. Quindi l’Irap risulta, per definizione, un’imposta che tiene in massimo conto il
principio della capacità contributiva”.
6
Il Ministero rimanda poi al testo della Commissione Gallo, di cui sopra, per ulteriori giustificazioni
teoriche.
Va comunque evidenziato che sono state sollevate altre questioni relative ad una presunta
incostituzionalità dell’Irap. L’ordine dei dottori commercialisti ad esempio ritiene sia
incostituzionale l’equiparazione, implicita nella normativa dell’Irap, tra l’esercizio di arti e
professioni e l’esercizio d’impresa: “i redditi di lavoro autonomo hanno la propria fonte nel lavoro e
non nella combinazione di capitali e di lavoro come quelli di impresa”.
7
In effetti l’introduzione
dell’Irap, in sostituzione tra l’altro dell’Ilor, porta al superamento della discriminazione qualitativa
27/11/97.
4
R.Lupi, Incerti presupposti di costituzionalità, da Il Sole 24 ore del 27/11/97.
5
Secondo Lupi infatti queste giustificazioni potrebbero spiegare imposte fisse, o basate su indici extracontabili di
potenzialità economica, come la capacità produttiva degli impianti, la superficie occupata, il settore economico di
appartenenza ed altri indicatori extracontabili dei servizi pubblici che l’impresa impone indirettamente di attivare.
Contrasta invece col senso comune misurare il consumo di servizi pubblici, o l’evanescente “potere di comando” sui
fattori produttivi , con il monte salari o gli interessi passivi. Le imprese ben captalizzate e ad alta tacnologia sono infatti
normalmente più “potenti” di quelle gravate da forza lavoro in eccesso e oberate da debiti.
6
Dal Documento trasmesso dal Ministero delle Finanze alla Commissione parlamentare dei Trenta incaricata di
esaminare il provvedimento prima della definitiva approvazione, da Il Sole 24 ore del 3/12/97 p.23.
7
Da Il Sole 24 ore del 24/10/97, I dottori commercialisti bocciano l’imposta.
dei redditi derivanti dalla fonte “lavoro”, rispetto ai redditi derivanti dalla fonte “capitale”. Un
principio, quello della discriminazione qualitativa, che ha costituito una caratteristica tradizionale
del nostro sistema impositivo e che ha trovato più volte consenso e sostegno anche nelle sentenze
della Corte Costituzionale. Resta da chiarire in proposito se questo orientamento della Corte
Costituzionale sia effettivamente espressione di un principio generale sotteso al nostro ordinamento.
M.A.Galeotti Flori
8
fa peraltro notare che l’incostituzionalità dell’Irap sarebbe relativa non solo al
primo comma dell’art.53 della Costituzione, ma anche al secondo comma, per il quale il sistema
tributario è informato a criteri di progressività: “la disposta indeducibilità dell’Irap comporta che
imprese, la cui gestione sia effettivamente in perdita (dovuta appunto alla componente negativa del
reddito costituita dall’Irap), paghino ugualmente l’Irpef o l’Irpeg come se avessero prodotto un
reddito e che imprese con gestione in utile vengano tassate con prelievo anche pari o superiore
all’utile stesso; da ciò consegue una tassazione irrimediabilmente regressiva che va contro il
principio dell’art.53 c.2…”.
Anche a queste critiche il Ministero delle Finanze sembra fornire una risposta: “Il fatto che l’onere
dell’imposta è sostenuto anche da imprese che non fanno profitti ma perdite è irrilevante, dato il
riferimento al prodotto netto della base imponibile Irap. D’altra parte si deve tener conto che i
contributi sanitari a carico dei datori di lavoro, l’imposta sul patrimonio netto, l’Iciap, le tasse di
concessione comunale, la tassa di concessione governativa sulla partita iva, che sono tutti prelievi
aboliti il cui gettito è compensato con l’introduzione dell’Irap, sono prelievi comunque dovuti anche
se l’impresa è in perdita. La restrizione del concetto di capacità contributiva alla sola
determinazione positiva del reddito d’impresa, è quantomeno rischiosa in quanto potrebbe mettere
fuori causa un numero consistente di prelievi che sono indipendenti dalla formazione degli utili in
bilancio”.
Pur tenendo conto di queste considerazioni, i dubbi riguardo alla compatibilità dell’Irap con il
dettato costituzionale permangono. E’ tuttavia probabile, come sostiene E.De Mita, che la Corte
Costituzionale non si pronunci al riguardo, soprattutto considerando la sua ultima giurisprudenza,
secondo la quale la scelta dei presupposti economici dei tributi rientra nella discrezionalità politica
del governante a meno che non sconfini nell’irragionevolezza. Irragionevolezza che, secondo De
Mita, potrebbe però essere ravvisata nella contrarietà dell’Irap alla logica della produzione e del
mercato, come successivamente sarà evidenziato.
6.1.2 LA QUESTIONE DELL’INDEDUCIBILITA’DELL’IMPOSTA E DELLA SUA
PRESUNTA INIQUITA’.
Il discorso riguardo l’incompatibiltà dell’Irap con l’art.53 si intreccia, come visto, con un’altra
questione: da più parti
9
si sostiene che l’Irap è un’imposta iniqua e ciò deriverebbe soprattutto dal
fatto di essere indeducibile
10
nella determinazione della base imponibile delle imposte sui redditi.
In effetti, come sostenuto da Lupi, la deducibilità della quota di Irap riferita alle retribuzioni ed agli
interessi passivi non è solo il corollario della sua giustificazione in termini di capacità contributiva,
ma è anche una logica conseguenza del rispetto del principio secondo cui il reddito si intende al
netto dei costi necessari a produrlo: nell’Unione europea esistono imposizioni che assumono come
base di riferimento alcuni essenziali elementi dell’imponibile Irap, come la Kommunalsteuer
austriaca (3% delle retribuzioni senza oneri), ma sono tutte deducibili, e quindi rimangono
nell’ambito della nozione universalmente accettata, secondo la quale l’aliquota dell’imposta sul
reddito è quella che colpisce il reddito economico, come definito dalla quarta direttiva sui bilanci. E
quando nella comunità internazionale si parla di imposte sul reddito, non si intende un tributo
calcolato su una base imponibile reddituale, significativamente incrementata degli oneri calcolati
8
M.A.Galeotti Flori, L’Irap inciampa anche sui costi dell’indeducibilità, da Il Sole 24 ore del 23/07/97.
9
Si veda ancora gli articoli già citati di Nuzzo, E.De Mita, Galeotti Flori, Lupi e G.Falsitta in Italia Oggi del 18/04/97.
10
Come già accennato nel cap.4, l’indeducibilità dell’Irap è motivata da ragioni di “semplicità amministrativa e di
chiarezza nei rapporti tra Stato e Regioni”: in particolare si rende necessaria per evitare che manovre sulle aliquote Irap
da parte delle Regioni influiscono sul gettito delle imposte sul reddito erariali.
sui fattori produttivi, ma sul risultato che dal punto di vista economico esprime la redditività
dell’azienda, riferita ai mezzi propri.
Peraltro questo principio trova una sua giustificazione in ragioni di equità e razionalità. E non è
difficile dimostrare come l’Irap, non recependolo, sia iniqua ed irrazionale.
Infatti con l’indeducibilità dell’Irap le imprese italiane non sono più in grado di determinare “il
tasso d’imposta sul reddito”, elemento essenziale di qualsiasi analisi aziendale, che si presenta
regressivo (come già rilevato da Galeotti Flori nell’articolo citato sopra), e cioè in funzione inversa
al livello di redditività espresso dal conto economico: in altri termini più è basso il risultato
d’esercizio, più alta è la percentuale di incidenza dell’Irpeg. L’indeducibilità dell’Irap e dell’Ici
(altra imposta indeducibile) porta, infatti, l’aliquota effettiva dell’Irpeg al 100% del reddito, quando
il risultato del conto economico (dopo aver pagato Ici e Irap) non supera in 55,7% della somma dei
due tributi. Inoltre le imprese italiane dovranno mettere in conto un’imposta sul reddito anche nel
caso in cui il conto economico dovesse presentare risultati in perdita, in quanto la base imponibile
dell’Irpef è maggiorata dell’Irap e dell’Ici.
A questi elementi si aggiunga che l’incidenza dell’Irpeg è progressiva al crescere dell’occupazione,
cioè tanto più elevata sul reddito effettivo quanto più l’azienda occupa dipendenti, mentre scende se
l’azienda sostituisce i dipendenti con macchine o acquisti all’estero. Ciò evidentemente in sintonia
con gli obiettivi di capitalizzazione delle aziende, ma probabilmente in contrasto con l’obiettivo di
riduzione della disoccupazione.
A questi aspetti si collega un altro insieme di critiche e di perplessità che sono state sollevate
riguardanti circa l’iniquità dell’imposta. Ci si riferisce in particolare al presunto carattere
discriminatorio dell’introduzione dell’Irap, che aggraverebbe eccessivamente alcune imprese a
favore di altre. In particolare, come evidenziato da E.Nuzzo, l’Irap introduce un’aliquota unica e
generalizzata (ad eccezione del settore agricolo e di quello bancario), anche a carico di coloro che
non beneficiano dei vantaggi dell’abolizione dell’Ilor e dei contributi sanitari, senza aver
considerato quella differenziazione (appunto di aliquote) da più parti giudicata necessaria e prevista
dalla legge delega. In effetti, con l’introduzione dell’Irap si registra, oltre all’abolizione dell’Ilor,
anche la scomparsa di fatto di tutti i regimi di fiscalizzazione degli oneri sanitari, a eccezione di
quello per il Mezzogiorno e per le aree depresse, a fronte del quale è riconosciuto un abbattimento
dell’Irap. Aver azzerato di colpo tutta l’articolazione del prelievo da contributi sanitari, fa si che a
parità di altre condizioni le imprese si trovino svantaggiate o avvantaggiate dall’introduzione
dell’Irap in relazione alla maggiore o minore aliquota di contribuzione sanitaria precedente. Peraltro
il Ministero delle Finanze
11
giustifica la soluzione adottata sostenendo che per riconoscere la
preesistente fiscalizzazione si sarebbe dovuto creare un regime di aliquote e differenziazioni Irap
molto complesso e che comunque “la progressiva apertura del mercato dei servizi e la caduta del
protezionismo rende sempre meno significativa la diversificazione delle fiscalizzazioni dei
contributi sociali”. Una posizione condivisa anche dal Presidente di Confindustria, Fossa, che
ritiene positivo il fatto che “tutta una serie di categorie che prima avevano dei privilegi oggi hanno
privilegi ridotti”.
12
11
Le risposte del Ministero delle Finanze ad alcuni quesiti posti da Il Sole 24 ore sono contenute ne Il sole 24 ore del
22/10/97.
12
Da Il Sole 24 ore del 28/10/97 p.21.
6.1.3 IRAP E SVILUPPO ECONOMICO
Meritevoli di particolare attenzione sono le critiche rivolte alla discriminazione che l’Irap introduce
nei confronti delle imprese con forte occupazione ed indebitamento Si tratta sempre secondo Nuzzo
di una discriminazione “pregiudiziale” che rischia, non di rado, di “mettere a repentaglio la stessa
sopravvivenza” di queste imprese.
In effetti come rileva G.Tremonti
13
“alla base della coppia Dit-Irap c’è, per cominciare, l’idea di
trattare il profitto industriale come se fosse rendita finanziaria”
14
. Lo scopo di capitalizzazione delle
imprese perseguito dall’Irap (e dalla Dit), che si realizza attraverso l’imposizione sul debito,
presuppone l’idea che le imprese s’indebitino in gran parte per motivi fiscali. In realtà come rilevato
da Tremonti, e come già più sopra da Lupi, occorre distinguere il debito “finto”, la cosiddetta “thin
capitalization”, dal debito vero, “che solo in Italia verrebbe considerato come indice di capacità
contributiva e perciò oggetto possibile di imposizione fiscale”. L’obiettivo di incentivo ri-
capitalizzazione delle imprese potrebbe essere ottenuto, sempre secondo Tremonti, concentrandosi
esclusivamente sulla “thin capitalization”, che può essere trattata fiscalmente applicando parametri
oggettivi con funzione di limite della deduzione fiscale indebita: utilizzando, cioè, come avviene nel
resto d’Europa, i cosiddetti “debt to equity ratios”.
Nell’Irap, invece, questa distinzione non esiste. E ciò può comportare, oltre ai problemi di
costituzionalità già menzionati, un aggravio nei confronti delle imprese indebitate di debito “reale”,
tale da complicarne l’esistenza. Di nuovo ci si può chiedere se erano queste le attese delle imprese
nei confronti della riforma fiscale e se essa sia un effettivo contributo allo sviluppo economico del
nostro paese.
La risposta del governo a quest’ultimo quesito è affermativa. La riforma dell’Irap (come
l’introduzione della Dit), stando alla sua filosofia ispiratrice, mira a favorire le imprese virtuose, a
danno di quelle più indebitate e meno redditizie. Ha in sé, dicono i tecnici più vicini a Visco, una
sorta di “componente darwiniana”, destinata a premiare l’efficienza.
15
E’ dunque evidente che la strada dello sviluppo economico in Italia è percorribile, stando a queste
considerazioni, attraverso la finalità, non esplicitamente dichiarata ma perseguita nei fatti,
dell’eliminazione delle imprese inefficienti. E’ indubbiamente un scelta politica, cui si dà merito al
governo di perseguire con coerenza. Molte sono però le perplessità che, evidentemente, solo il
futuro potrà chiarire:
- lo sviluppo economico è realmente favorito dall’eliminazione delle imprese “inefficienti”
attraverso un carico aggiuntivo di imposizione o sarebbe più opportuno cercare di risollevare, a
tal fine, le sorti di queste imprese attraverso una detassazione?
- è giusto che lo Stato intervenga nel favorire questa eliminazione o sarebbe più opportuno
lasciare che sia il mercato a compiere questa azione?
L’opinione di chi scrive è che sia giusto e razionale il perseguimento degli obiettivi di sviluppo
economico attraverso la premiazione di chi reinveste e di chi capitalizza la propria azienda; al
contrario è iniquo ed irrazionale penalizzare le imprese indebitate realmente, senza cercare di
distinguerle da quelle il cui debito è in gran parte motivato da ragioni fiscali (cosiddetto
indebitamento di comodo).
Le imprese della prima categoria, per le quali il ricorso al debito è una necessità critica e non una
speculazione, non dovrebbero essere ulteriormente “tartassate” da un’imposizione discriminatoria
nei loro confronti.
La tesi dell’irragionevolezza del tributo è peraltro sostenuta anche da E.De Mita che in essa ravvisa
una “contrarietà alla logica della produzione e del mercato”. Ed è su questa irragionevolezza che De
Mita ravvisa un possibile giudizio di incostituzionalità, come visto più sopra. Egli, in particolare, si
13
G.Tremonti, Fisco, il rovescio della riforma, da Il Sole 24 ore del 16/10/97.
14
Si rimanda alla nota 7 per una sintetica descrizione del nuovo sistema di tassazione degli utili delle imprese introdotto
con la Dit (Dual Income Tax)
15
Da Il Sole 24 ore del 24/10/97, Irap, il fisco si perde nel rebus dei “tetti”, p.23.
pone il seguente quesito, fatto proprio anche da chi scrive:
“sarà compatibile questo nuovo meccanismo fiscale con un’economia di mercato che si muove
verso l’Europa nella quale non esistono esempi di tale tributo sofisticato, non potendosi invocare
come precedenti la ‘Gewerbsteuer’ tedesca e la ‘taxe professionelle’ francese, che sono
riconducibili soltanto alla tassazione del patrimonio e del reddito?”.
16
Di nuovo, le risposte a tutti questi quesiti saranno fornite solo in un futuro non prossimo; per ora
restano le perplessità.
6.1.4 SEMPLIFICAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA TRIBUTARIO
Riguardo ai profili di politica fiscale, l’Irap ha riscosso maggiori consensi soprattutto per il fatto di
aver abolito una serie di anacronistici balzelli (Tassa sulla salute, Contributi sanitari, Ilor, Tassa
partita iva, Iciap, Imposta patrimoniale sulle imprese, Imposta di concessione comunale), senza
introdurre nuovi rilevanti adempimenti burocratici a carico dei contribuenti, visto che l’Irap viene
pagata secondo le stesse modalità ed utilizzando la stessa modulistica delle imposte sui redditi.
Anche su questo aspetto sono però state avanzate delle critiche che tendono a metterne in dubbio
l’auspicato carattere semplificatorio: si vedano ad esempio le norme che disciplinano la base
imponibile dell’Irap nel caso delle imprese multi-impianto
17
, operanti in più Regioni, la cui gestione
è peraltro demandata ad uffici allo stato non predisposti e preparati allo scopo.
Più in generale Tremonti
18
nega, con il consueto stile “graffiante”, che la nuova normativa sia
ispirata al canone della semplicità in quanto “già estesa su molti metri quadrati (il metro quadrato
così confermandosi come la nuova unità di misura del diritto, in Italia) e destinata a svilupparsi
ancora oltre misura, attraverso provvedimenti applicativi, correttivi eccetera …. allontanando
ancora di più il sistema italiano di fiscalità industriale dall’obiettivo di certezza del diritto,
essenziale per elementari esigenze di civiltà giuridica quanto di convenienza economica… in questi
termini sembra davvero iperbolico il calcolo (2.500 miliardi) fatto a favore dell’Irap in termini di
minor costo per adempimenti fiscali. Le complessità e le vischiosità fiscali dell’Irap, gli effetti
distorsivi, il costo necessario per la sua ‘compliance’ sono infatti, come è già da ora evidente,
enormi”.
Di diverso avviso R.Lupi
19
che attribuisce all’Irap il merito di aver realizzato quegli obiettivi di
razionalizzazione che affondano le loro radici negli anni (1993/94) in cui si inneggiava alla fiscalità
locale, alla diminuzione del numero delle imposte e alla necessità di ridurre il peso delle imposte sui
redditi.
In realtà, secondo lo stesso Lupi, il grande malcontento sollevato dalla nuova imposta altro non è se
non il frutto del disorientamento derivante dalle novità introdotte; esso è peraltro facilmente
percepibile perché chi guadagna dall’introduzione della nuova imposta “minimizza o fa finta di
nulla”; in definitiva conclude Lupi “il fuoco di sbarramento è un prezzo che chiunque metta mano a
riforme di questo tipo deve mettere in preventivo. Guardando però l’Irap con un occhio al futuro ed
un occhio al passato esso rappresenta senz’altro una razionalizzazione rispetto al farragginoso
sistema che è destinata a sostituire. Il che è in ultima analisi, né più né meno, l’obiettivo che
l’imposta si proponeva di raggiungere”.
Va detto, peraltro, che la semplificazione della tassazione del sistema delle imprese non era l’unico
obiettivo, sia esso stato raggiunto o meno, dell’introduzione dell’Irap; la funzione principale
attribuita all’Irap, che si aggiunge a quella semplificatoria (ed alle altre finalità “economiache”
presedentemente citate), è quella di assegnare alle Regioni un tributo proprio che consenta loro di
svolgere politiche regionali autonome.
Nel prossimo paragrafo ci concentreremo specificamente su questo aspetto, centrale nell’ambito del
16
E.De Mita, articolo citato.
17
In proposito si veda E.Nuzzo, articolo citato; si veda anche al cap.4 del presente lavoro la descrizione della proposta
della Commissione Gallo.
18
G.Tremonti, articolo citato.
19
R.Lupi, Semplifica un mostro legislativo e nessuno propone alternative”, da Il Corriere della Sera del 16/10/97
presente lavoro; in particolare, oltre a riportare le diverse posizioni al riguardo, si analizzerà il
nuovo tributo attingendo ai principi del federalismo fiscale per verificarne il reale impatto nel
sistema di finanziamento delle Regioni.
6.2 Irap e federalismo fiscale
6.2.1 IL PRINCIPIO DEL BENEFICIO
La principale motivazione che ha spinto all’introduzione dell’Irap è stata quella di attribuire alle
Regioni uno strumento di “evoluzione e di trasformazione” del loro ruolo che consentisse la
realizzazione del decentramento fiscale. Tra le varie soluzioni adatte ad raggiungere questo scopo,
la Commissione Gallo ha scelto quella di istituire un imposta regionale sul valore aggiunto
d’impresa. Tale scelta è stata motivata attingendo al criterio della “collaborazione” (partnership
principle), nel quale è insita una visione del Governo locale che attribuisce grande importanza ai
rapporti tra il mondo della produzione e le comunità locali ed i loro organi di governo:
“un’impostazione che si ispira a una visione del settore pubblico come fattore di produzione e
rispecchia, sebbene in modo non minuto e burocratico, il principio del beneficio”.
20
Infatti “la
specializzazione del prelievo locale sulle imprese è voluta per offrire a queste maggior titolo per
richiedere prestazioni pubbliche a maggior supporto della produzione e dei produttori, in una
prospettiva dinamica dell’efficienza economica.”
Al contrario, da più parti
21
si sostiene che il principio del beneficio, principio cardine del
federalismo fiscale, non sia affatto rispettato nella riforma, e che il riferimento al principio di
collaborazione non sia altro che un’astratta giustificazione a posteriori di un tributo che nulla ha di
federale.
La critica è rivolta, nello specifico, al fatto che non esisterebbe una corrispondenza diretta tra il
soggetto che paga l’imposta, le imprese, ed il soggetto che riceve i benefici della spesa regionale
finanziata dal gettito del tributo, i cittadini. Allo stato attuale, infatti, buona parte della spesa
regionale, circa l’80%, è destinata a coprire il fabbisogno sanitario, che come noto è usufruito,
perlomeno direttamente, dai cittadini e non dalle imprese. Questa sconnessione provoca la rottura
del circuito politico-fiscale “pago, vedo, voto” pregiudicando la visibilità del tributo, l’efficacia del
controllo degli elettori e, quindi, la responsabilizzazione degli amministratori ad una gestione
efficace ed efficiente dei servizi pubblici, in questo caso della Sanità. A parere della Confindustria il
finanziamento della sanità non doveva essere posto a carico delle imprese: meglio sarebbe stato, a
giudizio dei suoi esponenti, attribuirlo alla fiscalità generale, magari facendo ricorso ad un
addizionale Irpef più estesa.
A queste critiche il Ministero delle Finanze ha risposto sostenendo che “l’Irap sostituisce sette
imposte e diventa, per ammontare di gettito, la terza imposta del sistema tributario; rappresenta
dunque un perno della fiscalità generale. Questa imposta non è certo vincolata per natura al
finanziamento della sanità; semplicemente oggi, date le competenze delle Regioni, qualunque
imposta regionale non può che concorrere, nell’immediato al finanziamento della spesa sanitaria”
22
.
Accanto a questa risposta, piuttosto elusiva del problema, il Ministero precisa, peraltro, che “la
tutela della salute del lavoratore rappresenta comunque un servizio ‘utile’ anche per le imprese
23
”
con ciò spiegando, attingendo al principio della collaborazione, il rispetto del principio del
beneficio, secondo una modalità, per la verità, piuttosto sfumata ed indiretta.
20
Commissione di studio per il decentramento fiscale, opera citata, p.49. Si veda anche il cap.4 del presente lavoro.
21
Per tutti si ricorda le posizioni, più volte espresse, di Confindustria, si veda per esempio Il Sole 24 ore del 30-10-97 e
di G.Tremonti, si veda Il Sole 24 ore del 16-10-97.
22
Dal Documento trasmesso dal Ministero delle Finanze alla Commissione parlamentare dei Trenta incaricata di
esaminare il provvedimento prima della definitiva approvazione, da Il Sole 24 ore del 3/12/97 p.24.
23
Ci si riferisce ai benefici indiretti che le imprese avrebbero ad esempio in presenza di buone condizioni di salute dei
propri lavoratori o di efficienza nelle cure agli infortunati.
E’ abbastanza evidente, a parere di chi scrive, che il principio del beneficio, stando le attuali
competenze regionali, non sia rispettato nel nuovo sistema di finanziamento regionale, malgrado si
voglia far credere il contrario definendolo in modo “non minuto e burocratico” attraverso il
riferimento al principio di collaborazione. Si ha l’impressione che si sia trovata un’elaborazione
dottrinale molto sofisticata per giustificare un tributo che non rispecchia affatto lo scopo per il quale
è stato introdotto. Certamente un discorso diverso va fatto in previsione di un’estensione delle
competenze regionali in materia di innovazione e tecnologie, di politiche di sviluppo, di ricerca e
formazione, di infrastrutture e servizi solo per citarne alcune, cioè di materie sulle quali le imprese
hanno un diretto interesse ad esercitare un controllo. Ci si può chiedere, tuttavia, se sia opportuno
strutturare tributi sulla base di ipotetiche soluzioni istituzionali, neppure tanto probabili visti anche
gli esiti insoddisfacenti del progetto della Commissione Bicamerale della XIII legislatura.
Per quanto concerne invece il fatto che la legge delega ed il decreto delegato abbiano posto dei
vincoli di utilizzo, per un periodo transitorio, al 90% del gettito Irap a favore della spesa sanitaria, si
ritiene, sempre da parte del Ministero, che ciò sia stato fatto, giustamente, allo scopo di garantire
l’attuale assetto di finanziamento della sanità: “nella determinazione del Fondo Sanitario Nazionale
(ovvero della quota di finanziamento a carico dello Stato) occorre tener conto al posto dei contributi
sanitari del gettito Irap”. Si precisa, tuttavia che “questo assetto è transitorio, in quanto necessita di
una revisione dei meccanismi d trasferimento statale che tenga conto sì del fabbisogno relativo alla
spesa sanitaria, ma anche, se non soprattutto, della perequazione delle capacità fiscali delle Regioni
sul complesso dei tributi e delle compartecipazioni ad esse attribuite (tasse automobilistiche,
compartecipazione all’accisa sulla benzina, Irap, addizionale Irpef, per citare quelle più importanti).
Pertanto a regime occorre senza dubbio modificare l’assetto dei trasferimenti alle Regioni”.
Queste considerazioni sono indubbiamente di buon auspicio per gli obiettivi di razionalizzazione
dell’articolato sistema di perequazione delle Regioni. Un argomento che sarà comunque
approfondito in seguito.
6.2.2 I MARGINI DI AUTONOMIA
La disciplina dell’Irap definisce l’aliquota normale al 4,25% mentre l’aliquota dell’ addizionale
Irpef è fissata allo 0,5%.
A partire dall’anno 2000 le Regioni hanno tuttavia la facoltà di aumentare rispettivamente l’aliquota
Irap fino all’5,25% e l’addizionale Irpef fino all’1%. Il margine di manovra pari all’1% dell’Irap
produrrebbe un gettito Irap aggiuntivo stimabile in 12.000 miliardi mentre una manovra
sull’aliquota Irpef pari allo 0,5% produrrebbe un gettito aggiuntivo di circa 4.600 miliardi di lire.
Pur considerando esclusivamente la disciplina a regime, le Regioni hanno ritenuto insoddisfacenti i
margini di autonomia loro attribuiti. Ad esempio, V.Chiti, presidente della Giunta regionale
toscana,
24
sottolinea, riferendosi alle Irap che “l’autonomia politica e decisionale delle Regioni
resterà comunque limitata all’addizionale dell’1%”.
Un giudizio condiviso anche da altri come per esempio E.Nuzzo
25
, il quale parla di “ un
‘decentramento sotto tutela’, mediante congegni di provvista di risorse definiti e gestiti, nel modo e
nell’entità, da organi del governo centrale”.
Ed è lo stesso Nuzzo che si chiede se non era forse opportuno riconoscere agli enti decentrati il
potere di scegliere, in piena indipendenza, se istituire o meno, e in quale misura, nel proprio
territorio, entrate fiscali di loro pertinenza, dando così pieno significato al concetto di autogoverno,
inteso come specifico potere di identificare e mettere a fuoco gli obiettivi da perseguire e di reperire
in proprio (e non in via automatica e in forza di legge statale) i mezzi per farvi fronte.
Queste considerazioni, che sottolineano il carattere limitato del decentramento realizzato, sono
condivisibili anche per un altro aspetto: le Regioni, data la disciplina della riforma hanno sì, in
24
Si veda M.Massaro, Le Regioni: pochi poteri e gestione troppo onerosa, Il Sole 24 ore del 30-10-97. Essendo Chiti
collocato politicamente nell’area di centro sinistra, cioè nello stesso schieramento politico che ha “prodotto” la riforma,
il suo giudizio critico appare tanto più imparziale ed oggettivo.
25
E.Nuzzo, opera citata.
teoria, la possibilità di ottenere un gettito aggiuntivo Irap abbastanza rilevante, ma nella realtà esse
sono soggette a forti vincoli poiché non è auspicabile e fattibile un’ulteriore aumento della
pressione fiscale sulle imprese. Sembra quasi che il Governo abbia voluto consegnare, con
l’istituzione dell’Irap, il “fardello” della fiscalità delle imprese alle Regioni, per prendere “due
piccioni con una fava”: visto che le Regioni hanno spinto tanto per una maggiore autonomia
impositiva, il Governo ha ritenuto di “accontentarle” assegnando loro uno strumento
particolarmente “spigoloso” e nella realtà scarsamente manovrabile; d’altro canto con questa
manovra si raggiungerebbe anche l’obiettivo di liberarsi dell’ “opposizione” del mondo delle
imprese che vedrebbero il nuovo “nemico” non più nel governo centrale, ma nelle Regioni, se
saranno applicati i margini di autonomia loro consentiti, senza dar loro l’opportunità, come è
probabile, di fornire una contropartita in termini di servizi ai sacrifici imposti alle imprese stesse.
Si tratta di una visione che indubbiamente fa riferimento più a valutazioni “politiche” che non a
valutazioni “tecniche”. D’altro canto è verosimile ritenere che una riforma fiscale di rilevante
portata, come quella recentemente attuata, non sia immune da motivazioni politiche, magari non
espresse nelle relazioni e nei verbali, ma presenti nel pensiero di chi ha ispirato la riforma e di chi,
successivamente, l’ha sostenuta e condivisa.
6.2.3 UNA VISIONE COMPLESSIVA DEL TRIBUTO
Riferendosi ai criteri, di cui al par.1.4 del presente lavoro, che permettono di giudicare se
un’imposta è una “buona” imposta (locale e non), è possibile elaborare un giudizio complessivo
sulla bontà del tributo. Nella tabella 1 è schematicamente evidenziata la risposta del tributo ai
diversi parametri di valutazione, utilizzando tre livelli di giudizio: basso, medio e alto.
Tabella 1 - Valutazione della "bontà" del tributo
Livello di giudizio basso medio alto
Criteri di giudizio
Rispondenza ai principi di visibilità e responsabilizzazione X
Gettito stabile ed elastico X
Non esportabilità X
Grado di equità X
Facilità di amministrazione del tributo X
Consistenza del gettito X
Facilità di individuazione del soggetto attivo del tributo X
Neutralità dell’imposta X
Omogeneità dell’incidenza dell’imposta su un’ampio gruppo di
contribuenti
X
Uniformità del gettito tra le giurisdizioni X
* Ns.elaborazione
Dall’esame della tabella si può immediatamente notare quelli che sono i pregi del tributo, sui quali
il Governo e la Commissione Gallo ha concentrato l’attenzione: l’Irap fornisce alle Regioni un
gettito consistente, stabile ed abbastanza elastico rispetto ai prezzi ed alla crescita economica. In
effetti il gettito Irap è, in teoria, meno soggetto alla variabilità ciclica tipica delle imposte sui
profitti, e ciò per il fatto di avere una base imponibile ampia che incorpora una quota consistente di
elementi “strutturali” come è il costo del lavoro. Allo stesso tempo però il valore aggiunto sembra
essere un aggregato maggiormente correlato al trend dell’economia e dei prezzi, di quanto per
esempio non possa essere l’aggregato “profitti”, soggetto spesso a variabili aziendali, come la
struttura finanziaria, che ne mascherano il significato dal punto di vista della rappresentazione
dell’andamento strutturale dell’azienda.
Va anche rilevato che i pericoli di esportazione volontaria
26
del carico impositivo non sembrano
26
Riguardo all’esportazione “involontaria” il discorso è più complesso in quanto implica una valutazione degli effetti di
traslazione dell’imposta sui prezzi: se l’imposta fosse traslata sui prezzi dei prodotti è evidente che vi sarebbe una
sussistere, visto che le imprese dovrebbero pagare le imposte esclusivamente nel caso in cui
abbiano sede nello specifico territorio regionale, mentre per le imprese multimpianto collocate in
più Regioni il gettito sarebbe attribuito alle stesse in proporzione a valori significativi (la forza
lavoro per le imprese ordinarie, il valore dei depositi per le banche, ecc.) riferibili ad ogni
circoscrizione regionale.
Riguardo, poi, alla facilità di ammistrazione del tributo si rileva, almeno per i contribuenti ordinari,
che l’Irap non comporta rilevanti aggravi poiché la disciplina è sostanzialmente quella delle imposte
sui redditi. Certamente più complessa è l’amministrazione del tributo per le imprese multi-impianto
e molto caotica rischia di diventare, come rilevato dagli amministratori regionali, l’amministrazione
delle addizionali provinciali e comunali: “Si rischia di dover fare una modulistica con 8mila caselle.
Basti pensare al caso di una banca o di una grossa azienda con sportelli o filiali diffusi ma non in
tutti i Comuni.”
27
Il sistema delle addizionali a Comuni e Provincie, che si ricorda è previsto dalla Legge delega
662/96, ha anche ripercussioni negative sulla facilità di individuazione del soggetto attivo del
tributo, ciò a scapito dell’attivazione degli auspicati meccanismi di controllo democratico.
Per questi motivi il Parlamento sembra aver accantonato l’idea di istituire addizionali Irap a favore
dei Comuni, mentre sembra più probabile l’introduzione, a decorrere dall’anno 2000 di
un’addizionale Irpef comunale pari allo 0,5%.
In realtà la carenza dal lato dei principi di visibilità e di responsabilizzazione per la scarsa attinenza
al principio del beneficio, di cui s’è detto sopra, appare essere il principale punto dolente
dell’introduzione dell’Irap, ma non il solo. Già si è accennato nel precedente paragrafo alla presunta
iniquità del tributo (perlomeno, il tributo è percepito come tale) ed al suo carattere discriminatorio
nei confronti di particolari tipologie di imprese e lavoratori autonomi.
D’altro canto non si è ancora considerato un aspetto cruciale per la tematica del federalismo fiscale:
il grado di uniformità del gettito tra le varie Regioni. E su questo punto è evidente, come sarà
quantificato nel successivo capitolo, che la distribuzione regionale dell’imponibile Irap è molto
disomogenea: in quattro Regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia R.) si produce il 53% del
valore aggiunto nazionale. La Lombardia da sola contribuisce con un circa 1/4.
Questi dati non sorprendono, essendo note le forti disparità territoriali in termini di sviluppo
economico tra le varie aree del paese, in particolare tra nord e sud, ed essendo noti i caratteri tipici
delle imposte sulla produzione, all’interno delle quali l’Irap deve essere collocata. Ed è altrettanto
ovvio che tanto più sperequato è il gettito delle entrate proprie, tanto maggiore è la necessità di
ricorso a trasferimenti perequativi, con i connessi effetti negativi. Queste valutazioni sono espresse
nelle seguenti parole da G.Vitaletti
28
: “le imposte sulla produzione, prendendo a base la creazione di
ricchezza, si distribuiscono sul territorio ponendo in diretta correlazione ricchezza privata e gettito
ottenibile per finanziare i servizi pubblici, senza che risultino correzioni ‘naturali’ (come invece
avviene per la base consumi). Di conseguenza, se si vuole migliorare la distribuzione territoriale dei
servizi pubblici, occorre innescare un meccanismo di massicci trasferimenti verso le comunità più
povere che è umiliante per chi li riceve, e può anche favorirne una mentalità di dipendenza
strutturale dagli aiuti; inoltre, soprattutto per quest’ultima conseguenza, può risultare assai irritante
anche per chi li esborsa. In ogni caso sono garantite zuffe perenni”.
Lo stesso G.Vitaletti rileva anche che gli effetti positivi derivanti dall’introduzione di un’imposta
sul valore aggiunto del tipo Irap, di cui si è trattato sopra, sono tali solo se l’imposta è attribuita allo
Stato, mentre vengono meno se il gettito viene attribuito alle attuali Regioni. E su tale posizione
converge, come visto nel cap.4, anche Giarda.
Una soluzione alternativa poteva essere, a detta di Vitaletti, l’istituzione di un’imposta regionale sui
esportabilità delle imposta quanto più ampio, territorialmente, è il mercato della impresa, come può accadere nel caso di
un’impresa che commercia a livello nazionale o addirittura internazionale.
27
V.Chiti, da Il Sole 24 ore del 30-10-97.
28
G.Vitaletti, Il federalismo fiscale può essere il motore e non l’accessorio del cambiamento del fisco, dattiloscritto,
1996.
consumi, il cui gettito risulta “per natura” molto più perequato rispetto all’imposizione sui redditi e
sulla produzione, come evidenziato dai dati disponibili al riguardo
29
; peraltro “che le cose stiano
così è del resto del tutto intuitivo, in quanto i consumi riflettono una ricchezza già ‘lavorata’
dall’azione di redistribuzione dello Stato, dalla presenza di flussi turistici, dall'aggiunta dei flussi di
domanda derivanti dalla produzione in nero (la quale non ha manifestazione fiscale se non nei
consumi).”
La Commissione Gallo aveva, tuttavia, scartato tale soluzione perché i vincoli derivanti
dall’appartenenza all’Unione Europea non ammette la duplicazione di imposte sui consumi come
sarebbe la monofase rispetto all’Iva.
D’altro canto una terza soluzione, sostenuta dalla Confindustria, era quella di una rilevante
addizionale Irpef: tale ipotesi è invece stata scartata perché “renderebbe ancora più sperequata e
progressiva una tassazione, quella sui redditi che già ora è insopportabile e colpisce
prevalentemente i redditi di lavoro, in particolare dipendente”.
30
La scelta è ricaduta sull’Irap, che tuttavia sembra essere solo l’inizio di una complessiva riforma
delle fiscalità regionale. In prospettiva, come sarà evidenziato nel capitolo succesivo, è previsto un
nuovo sistema di perequazione incentrato sulla “capacità fiscale” delle Regioni, nonché, stando alle
dichiarazioni del Ministro Visco ed al progetto elaborato dalla Commissione Bicamerale,
l’introduzione di una rilevante forma di compartecipazione all’Iva che dovrebbe garantire
l’autosufficienza finanziaria alle Regioni più ricche.
29
Si rimanda in proposito a P.Schiavo, Pproposte e ostacoli per una riforma dei contributi sanitari, sulla rivista
Progetto, n.7 1996; e a M.Marè, G. Vitaletti, L’imposizione indiretta: evoluzione e riordino strutturale, nel Volume La
Finanza pubblica italiana. Rapporto 95, a cura di L.Bernardi, Bologna 1995.
30
F.Gallo, Il fisco riparte dall’Irap, in Il Sole 24 ore del 3-5-97.