4trasversalmente sia nell’individuo, sia nell’organizzazione come motore principale
del cambiamento culturale. Importante è sembrato il riferimento alle teorie dei
sistemi, al paradigma emergentista e agli studi del filone dell’Intelligenza Artificiale. I
due tipi di apprendimento sono stati esaminati singolarmente prima, e nella loro
integrazione poi, attraverso il paradigma dell’organizzazione che apprende,
dell’apprendimento relazionale e del cosiddetto knowledge management, senza
dimenticare il ruolo e l’importanza che alcune tecnologie ITC assumono nei confronti
della gestione, della diffusione e dell’aggiornamento della conoscenza, come i
sistemi di archiviazione e di reperimento di “pillole conoscitive”.
Il capitolo successivo, il terzo, si occupa da vicino del tema principale di questo
scritto, dopo aver introdotto alcune delle tematiche che riguardano da vicino la
formazione, si affronta ora la formazione manageriale nelle sue parti costitutive,
cominciando dalle sue origini storiche, da Federico il grande fino a Mintzberg, con
un riferimento anche alla formazione professionale in Italia. Il dibattito in corso sui
problemi sorti riguardo alle metodologie e ai contenuti viene esaminato presentando
i problemi attuali e operando una ricognizione in chiave storica sia delle
problematiche sia dei contributi teorici forniti sulla questione, richiamando in causa
Mintzberg che propone il tema degli MBA e della profonda differenza che corre tra
“formazione” ed “educazione”, e del problema della gestione dei contenuti più “B”
che “A”. Per entrare nello specifico vedremo cosa si intende per “formazione
manageriale”, tenendo conto di ciò che è stato detto nel capitolo primo, vedremo la
differenza tra contenuto tecnico e metodologico, confrontandola con la realtà attuale
dei programmi manageriali. Vedremo quindi che ruolo dovrà avere il manager, sia
per ciò che riguarda le proprie competenze professionali, sia per ciò che riguarda il
proprio sapere e la propria formazione culturale. Infine approfondiremo il tema con
uno sguardo alla situazione italiana occupandoci di formazione nella Pubblica
Amministrazione. Il capitolo quarto affronta il ruolo e le applicazioni dell’e-learning
nella formazione manageriale, in modo particolare si occupa della simulazione in e-
learning, come possibile applicazione alla formazione manageriale, daremo quindi
una risposta alle domande che hanno fornito lo spunto per cominciare questo lavoro.
5Capitolo I
Le competenze manageriali
1. Le competenze manageriali: le linee guida
Ogni giorno ciascuno di noi s’imbatte in entità che sono connesse tra loro attraverso
regole, vincoli, e bisogni; sin dalla nascita la vita è segnata dall’incontro con
ospedali, scuole, pubblica amministrazione. Mandati sociali diversi e risposte a
bisogni diversi ma identiche sotto un profilo: la struttura, il fatto cioè di essere
organizzazioni. Pensando ad un’organizzazione come ad un sistema, si possono
ricordare le caratteristiche generali che lo definiscono: un confine che differenzi
l’interno dall’esterno, delle regole che stabiliscano i rapporti tra gli elementi interni,
un ambiente nel quale vive e al quale cerca di adattarsi. Un’organizzazione infine è
composta di sottositemi che svolgono funzioni adattive e che sono tra loro
interdipendenti, al management, distinto dagli altri sottosistemi, è assegnata in
particolare la funzione di coordinare le parti, affinchè il sistema non si blocchi
internamente e sia in grado di interagire con l’ambiente scambiando input e output.
Il manager è la figura che all'interno di un’organizzazione, deve saper gestire gli
scambi interni e saperli correlare con l’ambiente di riferimento, deve avere
sostanziali capacità di guida e di comando alla specificità della gestione delle
risorse umane, capacità gestionale in senso economico, orientamento all’ obiettivo e
6una certa propensione al rischio. La figura del manager svolge un ruolo cruciale in
ogni organizzazione e la definizione dei comportamenti che adotta e delle
competenze necessarie assume una funzione preliminare ed essenziale in ogni
discorso che lo riguardi(Daft 2001).
1.1 La natura del lavoro manageriale
Chi si interessò per primo del problema delle competenze manageriali fu Henry
Mintzberg(1973) che,cominciando da un’indagine sulle pratiche ritenute più efficaci
tramite intervista ,ad un vasto campione di manager , indicava competenze dalle
quali non si sarebbe potuti mai prescindere nel lavoro manageriale. Il manager così
descritto, nel gergo sociologico si direbbe il tipo ideale, il modello cioè di come
questa figura dovrebbe comportarsi e di che bagaglio esperienziale e conoscitivo
dovrebbe possedere per svolgere al meglio i compiti richiesti dal proprio ruolo deve
quindi mettere in atto una serie di comportamenti. Un articolo del 1989 J.
C.Spender
1
ci spiega in sintesi quale sia stato il percorso che Mintzberg compì per
arrivare a scrivere The nature of managerial work nel 1973, dal punto di vista
personale a quello metodologico e delle conclusioni sulla natura del lavoro
manageriale.
All'inizio del suo primo libro, The Nature of Managerial Work (1973), Mintzberg
racconta come da bambino egli si chiedesse che cosa suo padre, a quel tempo
presidente di una piccola impresa industriale, facesse nel proprio ufficio. Infine,
studente aspirante al dottorato di ricerca, analizzò da vicino il lavoro di ben cinque
direttori generali. Adottò metodi di indagine intensivi e ben programmati, che
culminarono in una settimana di concreta osservazione del loro lavoro. Le sue
ricerche dimostrano che in realtà il lavoro manageriale si differenzia notevolmente
dalle attività decisionali stereotipate prospettate nel modello della programmazione
1
J.C.Spender in Meeting Mintzberg 1989
7razionale. A giudizio di Mintzberg il lavoro dei manager si caratterizza, non per
un'analisi globale e metodica di dati, ma piuttosto per sinteticità, varietà,
frammentarietà e superficialità e si presenta in modo assai diverso da quello del
personale operativo, dei progettisti e dei venditori. Il cui lavoro di questi ultimi anni
presenta spesso caratteri di ripetitività e comporta lunghi periodi di concentrazione e
una certa misura di razionalità. In realtà i manager trascorrono solo una piccola
parte del loro tempo esaminando dati oppure svolgendo altri tipi di lavoro a tavolino.
La maggior parte del loro tempo si consuma nell'interazione verbale, in incontri
programmati o occasionali, al telefono. Invece di concentrarsi su una specifica
questione, essi lavorano a ritmo frenetico, tra innumerevoli interruzioni, e raramente
si soffermano su un singolo argomento per più di 15 minuti. .
Nell'ambito del modello razionale di programmazione il manager viene equiparato ad
uno strumento tecnico che elabora decisioni, input, output e processi decisionali. A
giudizio di Mintzberg questo modello, pur non essendo privo di valore, è inficiato dal
fatto che i processi aziendali presentano caratteristiche totalmente diverse.
Dall'attività decisionale del manager egli si volge poi ad analizzare i molteplici ruoli
che il manager è chiamato a svolgere nell'ambito di un’impresa efficiente. Infine
conclude che i ruoli attribuiti ai direttori generali sono inquadrabili in tre diverse
categorie: ruoli interpersonali, di informazione e decisionali. Operando ulteriori
distinzioni nell'ambito di ciascuna di queste categorie, giunge ad individuare dieci
diversi ruoli dell'alto dirigente. I tre ruoli basati sull'informazione sono quelli di
osservatore, disseminatore di informazioni e portavoce. I quattro ruoli decisionali
sono quelli di imprenditore, di responsabile della soluzione dei problemi, di
allocatore delle risorse e negoziatore. Pur ammettendo che il manager debba
sapersi destreggiare in tutti e dodici questi ruoli, Mintzberg suggerisce una divisione
dei compiti manageriali in otto tipi, ciascuno contraddistinto dalla predominanza di
un preciso atteggiamento del soggetto chiamato ad assolverlo.
La conclusione più radicale che Mintzberg trae in questo suo lavoro è quella
dell'incapacità del modello razionale di contemperare l'intera gamma dei ruoli di un
dirigente aziendale, da cui consegue l'impossibilità di ipotizzare un'accettabile teoria
8globale. Di qui la sua conclusione che "allo stato attuale non esiste ancora una
scienza del lavoro manageriale" (1973, 132). Proseguendo, aggiunge che "gli
studiosi di management, nonostante le loro competenze in fatto di produzione ed
elaborazione dati, non hanno fatto virtualmente nulla per aiutare il manager a gestire
la sua impresa. Il motivo è semplice e consiste nell'impossibilità di applicare
efficacemente procedure analitiche a processi lavorativi di cui non si ha una
comprensione totale. Di fatto il nostro grado di comprensione del lavoro manageriale
è stato, fin qui, modesto, ed è questo che ha spinto gli studiosi di amministrazione
aziendale ad indirizzare i loro sforzi verso altri settori aziendali i cui processi fossero
quantificabili e suscettibili di modificazione" (1973, 133). Citando Mintzberg, "Oggi la
gestione di un'azienda è ancora un'arte, non una professione fondata su discipline
scientifiche. E questo vale malgrado i manager sembrino tutti svolgere i medesimi
ruoli di base. Nell'assolvimento dei loro compiti i manager si servono d’informazioni
non documentate e difficili da trasmettere e di processi intuitivi di altrettanto difficile
comprensione" (1973, 160).
I motivi di fondo della teoria di Mintzberg sono tutti rinvenibili in questo suo lavoro
empirico, metodo logicamente fondato sull'osservazione antropologica dei manager
al lavoro. Sebbene, come tiene a dirci nel suo libro, Mintzberg consideri questo suo
lavoro nient'altro che una tappa nell'ambito di un lungo programma di ricerca
empirica sul lavoro manageriale portato avanti da Carlson, Stewart, Sayles, Guest
ed altri, è chiaro che Mintzberg ha esercitato un fortissimo influsso sulla teoria
organizzativa, che in parte è riconducibile a lui. Tuttavia si individua anche una
differenza di ordine qualitativo. Rispetto ai contributi dei suoi predecessori, il suo
lavoro suggerisce una maggiore consapevolezza dei punti di contatto tra le sue
conclusioni empiriche e gli annosi dibattiti tra i teorici di amministrazione aziendale.
Di rado ne parla in maniera diretta, ma nel best-seller di cui è coautore con Quinn e
James (qui di seguito QMJ) dà chiaramente voce alla loro convinzione di dover, in
futuro, rimaneggiare i loro programmi di lavoro (Quinn, Mintzberg & James, 1988). In
tempi più recenti la sua difesa contro coloro che gli imputano atteggiamenti di
idiosincrasia e addirittura ascientifici è forse rappresentata dalla sua personale
convinzione di lavorare ad un livello più profondo che non la maggioranza dei suoi
9contemporanei. Mintzberg intende studiare le imprese e i loro dirigenti così come
realmente sono, inseriti in concrete condizioni di ordine sociale ed umano, piuttosto
che le astrazioni statistiche che caratterizzano tanta parte della teoria manageriale.
“Per parte mia direi che, oltre ad essere di livello più profondo di quello di molti altri,
gli studi di Mintzberg si proiettano contro uno sfondo più ampio. Già nel suo primo
libro, oltre a tentare di formulare tesi teoriche, Mintzberg non esitò a sostenere che i
risultati delle sue ricerche erano ricchi di implicazioni per i dirigenti aziendali, per la
loro capacità di autogestirsi, e per i docenti di discipline manageriali (1973,166). In
breve, fin dagli inizi, e non già verso la fine della sua carriera accademica, egli si
rese conto che uno studio di teoria manageriale destinato ad acquisire validità
generale e ad aspirare a qualcosa di più del semplice inserimento nel catalogo di un
editore specializzato doveva presentarsi multiforme e di ampio respiro. Si rese
anche conto che, per poter incidere concretamente sulla prassi manageriale, una
teoria doveva essere enunciata in modo esaustivo ed illuminare la natura stessa di
questo tipo di lavoro. La sua è allo stesso tempo una teoria del processo
manageriale, una teoria della progettazione organizzativa, una teoria della società
economica e una teoria della didattica manageriale.
L'insistenza di Mintzberg su aspetti qualitativi rappresenta chiaramente una reazione
ai suoi ricordi di gioventù, ai suoi ricordi poco gratificanti dei primi anni della sua
formazione professionale, dominata da studi di tipo quantitativo. Dopo il
conseguimento della laurea al MIT, Mintzberg ebbe una prima esperienza di lavoro
come specialista in ricerca operativa presso l'azienda ferroviaria canadese. Tuttavia
il suo ricorso ad una teoria fisiologica, che ipotizza la specializzazione dei due
emisferi cerebrali, dimostra il suo concomitante interesse per le scienze moderne.
Studi di laboratorio e neurochirurgici suggeriscono oggi che nell'ambito del cervello
sano l'emisfero sinistro presiede principalmente alle attività logiche, mentre quello
destro è sede delle facoltà intuitive. Purtuttavia il reale obiettivo di Mintzberg, ovvero
quello di recuperare la dicotomia kantiana dei due tipi di pensiero, analitico e
sintetico, è un intento largamente conservatore. Mintzberg si serve di questa
10
dicotomia come di una piattaforma di lancio per il suo attacco all'accettazione
acritica del processo decisionale razionale. Tra l'altro osserva come in occasione di
ricerche empiriche svolte successivamente , basate su interviste ai manager sulle
loro attività decisionali, soltanto in 18 delle 83 risposte alternative i manager
menzionarono attività di tipo analitico. Di norma i manager appuravano fatti,
impressioni e altri dati ed infine "intuivano" la conclusione. Il dato più significativo,
per Mintzberg, è che né i manager né la letteratura sul processo decisionale
razionale riescono a spiegare il funzionamento del processo intuitivo manageriale.
Per i manager questo non costituisce un limite, poiché l'intuizione è una facoltà di
cui hanno esperienza personale. Ma i teorici delle decisioni manageriali, contro cui
Mintzberg indirizza principalmente i propri strali, ribattono negando addirittura
l'esistenza dell'intuizione. La dicotomia kantiana tra le categorie di pensiero
consente a Mintzberg di ripropose i suoi dati sul lavoro dirigenziale in una nuova
luce, solo vagamente anticipata nel suo primo libro (1973, 114). Non soltanto le
attività dirigenziali differiscono tra loro funzionalmente, ovvero nel senso, già indicato
dai teorici classici, che la funzione di vendita differisce sostanzialmente da quella
produttiva: ora Mintzberg è in condizione di sostenere che queste attività differiscono
anche per i processi decisionali che le sottendono”.
2
Da questo lavoro d’indagine sono individuate le competenze fondamentali richieste
per questo tipo di lavoro, brevemente le indichiamo di seguito come azioni
specifiche e distintive del comportamento manageriale.
Il manager deve essere in grado di definire il problema cogliendo la cornice di
vincoli entro la quale questo si pone e le opportunità che questi potenzialmente
offrono per poter raggiungere lo scopo ottimizzando le risorse e chiarendo gli
obiettivi ai collaboratori coinvolti.
Il manager deve incoraggiare la partecipazione in chi è coinvolto: rendere chiaro a
tutti quali siano i risultati che si intende ottenere, i mezzi e i tempi per agire.
2
tradotto da “European Management Journal”
11
E’ necessario che regoli il flusso di lavoro in modo da renderlo il più possibile
scorrevole e ordinato e indirizzato alla meta prefissata; la comunicazione deve
essere lasciata scorrere liberamente e deve essere promosso l’uso del “consiglio”.
Uno scambio di informazioni che possano essere spendibili proficuamente, messe a
disposizione di tutti, può accelerare e semplificare lo svolgimento del compito;il
manager deve possedere una sorta di “sensibilità informativa”, dovrà cioè sapere
come quando e dove muoversi per procurarsi le informazioni giuste e a chi darle .
Deve avere il possesso di competenze tecniche e amministrative, e la conoscenza
di metodologie e tecnologie all’interno dell’organizzazione, avere acquisito
competenze gestionali, oppure sappia affrontare il problema con “spirito
d’avventura”, oppure sappia infine sfruttare il tangibile e l’intangibile che può essere
correlato e d’aiuto alla ricerca della soluzione.
Porsi come facilitatore, autorevole ma non autoritario, mettendo i collaboratori in
grado di lavorare tra loro attraverso un’azione “supportiva”, caratterizzata dai
comportamenti relazionali di cui C.R. Rogers(1981) ha fornito una sintesi
(es:capacità di provare atteggiamenti positivi verso altri, mantenere la propria
individualità, vedere l’latro come qualcuno che si muove in un processo di
sviluppo,ecc); è un “ceteris paribus” che fa si che si sviluppi fiducia e collaborazione
secondo una logica di tipo win-win.
Come in una squadra deve far leva sulle relazioni, vero motore del team, restituendo
nel tempo impressioni e commenti, facendosi valere per le proprie competenze e
non per il potere di comando che gli appartiene per ruolo e riconoscendo le persone
che hanno dato un contributo al lavoro; la responsabilizzazione e la delega oltre a
far nascere una motivazione verso il corretto svolgimento del proprio lavoro,
lasciano aperta la via alla ricerca della cooperazione, dell’apprendimento di gruppo,
e del coinvolgimento.
Migliore sarà il livello di cooperazione, maggiore sarà il coinvolgimento e minore il
livello del conflitto e dunque il manager deve porsi come da mediatore a più livelli,
(Giuli 2001) tra gli obiettivi da raggiungere e i mezzi a disposizione da un lato e tra
12
collaboratori stessi e proprio ruolo dall’altro. Queste sono le abilità di base, le
competenze fondamentali che un dirigente deve possedere affinché un’azione
organizzativa diventi anche azione manageriale, il manager deve trasformare il
comportamento proprio nel comportamento della propria squadra.
Questo tipo di lavoro non deve risultare automatico o routinario ma l’insieme delle
competenze deve essere una risorsa mobile e flessibile e non viceversa una gabbia,
deve essere creativo e il saper agire, spesso in presenza di informazioni incomplete,
va inquadrato in una logica che integri e sintetizzi assieme i vari aspetti del
comportamento manageriale; è necessario quindi che le varie conoscenze e
competenze convergano tra loro guidate da alcuni valori (Lipparini 1998).
1.2 Caratteristiche peculiari nell’azione manageriale
Il lavoro manageriale si sostanzia in un insieme di decisioni e sguardi verso orizzonti
poco definiti e dai confini labili[schema riassuntivo a fine capitolo], ciò implica una
buona capacità decisionale, di valutazione di singoli contesti e naturalmente l’azione
risulta fondante per la professionalità richiesta ad un dirigente. Questa sola non è
però sufficiente a fornire tutte le risposte necessarie a raggiungere il traguardo
stabilito. L’azione imprenditoriale deve necessariamente accompagnarsi ad un
“pensiero manageriale”, pensiero che deve includere categorie come la creatività,
l’immaginazione, il gioco. Bisogna percorrere i sentieri di una riflessione che
attraversa quelle categorie che l’agire, il fare e il produrre escludono o sulle quali
passano senza prendersi molta cura. La logica del consumismo, è riuscita ad
insinuarsi nelle strutture profonde della cultura e del pensiero, fino ad istituire una
sorta di meccanismo di alienazione di tutto ciò che contrasta o che pone in secondo
piano qualunque tipo di “produzione”. Resta quindi oscurato ciò che aiuta al fare e al
realizzare e scompare, minimizzato o svalutato, ciò che riflette e interpreta, perché
incompatibile con un uso del tempo che non lascia spazio all’analisi di quel
processo che infine porta al prodotto, al fatto nella sua concretezza(Mottana 2000).
13
La dialettica delle categorie processo-prodotto, declinazione della classica binomia
qualità-quantità, può essere superata considerando una loro certa dipendenza
reciproca. Il prodotto è sempre il risultato di un processo e se si ambisce ad un
risultato qualitativamente apprezzabile, come nella società attuale, fatta soprattutto
di servizi, il processo non potrà essere da meno. Per giungere ad un prodotto, ad un
fatto concreto è necessario esaminare il processo dal quale questo prende luce,
processo che necessariamente richiama categorie di pensiero che considerano il
tempo risorsa e non vincolo(Salomone 2000; Linchtner 2001). Questo fermarsi,
questo fermare il tempo, riflettere e fare un’esegesi dei significati delle azioni singole
significa “agire”, agire per porre le fondamenta di un’azione che comprenda in sé
tutte le parti di cui è fatta. Avere uno sguardo di questo tipo significa possedere il
vantaggio di osservare la realtà nel suo insieme, di non dare nulla mai per scontato.
Il qualitativo afferma così la propria importanza e necessità in un lavoro che si
confronta con la mutevolezza e una complessità sempre maggiori, lavoro che
dunque ha bisogno di essere caratterizzato da alcune peculiarità. Amietta (1993)
scrive “c’è una classica articolazione nella relazione professionale[...] che
caratterizza anche le qualità di base del manager”, la relazione professionale deve
essere finalizzata, pragmatica, trasparente e supportiva, e a queste qualificazioni ne
aggiunge altre tre :trasversale, autonoma e responsabile. Spieghiamo brevemente
cosa intenda Amietta.
La finalizzazione di un’azione significa non altro che questa sia centrata su “obiettivi
gestionali prioritari “, legati cioè agli scopi dell’organizzazione in relazione alle
risorse concordate e il fatto che debba esserci un “prioritario” indica il tempo come
una delle risorse più importanti da gestire,una priorità esse stessa.
L’essere pragmatico indica che l’azione debba essere centrata su fenomeni
osservabili e controllabili e non basata su pregiudizi, stereotipi o senso comune, e
tutto questo ha implicazione per i collaboratori, soprattutto per ciò che riguarda la
valutazione degli errori, che devono essere interpretati come metodo di
apprendimento ammissibile e positivo, e non come comportamento poco auspicabile
e sanzionabile. Il pragmatismo manageriale si intende allora nel senso di
14
“efficace”,che mira all’obiettivo e indica la relazione come modo per favorire il
contenuto.
Trasparenza è la negazione di ogni intervento di mistificazione e confusione su certi
eventi, agita in maniera consapevole, per spingere ad un comportamento desiderato
o evitare che un’informazione circoli nella versione originale e scomoda, essa però
non significa dire tutto a tutti e in qualunque momento, l’informazione deve essere
infatti calcolata nel suo come , quando e a chi, secondo un prima e un poi.
Supportività, intesa come patterns di comportamenti relazionali di questa riportiamo
l’elenco di Rogers:
consapevolezza dei miei sentimenti /atteggiamenti;
capacità di esprimere /comunicare”chi” sono io;
capacità di provare atteggiamenti positivi verso altri;
capacità di mantenere la propria individualità;
capacità di permettere agli altri una loro esistenza separata;
comprensione dell’ altro al punto da deporre ogni atteggiamento di
giudizio/valutazione;
capacità di accettare l’altro com’ è ,in tutti i suoi aspetti;
capacità di agire senza apparire minacciante;
capacità di affrancare l’altro dalla paura della valutazione esterna;
capacità di vedere l’altro come qualcuno che vive un processo di sviluppo;
Trasversalmente alla finalizzazione e alla pragmaticità dell’azione manageriale, si
integra la “coerenza”, la quale non direttamente afferisce al concetto di razionalità
quanto piuttosto a quello di adeguatezza o meno nei confronti dell’obiettivo,
all’omeostasi del sistema e alle sue funzioni adattive.
15
Discorrere di autonomia può sembrare insensato e inaccettabile ad un seguace del
management scientifico, ma la parola acquisisce un senso se considerato sul
fronte della direttività del lavoro, nella modalità di svolgimento e nella creazione di
norme e regole. Come vedremo questo termine acquisisce una funzione importante
nell’apprendimento orientato all’acquisizione di processi in fase di apprendimento;
l’autonomia è in fondo ciò che permette di esplorare problemi da un punto di vista
che può risultare inusuale a insieme stimolante .
La responsabilità di un’azione è da comprendere sia dal punto di vista oggettivo,
legata al raggiungimento dei risultati, sia soggettivo, legata quindi alla disponibilità
di farsi carico dei risultati, cui facilmente si associa il concetto di rischio e di colpa.
Il primo non deve essere amato o temuto ma affrontato, cercando di minimizzare
l’eventuale impatto di un errore, mentre la colpa deve diventare strumento di ricerca
delle ragioni dell’errore provocato.
Infine il sapere di base, di strumenti, tecniche e metodologie, che il manager deve
possedere per poter agire la propria relazione professionale, può essere descritto
attraverso una serie di norme relazionali: dirigere, decidere, negoziare, delegare,
comunicare e infine valutare.
Riguardo al concetto di dirigere ci riferiamo allo stile di conduzione di un gruppo,al
modus operandi con cui il dirigente si rivolge al gruppo con cui lavora;per una
breve disamina facciamo riferimento al modello di Hersey e Blanchard, e parliamo
di una analisi che incrocia le categorie della maturità nei collaboratori,articolata in
professionalità e motivazione(una come “dominio degli strumenti professionali
specifici”, l’altra come atteggiamento positivo rispetto all’ azione).A ciascuno dei
quattro stili di direzione e conduzione corrisponde degenerazioni in senso
autoritario per lo stile direttivo, manipolativo per quello persuasivo, assembleare
(riunioni inutili) allo stile partecipativo, e abdicativi per quello delegante, nel caso in
cui il manager lasci tutto esclusivamente nelle mani dei collaboratori ,creando
talvolta un vero e proprio “ complesso abbandonico”.
16
Decidere è un’azione che racchiude una serie di passaggi; non è semplicemente
prendere una decisione ma riuscire a seguire e sviluppare le tappe di un processo,
dalla definizione del problema, il problem setting, alla sua soluzione il problem
solving. Per cosa si debba intendere con il termine “problema” ci affidiamo alla
risposta della Kepner & Trigoe, che ha standardizzato e diffuso il sistema più noto di
problem solving, il cosiddetto problem solving metodologico, che considera
problema “la deviazione peggiorativa di una situazione o di un processo rispetto a
uno standard convenuto e accettato; deviazione indotta da una causa incerta o
ignota.”(Amietta 1993).
La capacità di negoziare è sostanzialmente saper “dipanare” l’insieme dei problemi
che si vanno ad affrontare, conflitti reali o potenziali, integrare obiettivi e funzioni
aziendali, che naturalmente vanno aldilà di quelli che possono essere i problemi
individuali o di ruolo, e far convergere energie e punti di vista verso un fine comune
che deve essere raggiunto; dalla gestione del conflitto si passa dunque alla gestione
e alla creazione del consenso. Così come lo è il prendere una decisione, anche il
negoziare è un modello logico, è un modello mentale che segue alcuni passaggi
obbligatori: l’analisi del contesto(la storia, cosa sembriamo agli altri, come gli altri ci
rappresentano e come noi rappresentiamo gli altri), l’orientamento ( a cosa si deve
giungere), la decisione strategica(i mezzi ci cui si dispone, vincoli, risorse,
alternative) e la stesura del piano (micro e macro progettazione).
Questa sorta di algoritmo logico non è proprietà esclusiva del manager; essendo di
fatto una “forma mentis”, chiunque la può adottare, acquisendo in tal modo non tanto
le informazioni ,quanto piuttosto la consapevolezza della cornice di riferimento nella
quale queste ultime, una volta possedute, andranno a inserirsi. Questo metodo può
facilitare il difficile compito di dare un significato a tutto ciò che si relaziona al
raggiungimento del compito, sia per il lavoro stesso, che cioè l’uso del dato sia in un
rapporto di indicazione col corretto svolgimento del lavoro e che non resti inerte o
produca effetti di negativi, sia per il collaboratore ,che così non rischia di trovarsi
spaesato di fronte al compito assegnatogli, permettendo così uno scambio reciproco
di informazioni e potenziando il lavoro di rete.
17
Punto cardine della delega è la fiducia che, in re ipsa, porta una sorta di spirale
virtuosa che agisce sulla persona nel senso della motivazione, dell’etero e
autostima, della soddisfazione e della responsabilizzazione, fattori che interagendo
tra loro inducono non solo ad un miglioramento delle “condizioni igieniche” , ma
anche ad un aumento della produttività, come la American Management Association
sembra confermare. La messa in atto di una logica di tipo win-win, pare infatti
“pagare” di più del classico “fidarsi è bene non fidarsi è meglio”; delegare diventa
quindi anche incoraggiare, rendere partecipi e consapevoli i collaboratori di essere
ritenuti abili e competenti per il compito assegnato(Amietta 1993).
In relazione prossima al concetto di delega vi sono quelli di colpa e responsabilità,
l’autorità e il potere, che non si devono indistintamente associare o peggio ancora
confondere. Il capo ha la responsabilità dei risultati negativi conseguiti per colpa del
collaboratore e l’autorità è la fonte del diritto dell’esercizio del potere, che per il capo
è la capacità o possibilità di “influire sul comportamento indirizzandolo verso il goal
prefissato”(Amietta opera citata), e per il team è la possibilità di individuare possibili
aree di intervento e agire efficacemente . In questo l’autorità definisce il campo dei
vincoli e delle risorse, definisce insomma lo spazio dell’azione, pone un confine tra
l’interno e l’esterno del sistema in cui il problema viene individuato, il potere altro
non è che la libertà per i collaboratori di individuare zone di propria competenza.
Nel campo della comunicazione avere accesso all’informazione significa anche
“potere”, potere di decidere per sé e per altri, è fondamentale quindi avere
competenze comunicative per influenzare il comportamento altrui e indirizzarlo
verso i risultati attesi. Saper dunque utilizzare la comunicazione diretta verbale e
non verbale, la prossemica, la paralinguistica e la comunicazione mediata, con
una certa e sempre più importante attenzione alla comunicazione digitale, in internet
e intranet, che maggiormente si orienteranno all’uso di multimedia; diverrà
altrettanto importante saper ascoltare, saper interpretare e dare senso a elementi in
continuo movimento. Organizzare e gestire la comunicazione non è un
semplicemente il trasferimento di dati, significa al contrario apportare un
arricchimento al contesto generale, in termini di credibilità di chiarezza e
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comprensibilità. Tali competenze sono in forte relazione con la gestione delle risorse
umane, con la gestione del capitale intellettuale, delle dinamiche di gruppo, in
generale “dell’altro”.
Occuparsi di questo alter, significa anche saper ascoltare, saper cogliere, se stessi
personalmente e se stessi da fuori; sapersi riconoscere da fuori, prendere coscienza
che la rappresentazione che possediamo di noi diverge da quella “altra”. Ciò
sottolinea la necessità di essere capaci di lasciarsi guardare(Salomone 2003),
essere in qualche modo trasparenti, lasciare cioè la possibilità di essere visti al di là
della maschera del ruolo, senza per questo doversene distaccare, e farsi
riconoscere e riconoscersi per la competenza e l’impegno senza nascondersi dietro
al ruolo istituzionale, diventare insomma parte del team in cui si lavora, senza
perdere la propria identità ma ritrovandola attraverso la ricerca del “vero” della
persona e non della finzione del posto che si occupa.
La valutazione in campo manageriale attiene classicamente alla misura del
potenziale,alla posizione e alla prestazione,essa considera non la persona ma il
comportamento. Nonostante ciò valutare e soprattutto essere valutati evoca subito
tensione e disagio, paura di non essere all’altezza di un compito o delle aspettative
di chi quel compito l’ha assegnato.