Il comportamento dei materiali sottoposti ad uno stress può essere definito elastico o
viscoso. Il primo è tipico dei solidi mentre il secondo dei liquidi. La maggioranza degli
alimenti fornisce, però, risposte di tipo “viscoelastico”, ossia mostra caratteristiche
riconducibili ad entrambe le tipologie di materiale.
Per un solido elastico ideale, soggetto ad uno sforzo, l’energia spesa nella
deformazione si conserva, sottoforma di energia potenziale, ed è restituita quando
viene rimosso lo sforzo. Alla sollecitazione segue, infatti, una deformazione istantanea
poiché gli elementi che lo compongono non presentano alcuna inerzia e il recupero
della forma iniziale è altrettanto rapida e coincide con il momento in cui la forza viene
rimossa.
Alcuni materiali reali si comportano come solidi elastici ideali solo se sottoposti a
piccole deformazioni e sono descritti dalla legge di Hooke.
τ = Gγ
dove τ [Pa] è lo sforzo, G [Pa] il modulo di elasticità o modulo di Young e γ,
adimensionale, è la deformazione. Lo sforzo è indipendente dalla velocità di
deformazione, ma direttamente proporzionale all’entità della deformazione e alla
resistenza del solido (G), che è una proprietà intrinseca del materiale.
Nel caso dei fluidi ideali, invece, le deformazioni sono irreversibili, poiché l’energia
scambiata è completamente dispersa. Il loro comportamento è descritto dalla legge di
Newton:
.
τ = ηγ
.
dove τ [Pa] è lo sforzo, η [Pa*s] la viscosità e γ [s
-1
] la velocità di deformazione. La
viscosità è il coefficiente di proporzionalità tra sforzo e velocità di deformazione; è
definita come la frizione interna di un liquido, ossia la sua tendenza ad opporsi al flusso
(Bourne, 1982) e dipende, oltre che dalla concentrazione dei soluti e dal peso
molecolare, anche dalla temperatura, dalla pressione e dalla presenza di materiale
sospeso.
- 7 -
Graficamente, l’equazione di Newton si può rappresentare in un piano bidimensionale,
con la costruzione della curva di flusso che, per i fluidi newtoniani, è riconducibile ad
una retta che passa per l’origine degli assi ed ha, per coefficiente angolare, la viscosità.
La gran parte degli alimenti, tuttavia, ha un comportamento differente da quello
appena descritto, riconducibile ad una delle seguenti tipologie di materiali (figura 1.2):
• materiali plastici (o fluidi di Bingham): fluiscono analogamente ai newtoniani,
ma solo previo superamento di un valore “soglia” o “yield” (τ
0
).
.
τ = τ
0
+ ηγ
• fluidi pseudoplastici: sono caratterizzati dalla riduzione della viscosità
all’aumentare dello sforzo, dovuto al progressivo allineamento delle
macromolecole. Molti mostrano una dipendenza lineare tra sforzo di taglio e
velocità di deformazione, per bassi valori di shear rate (regime newtoniano).
• materiali dilatanti: mostrano un incremento di viscosità all’aumentare della
velocità di deformazione; è tipico di tutte le sospensioni in cui la concentrazione
è sufficientemente elevata da permettere che le molecole siano “impaccate”.
Sia gli pseudoplastici che i dilatanti sono descritti dalla legge di potenza:
.
τ = kγ
n
dove k è l’indice di consistenza, numericamente uguale alla viscosità, ed n,
adimensionale, è l’indice di non newtonianità. Per n<1 il fluido è pseudoplastico,
mentre se n>1 è dilatante.
Figura 1.2 Curve di flusso per materiali newtoniani (sinistra) e non newtoniani (destra)
- 8 -
Per alcuni materiali la viscosità è funzione del tempo e questa dipendenza è associata
ai cambiamenti irreversibili della struttura (Ferry, 1980). Come mostrato in figura 1.3,
si distinguono i materiali tixotropici e i reopectici, caratterizzati, rispettivamente, dal
decremento e dall’aumento della viscosità apparente. Ne sono un esempio quei
prodotti che, dopo il confezionamento, raggiungono uno stato di strutturazione (stato
di gel) che può cambiare proprietà, reversibilmente o irreversibilmente, se sottoposto
ad uno sforzo di taglio. Per verificare la tixotropia di un campione, si esegue un test a
scansione di velocità crescente, seguito da uno a velocità decrescente; se le proprietà
del materiale sono tempo-indipendenti le due curve non sono sovrapponibili.
Figura 1.3 Tipologie di comportamenti tempo-dipendenti
1.1.2- REOLOGIA DINAMICA
I metodi dinamici in regime sinusoidale permettono di valutare le proprietà intrinseche
del materiale senza alterarne la struttura. La procedura sperimentale prevede
l’applicazione di una deformazione tangenziale oscillatoria, a frequenza ed ampiezza
definite, per misurare lo sforzo di taglio, o viceversa.
Figura 1.4 Principio di funzionamento del reometro (sopra) e curve di sforzo applicato e deformazione misurata (sotto)
- 9 -
Questi metodi di analisi permettono di indagare il comportamento viscoelastico di un
campione, ponendolo in relazione con la sua struttura e per tali ragioni sono indicati,
ad esempio, nello studio dei gel, dei processi di gelificazione, delle transizioni vetrose e
della denaturazione proteica.
I test dinamici vengono effettuati solo nella zona cosiddetta di “viscoelasticità lineare”
(individuata mediante un test a scansione di ampiezza di deformazione) cioè
nell’intervallo entro il quale le proprietà viscoelastiche risultano non perturbate dallo
sforzo applicato.
Se un campione è sottoposto ad un’onda di deformazione con ampiezza γ [m], e
frequenza ω [rad*s
-1
], descritta dalla funzione d’onda
γ = γ
0
sen (ωt)
la risposta è un’onda di sforzo, τ, descritta dall’equazione che segue e sfasata rispetto
alla precedente di un angolo θ [rad], detto angolo di fase, la cui ampiezza dipende
dalla caratteristiche del materiale
τ = τ
0
sen (ωt + θ)
È, quindi, possibile estrarre i parametri:
τ = τ
0
cos (θ)sen (ωt) + τ
0
sen (θ)cos (ωt)
t = γ
0
G’sen (ωt) + γ
0
G’’cos (ωt)
G’ = (τ
0
/ γ
0
)cos (θ) e G’’ = (τ
0
/ γ
0
)sen (θ)
G’ e G’’ sono rispettivamente il modulo conservativo e dissipativi, entrambi espressi in
Pa. G’ descrive la capacità di immagazzinare energia elastica di deformazione mentre
G’’ è legato alla capacità di disperderla.
In figura 1.5 sono riportate le possibili tipologie di risposta dei materiali alle
sollecitazioni in regime dinamico oscillatorio.
- 10 -
(a)
(b)
Figura 1.5 Parametri che definiscono l’onda di sforzo e l’onda di deformazione, di ampiezza τ
0
e θ
0
,
sfasate di un angolo δ (a). Risposta dei materiali viscosi, elastici e viscoelastici alla sollecitazione (b)
Se G’’ e l’angolo di fase sono pari a zero, il materiale in questione è un solido
perfettamente elastico: l’onda di sforzo e di deformazione possono differire solo per
l’ampiezza. Nel caso in cui le due onde risultino sfasate di θ = π/2, allora si è in
presenza di un liquido, cioè di un materiale con proprietà viscose. In tutti gli altri casi il
materiale in oggetto di definisce viscoelastico.
Per la caratterizzazione dei biopolimeri o dei gel, una delle analisi più significative è il
test a scansione di frequenza, durante il quale il campione è sottoposto ad un’onda di
deformazione con ampiezza costante ma frequenza variabile e in progressivo
incremento. In questo modo si ottiene uno spettro meccanico, che evidenzia le
proprietà viscoelastiche e permette di distinguere tra soluzioni diluite, soluzioni
concentrate, gel deboli e gel forti.
Nelle soluzioni diluite le proprietà viscose prevalgono su quelle elastiche e il valore di
G’’ è sempre maggiore di G’, anche se i due moduli tendono ad avvicinarsi alle alte
frequenze. G’’ e G’ si intersecano nel caso di soluzioni concentrate, perché a frequenze
elevate prevale la tendenza ad un comportamento elastico. Infine, i gel presentano un
modulo elastico sempre maggiore di quello viscoso e la forza della struttura può essere
stimata dalla pendenza della curva di G’: più è ridotta la dipendenza dalla frequenza,
più il gel è forte e strutturato.
- 11 -
Mantenendo costanti sia la frequenza che l’ampiezza di deformazione nel tempo (test a
scansione di tempo o time sweep) si possono ricavare informazioni circa la cinetica di
gelificazione (Ross-Murphy, 1994).
1.2- L’INTERFACCIA
Per definizione, “l’interfaccia” è la sottile regione che separa due fasi (due liquidi, un
solido e un liquido o due solidi), mentre con il termine “superficie” ci si riferisce
esclusivamente alla regione che divide due fasi di cui una è gassosa; tuttavia i due
vocaboli si utilizzano abitualmente come sinonimi, date le numerose analogie (Myers,
1999).
Le fasi possono essere costituite da diversi tipi di molecole o soltanto da differenti stati
fisici della stessa molecola e le sostanze a spiccata affinità per l’interfaccia possono
presentarsi come soluti adsorbiti o come strato insolubile depositato. Il tipo e la
concentrazione di molecole in un’interfaccia ne dettano la struttura, le dimensioni,
l’energia libera, le proprietà elettriche e reologiche e quindi sono fondamentali nella
caratterizzazione di un sistema multifasico.
Esistono diversi tipi di interfaccia, ognuna con un interesse tecnologico specifico. Per
esempio, le interfacce liquido/gas (figura 1.6) sono interessanti nello studio della
stabilità delle schiume, quelle tra solido e liquido vengono indagate per capire le
modalità di azione dei detergenti, degli adesivi e dei lubrificanti, le interfacce solido/gas
sono responsabili dei processi di adsorbimento, catalisi e contaminazione, mentre lo
studio di quelle tra due liquidi permettono di capire cosa avviene durante la detergenza
e quali sono le cause dell’instabilità delle emulsioni (Myers, 1999).
Figura 1.6 Disposizione dei surfattanti e delle proteine all’interfaccia di schiume e emulsioni
- 12 -
Ogni molecola ha una propria funzione all’interfaccia. Nelle schiume, al fine di
aumentare la stabilità della dispersione delle bolle e prevenire la coalescenza, è bene
cercare di aumentare l’elasticità superficiale e lo spessore dello stato adsorbito, ossia
favorire la formazione di film proteici. Nelle emulsioni, invece, è opportuno cercare di
minimizzare la repulsione elettrostatica, in modo da stabilizzare lo strato adsorbito e
prevenire la flocculazione (Golding, 2004). All’interfaccia, gli emulsionanti formano film
mobili e sottili. La tensione interfacciale è tanto più elevata quanto più esile è lo strato
adsorbito e lo spessore può essere aumentato con l’adsorbimento di ulteriore
surfattante o con la migrazione delle molecole di tensioattivo dalle zone a più bassa
tensione, verso le aree a ridotto spessore.
Dal momento che le proprietà chimico-fisiche del bulk sono dettate anche dalla natura
delle interfacce, è importante capire quali sono i fattori che più influenzano la loro
composizione: tipologia e quantità di molecole assorbite sono tra i primi, ma è
necessario controllare anche la concentrazione nel bulk, la temperatura, il pH, la forza
ionica e tutte le condizioni operative.
Ad esempio, per le proteine globulari, all’aumentare della concentrazione nel bulk,
aumenta la quantità di molecole adsorbite, perché le maggiori interazioni portano alla
formazione di aggregati più velocemente adsorbibili rispetto alla singole proteina.
Anche la temperatura gioca un ruolo importante: denaturando le proteine si favorisce
la formazione di aggregati, perché incrementa la possibilità di formare legami.
Condizioni di pH vicine al punti isoelettrico e forza ionica elevata hanno il medesimo
effetto della temperatura riducendo o annullando la repulsione elettrostatica.
Molto frequentemente le interfacce sono costituite da differenti tipologie di molecole e
per questa ragione è necessario tenere presente le singole velocità e modalità di
adsorbimento, le caratteristiche chimico-fisiche e le interazioni possibili. Nel caso di
sistemi misti, inizialmente l’interfaccia è costituita dalle molecole che più rapidamente
adsorbono e successivamente, con l’arrivo delle altre, evolve fino a raggiungere una
situazione di equilibrio in cui i diversi componenti del sistema coesistono.
1.2.1- REOLOGIA INTERFACCIALE
Analogo bidimensionale della classica reologia di massa, è volta allo studio della
deformazione e del flusso di film infinitamente sottili, che costituiscono le superfici e le
- 13 -
interfacce (Bos, Van Vliet, 2001), ossia le regioni che dividono due distinte e
identificabili fasi della materia. È noto che, se esistono due fasi a contatto fra loro,
deve necessariamente esistere anche una regione, fra le due, attraverso cui le
proprietà del sistema cambiano per permettere il passaggio da una fase all’altra
(Myers, 1999).
Lo studio della reologia interfacciale è fondamentale per lo studio di problemi pratici,
quali: formazione, stabilizzazione e caratteristiche di schiume ed emulsioni, selezione
dei surfattanti, formazione dei film….
Le caratteristiche dell’interfaccia sono correlabili alle proprietà della massa, attraverso
la legge di Buossinesq, che permette di calcolare il numero di Boussinesq (N
Bo
),
adimensionale:
N
Bo
= interfacial viscosity / bulk viscosity
• Per N
Bo
>>1 l’effetto del bulk è trascurabile rispetto all’interfaccia ed è possibile
considerare l’interfaccia come un sistema isolato, indipendente dal resto della
massa;
• Per N
Bo
<<1 il contributo della massa è preponderante rispetto ai fenomeni che
avvengono all’interfaccia;
• Per N
Bo
≈1 esistono scambi bilaterali di materia ed energia, tra massa e
superficie.
A livello molecolare, le fasi sono distanti tra loro di lunghezze nell’ordine di pochi
diametri molecolari. Lo spessore e le dinamiche della regione interfacciale dipendono
dall’intensità relativa delle interazioni esistenti tra le molecole: meno forti sono le
interazioni, meno spessa e rigida è l’interfaccia (Dickinson, 1999).
Figura 1.7 In un sistema liquido/vapore, l’interfaccia coincide con la regione in cui cambia il profilo di concentrazione
- 14 -
La differenza fra la reologia di massa e quella interfacciale è, teoricamente, la perdita
di una dimensione: mentre la prima opera in ambito tridimensionale, la seconda è
bidimensionale, cioè tende a minimizzare l’inerzia del liquido sottostante la superficie e
a considerare esclusivamente gli eventi all’interfaccia: è , infatti, definita con
l’espressione “2D rheology” (Enri, 2006). In realtà, rispetto alla reologia di massa, la
reologia interfacciale mostra due differenze fondamentali:
1. esistono fenomeni di scambio molecolare tra interfaccia e il resto del sistema,
che non possono essere sottovalutati e che non permettono di considerare
l’interfaccia come indipendente dalla massa;
2. i film interfacciali sono comprimibili
La reologia interfacciale si occupa, quindi, di studiare la relazione tra lo sforzo applicato
su una superficie e la deformazione osservata, che può essere: una
dilatazione/compressione (dilational), un piegamento (bending) o una deformazione di
taglio(shearing).
Figura 1.8: tipologie di deformazione applicabili al campione
Come mostrato in figura 1.8, nel primo caso si valutano i cambiamenti della tensione
superficiale dovuti ad una variazione dell’area del provino e si misura la resistenza delle
interfacce alla compressione e all’espansione. Il bending è provocato dall’applicazione
di uno sforzo, perpendicolarmente alla superficie (Bos, Van Vliet, 2001). Lo shearing,
infine, consiste nel cambiamento della forma dell’area, ma non dell’ampiezza: permette
di studiare, in termini di viscoelasticità superficiale, il gel formato all’interfaccia, avente
proprietà del tutto analoghe a quelle di un gel tridimensionale (Wilde, 2000).
Le tre tipologie di analisi differiscono fra loro per la sensibilità della tecnica. Ad
esempio, una dilatazione/compressione è efficace per lo studio delle cinetiche di
assorbimento e desorbimento delle molecole attive all’interfaccia, mentre con la “shear
rheology” non vi sono cambiamenti nell’area interfacciale e, quindi, non si verificano
mutamenti nella composizione del film durante l’analisi. In questo secondo caso si
- 15 -
valuta esclusivamente il contributo delle proprietà del materiale nella determinazione di
G e η (Murray, 2002).
La problematica annessa all’utilizzo della reologia interfacciale è legata al fatto che le
misurazioni sono effettuate su superfici a cui è applicato un range di stress e
deformazioni ben lontano dalle condizioni reali di formazione delle schiume e delle
emulsioni alimentari. Pertanto, le caratteristiche del sistema emerse da questo tipo di
indagine non possono essere direttamente correlate con le proprietà del sistema reale
(Bos, Van Vliet, 2001). Ciononostante, rimane la tecnica più indicata per comprendere
questi sistemi, perché permette di dare una valida interpretazione al comportamento
dei soluti all’interfaccia.
1.2.2- REOMETRIA INTERFACCIALE
Il reometro interfacciale a oscillazione (figura 1.9), sviluppato da Sheriff e Warburton, è
uno strumento che applica al campione uno stress controllato con andamento
oscillatorio, sfruttando i principi della risonanza meccanica. La geometria è agganciata
ad un sistema idealmente privo d’attrito e un sensore ad alta risoluzione controlla lo
spostamento angolare entro l’intervallo ±1°.
Figura 1.9 Schema dei componenti del reomentro interfacciale CIR 100 (Camtel Ltd., Royston, UK)
Esistono tre tipi di geometrie, illustrate in figura 1.10:
• “Knife-edge”: per le interfacce aria-acqua, dove il contributo della fase vapore è
trascurabile. La geometria non penetra nella fase acquosa e si massimizza la
risposta della sola interfaccia.
- 16 -