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II Capitolo
Risonanza magnetica funzionale: stato dell’arte
La risonanza magnetica riveste, nei fini della presente tesi, il compito di ri-attivazione
cerebrale attraverso l‟ausilio di macchine.
In letteratura non si sono trovati articoli approfonditi a riguardo: in questo capitolo verrà
esposto un quadro completo – per quanto possibile – dei dispositivi meccanizzati esistenti
utilizzati nello studio delle attivazioni cerebrali.
Nel primo paragrafo si descrive il funzionamento della risonanza magnetica, come questa
interagisce con il corpo umano e come venga utilizzata nella ricerca medica. In particolare si
descrivono le caratteristiche richieste al dispositivo evidenziandone particolarità, pregi e
difetti.
Saranno in seguito descritte le diverse tecniche esistenti di analisi dell‟attivazione cerebrale
utilizzate su individui che hanno perso le funzionalità motrici in seguito a traumi cerebrali:
tutte le metodologie sono efficaci grazie alle caratteristiche di adattabilità del sistema nervoso
centrale.
Si presentano poi i principali dispositivi esistenti, sia sul mercato che in fase di ricerca: le
descrizioni hanno il solo obiettivo di spiegare il funzionamento di ogni sistema (per dettagli
ulteriori si rimanda alla bibliografia). Per i dispositivi di cui si è trovata documentazione
sufficiente è stato dedicato uno spazio al controllo e alla regolazione: la sicurezza e il
controllo sono fattori importanti su qualsiasi apparecchiatura, ma in modo particolare su
macchine che lavorano a contatto diretto con gli arti di persone che hanno subito traumi
cranici (o, più in generale, lesioni al sistema nervoso centrale) ed inoltre, sicurezza e
controllo, rivestono importanza notevole nell‟ambito degli studi di ingegneria meccanica.
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II.1 La risonanza magnetica nucleare funzionale (fMRI)
La risonanza magnetica funzionale (fMRI) ha permesso di guardare per la prima volta
all‟interno del cervello umano “in vivo”, o per tradurre letteralmente “guardarlo mentre
lavora”.
Questo ha rilevato le importanti capacità e funzioni del nostro cervello, ad esempio su come
vediamo, sentiamo, ci muoviamo e organizziamo i ricordi.
I cambiamenti dell'attività cellulare del cervello sono associati ai cambiamenti delle richieste
energetiche: quanto maggiore è l'attività funzionale di un tessuto cerebrale, tanto maggiore
sarà il suo metabolismo e, conseguentemente, le richieste energetiche aumenteranno.
Il cervello viene quindi ad essere interpretato come una macchina con il suo consumo, il suo
effetto utile, il suo rendimento .
Negli ultimi 20 anni, si è assistito allo sviluppo di tecniche molto sofisticate che, sfruttando le
variazioni emodinamiche prodotte dall'attività neuronale, sono in grado di identificare le aree
attivate del cervello umano. Queste tecniche sono la risonanza magnetica funzionale (o fMRI)
e la tomografia ad emissione di positroni (PET).
La risonanza magnetica nucleare (MRI) è una tecnica entrata in uso negli anni „70 allo scopo
di ottenere immagini dettagliate dell‟anatomia cerebrale sfruttando le proprietà nucleari di
certi atomi in presenza di campi magnetici. Attraverso tecniche di rilevamento ultrarapido dei
dati, è divenuta possibile l‟acquisizione di immagini in tempi talmente ridotti (dell‟ordine del
centesimo di secondo) da permettere di seguire nel loro svolgimento alcuni fenomeni
metabolici: si parla in questo caso di MRI funzionale (fMRI). Applicato alla fisiologia del
cervello, l‟fMRI ha permesso di visualizzare su una scala temporale estremamente fine le
variazioni dell‟ossigenazione delle regioni corticali, variazioni che si considera siano in stretta
relazione con il grado di attività delle regioni stesse. Si sono sfruttate a questo scopo le
proprietà magnetiche di cui gode l‟emoglobina, che differiscono leggermente a seconda che
questa sia legata o meno all‟ossigeno.
La tecnica è sicura e si sta evolvendo verso lo studio di alcune patologie del nostro cervello.
Capire il potenziale e le capacità adattive del nostro cervello permette ai medici un approccio
razionale per potenziare le strategie riabilitative.
In questi paragrafi rivedremo brevemente le applicazioni di questa tecnica per capire meglio il
funzionamento del cervello umano in pazienti sani e in altri con disturbi neurologici.
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II.2 La risonanza magnetica e l’uomo
Senza che ce ne rendiamo conto, il nostro cervello è composto da miliardi di piccoli magneti.
Ogni atomo di idrogeno presente in ogni molecola d‟acqua nel nostro cervello è un piccolo
dipolo magnetico; la dimensione di un cucchiaino da caffè ne contiene circa 100 · 10
21
.
Quando questi piccoli magneti presenti nel tessuto cerebrale sono posti in un potente campo
magnetico, questi si allineano.
Se un piccolo impulso a radiofrequenza (RF) perturba l‟equilibrio di questi magneti, essi
perdono il loro allineamento e ritornano alla posizione originale liberando una piccola
quantità di energia che può essere definita e ampliata grazie ad una antenna ricevente disposta
attorno alla nostra testa.
Il segnale percepito ci permette di distinguere le molecole d‟acqua e la loro quantità in ogni
parte della testa. Infatti, come altri tessuti del nostro corpo, il nostro cervello è costituito dal
70 % di acqua. Parti differenti del nostro cervello hanno diverse quantità d‟acqua; le cellule
nervose sono ricche d‟acqua, mentre lo spesso ricoprimento delle fibra ne contiene meno.
Questo genera contrasti fra la superficie della corteccia cerebrale e gli strati sottostanti della
materia bianca; queste differenze permettono alla risonanza magnetica funzionale di
determinare i dettagli delle varie strutture cerebrali.
In figura 2.1 è presente un esempio di come la differente distribuzione di acqua nel nostro
cervello determini differenti zone e differenti segnali fra la corteccia e la materia bianca.
Attraverso la “finestra” della fMRI è possibile definire con una risoluzione inferiore a 0.5 mm
la strutture interna del nostro cervello.
E‟ da ricordare comunque che la tecnica MRI ha aumentato la conoscenza della struttura del
cervello umano, ma non spiega come questo funzioni; tramite lo sviluppo dell‟imaging
funzionale è possibile guardare dentro il cervello del paziente “in tempo reale” ad apprezzare i
meccanismi neuronali che stanno dietro il suo funzionamento, piuttosto che osservare le
conseguenze dei loro effetti.
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Fig. 2.1: Esempio di neuroimmagine
II.3 Il meccanismo fisico alla base del segnale MRI
Definiamo ora brevemente la relazione fisica che sta alla base della tecnica della risonanza
magnetica.
Il segnale MRI nel normale uso clinico, deriva quasi interamente dai protoni dell‟acqua
contenuta nei tessuti. L‟intensità dell‟immagine dipende, in primo luogo, dalla densità dei
protoni ma può essere profondamente influenzata dall‟ambiente locale delle molecole
d‟acqua.
Fig. 2.2: Protoni in assenza di campo magnetico esterno
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I nuclei atomici sono masse cariche positivamente composte da protoni e neutroni ed alcuni di
essi sono dotati di un movimento rotazionale attorno al proprio asse, regolato dal numero
quantico di spin. Questo movimento delle cariche produce un campo magnetico, tale da poter
assimilare questi nuclei a microscopici magneti con polarità nord-sud e orientati in tutte le
direzioni. Nel corpo umano sono molti gli elementi che si prestano a questa visione, ma la
scelta dell‟idrogeno è dovuta principalmente alla sua abbondanza sia sotto forma di acqua che
legato chimicamente a formare zuccheri, grassi, proteine.
All‟interno dei tessuti biologici i nuclei di idrogeno sono orientati casualmente ma quando
vengono sottoposti a un campo magnetico statico di elevata intensità, costante nel tempo ed
omogeneo nello spazio, si vanno ad orientare secondo tale campo nella direzione parallela o
antiparallela a seconda della minore o maggiore energia dei nuclei.
Dopo l‟eccitazione con un impulso a RF (vedi figure), che modifica l‟allineamento dei
momenti magnetici dei protoni allontanandoli dalla direzione parallela al campo magnetico
principale statico, i protoni recuperano quindi il loro allineamento originale assai lentamente,
in un range temporale che va da alcuni decimi di secondo fino ad alcuni secondi.
Fig. 2.3: Protoni allineati in modo parallelo o opposto rispetto a un campo magnetico esterno
Il fornire questa energia alla stessa frequenza è il fenomeno che dà il nome (risonanza) al
metodo; ad esempio si tratta dello stesso principio, per cui fornendo la spinta al momento
giusto, si può aumentare l‟ampiezza delle oscillazioni di un‟altalena.
Dopo l‟impulso, man mano che gli spin dei protoni tenderanno a tornare al loro stato iniziale
di allineamento lungo il campo (fenomeno di rilassamento); tramite una bobina ricevente
viene misurato l‟andamento della magnetizzazione nel piano perpendicolare al campo
magnetico principale.
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Durante questo tempo la magnetizzazione che è stata creata in direzione trasversale al campo
magnetico statico induce un segnale in tensione nell‟antenna che circonda il corpo oggetto di
indagine. Se i protoni dell‟acqua vengono nuovamente eccitati prima del totale recupero, si
ottiene un segnale di minor intensità.
Variazioni nell‟attività cerebrale di un soggetto che creano uno sbilanciamento tra la
sottrazione di ossigeno ed il flusso sanguigno producono un cambiamento nel segnale MRI
attorno ai vasi che irrorano la corteccia, questo fenomeno può essere osservato nel caso in cui
vengano usate sequenze di immagini MR sensibili alle disomogeneità del campo magnetico.
Nell‟emoglobina deossigenata, dHb, il ferro dell‟eme è in uno stato ferroso (Fe
2+
) a spin-alto,
prodotto dal fatto che quattro dei suoi sei elettroni esterni sono spaiati. Gli spin degli elettroni
spaiati hanno un momento magnetico molto grande e le proprietà paramagnetiche a questo
associate ne producono un comportamento simile a quello dei mezzi di contrasto esterni.
Nell‟emoglobina ossigenata (Hb), uno degli elettroni viene trasferito alla molecola di
ossigeno, ed il ferro dell‟eme cambia il suo stato in spin-basso, perciò non presenta più
momento magnetico e, quindi, proprietà paramagnetiche.
II.4 L’hardware in MRI
I principali componenti di un apparecchiatura a risonanza magnetica sono:
il magnete;
il sistema shimming;
le bobine a radiofrequenza;
i gradienti di campo;
il computer;
Il magnete è la componente principale di un tomografo RM: deve generare un campo
magnetico di intensità opportuna, con grande omogeneità e stabilità nel tempo. Una bassa
omogeneità di campo darà origine a immagini di scarsa qualità poiché i protoni del
campione in esame, non trovandosi alla stessa intensità di campo magnetico, non
risentiranno tutti dell‟impulso RF e non precederanno alla stessa frequenza di risonanza.
Esistono in commercio tomografi che utilizzano diversi tipi di magnete e che possiedono,
quindi, caratteristiche tecniche differenti, ma anche costi di acquisto e di gestione diversi.
I più usati sono:
magnete permanente: formato da blocchi di materiale ad alta memoria magnetica
che, una volta magnetizzati, mantengono “indefinitamente” il campo magnetico dopo
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aver subito un trattamento, tramite correnti elettriche di intensità molto elevata, che
orienta i dipoli del materiale stesso. Sono vantaggiosi in quanto poco costosi
soprattutto per la gestione; in compenso generano campi di bassa intensità (0,3 T) e
omogeneità e tendono a deteriorarsi nel tempo. Sono impiegati per apparecchiature a
bassa intensità di campo;
magnete resistivo: paragonabile a una elettrocalamita, formata da spire di materiale
conduttore nel quale circola costantemente corrente ad alta intensità (figura 2.10).
Sono apparecchi di costo contenuto nonostante il consumo di energia elettrica. Per
contro i campi che si generano non superano i 0,5 T e sono disomogenei; sono poco
usati anche perché producono calore;
Fig. 2.4 Magnete resistivo
magnete superconduttivo: costruito con materiali che, alla temperatura prossima allo
zero assoluto, si lasciano attraversare dalla corrente elettrica opponendo praticamente
resistenza nulla e creando così un campo magnetico statico di elevata intensità.
Questa caratteristica permette di ottenere correnti molto elevate nelle bobine con
differenze di potenziale ridotte: è però necessario immergere il conduttore in elio
liquido per mantenerlo alla temperatura occorrente. Questo fa lievitare i costi di
gestione, in quanto il liquido deve essere inserito in un circolo di refrigerazione e
reintegrazione continua. Per contro, i magneti superconduttivi consentono di
raggiungere campi di intensità elevata (1,5 -2 T). La maggior parte dei tomografi RM
è realizzata con magneti di questo tipo;
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magnete ibrido: costruito unendo le tecnologie relative ai magneti permanenti e ai
magneti resistivi;
I magneti shimming sono bobine di compensazione utilizzate per aumentare l‟omogeneità del
campo magnetico, possono essere sistemi passivi o attivi: i primi sono realizzati in fase di
costruzione del magnete e correggono le disomogeneità dovute al magnete stesso, i secondi
utilizzano bobine inserite internamente all‟apparecchio oppure gli stessi gradienti di campo al
fine di correggere le disomogeneità nel volume centrale del magnete.
Le bobine a radiofrequenza si possono considerare come delle vere e proprie antenne che
servono ad emettere i segnali RF necessari a perturbare l‟allineamento protonico al campo
magnetico statico (bobine di trasmissione) e a ricevere i deboli segnali emessi dai tessuti
durante la fase di rilassamento (bobine di ricezione).
Nei moderni sistemi RM esiste una bobina di trasmissione, fissata nella parte interna del
magnete, che trasmette i segnali generati da un generatore di forme d‟onda (wave form
generator) e amplificati dall‟amplificatore di potenza.
Le bobine di ricezione si dividono in bobine di volume e in bobine di superficie. Le prime
hanno di solito la forma di un cilindro cavo, al cui interno si posiziona la struttura da
esaminare; vengono dette anche bobine a “sella” e si hanno di differenti misure a seconda
della parte anatomica da studiare. Ultimamente tali bobine sono state sostituite da quelle a
“gabbia di uccello” (birdcage) (figura 2.5) composte da una serie di sbarre dette rod, ciascuna
delle quali riceve il segnale, migliorando notevolmente la qualità dell‟esame.
Fig. 2.5 Modello di birdcage per la testa
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Le bobine di superficie, come lo stesso nome indica, sono in grado di ricevere il segnale dalle
strutture superficiali contigue, con una caduta del segnale RM ad andamento quadratico, con
l‟aumentare della distanza tra campione in esame e la bobina.
I gradienti di campo sono bobine che generano campi magnetici variabili nello spazio e nel
tempo che si sommano al segnale a radiofrequenza.
Vengono posizionati lungo le tre direzioni dello spazio X, Y, Z attorno al magnete e possono
essere di selezione, di preparazione o di lettura, permettendo l‟identificazione spaziale di ogni
unità di volume di tessuto (voxel) in esame e la ricostruzione dell‟immagine.
Fig. 2.6 Componenti del tomografo RM. Si distinguono il magnete (a), il sistema dei gradienti
(b) e il sistema RF (c)
Infine il computer, nel tomografo, rappresenta il cervello del sistema e controlla, tramite
opportune interfacce, tutte le operazioni eseguite, dalla sintonia delle bobine, alla
digitalizzazione dei segnali analogici ricevuti, alla ricostruzione e alla visualizzazione
dell‟immagine, a tutte le operazioni di processo, come il calcolo di distanze, superfici,
intensità di segnale. Proprio per questo deve possedere una elevata capacità di calcolo oltre a
una grande memoria e un‟alta velocità di acquisizione dei dati.
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II.5 L’utilizzo della fMRI nello studio del cervello
La risonanza magnetica funzionale è utilizzata su soggetti sani per conoscere nuove e
complesse capacità del nostro cervello ma anche per capire come persone con disabilità
neurologiche, causate da varie patologie quali ictus, traumi cranici o ischemie, possano
migliorare le proprie condizioni di vita e ciò è più pertinente in questa tesi.
La rilevanza clinica della fMRI è stata sostenuta anche da recenti esperimenti applicati a
specifiche strategie di riabilitazione associate al recupero di funzioni perse di tipo cognitivo o
mobile. I metodi di sensori motori ci consentono anche in questo caso di aprire nuove
prospettive di indagine, poiché grazie a esse possiamo indagare su come il cervello si
riorganizza dopo una lesione. Spesso infatti i pazienti migliorano sensibilmente, e ciò avviene
sia in modo spontaneo che grazie alla riabilitazione.
Con la risonanza magnetica funzionale è possibile osservare come la localizzazione
dell‟attivazione cerebrale in un paziente che ha recuperato alcune delle sue capacità sia
differente rispetto a quella osservabile in un soggetto normale. Queste modificazioni, spesso
associate a un miglioramento clinico, sono espressione della capacità del cervello ad adattarsi,
ovvero della plasticità cerebrale.
La non invasività e la ripetibilità della tecnica fMRI hanno permesso di monitorare l‟abilità
del cervello ad adattarsi con il tempo e di esaminare “in vivo” la rappresentazione delle
mappe sensori-motorie contenute nel cervello e come queste si possono modificare grazie
all‟esercizio. E‟ possibile quindi dimostrare l‟attivazione di diverse componenti della mappa
motoria per movimenti selezionati della mano, del braccio o della gamba. Con la risonanza
magnetica funzionale si è visto che è possibile modificare queste mappe addirittura con un
semplice esercizio motorio di pochi minuti. Apprendere una sequenza motoria delle dita
sempre più complessa ed eseguirla in modo rapido e preciso determina un allargamento della
mappa funzionale della mano; ad esempio è riportata la relazione fra la dimensione della
regione che controlla i movimenti delle mani di un musicista e il numero di anni di pratica
nello studio dello strumento musicale. L‟estensione della corteccia motoria della mano nel
cervello di suonatori di strumenti a corda è maggiore rispetto a quella osservata in soggetti
normali. La variazione nella struttura di questa regione dipende dall‟esperienza piuttosto che
dalle differenze individuali.
Questi tipi di esperimenti suggeriscono che l‟attività cerebrale può essere regolata
dall‟apprendimento e dall‟esperienza.
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II.6 La riorganizzazione plastica nel recupero di pazienti con lesioni
Per neuroplasticità s‟intende la capacità del sistema nervoso di andare incontro a
modificazioni strutturali e funzionali in risposta ad eventi fisiologici, durante lo sviluppo del
cervello, in risposta a stimoli ambientali, ad esempio l‟apprendimento, e ad eventi patologici;
nei pazienti con lesioni del sistema nervoso i fenomeni di neuroplasticità rappresentano uno
dei meccanismi alla base del recupero spontaneo, ma, sottoposti ad adeguati stimoli
ambientali, tali fenomeni di neuroplasticità possono essere particolarmente stimolati, con
ulteriori possibili vantaggi.
Bisogna mirare a capire quali di questi possono fornire suggerimenti su come avviene una
riorganizzazione funzionale dopo un danno cerebrale e in che modo possiamo “evocarla,
migliorarla e guidarla”.
Il cervello umano è quindi fisiologicamente sensibile all‟esperienza , ma soprattutto questa
plasticità si mantiene nei casi di lesione. L‟apprendimento di nuove abilità motorie con un
sistema nervoso centrale intatto e il recupero di abilità precedentemente apprese che sono
state perdute dopo un danno cerebrale sembrano essere simili nei vari aspetti.
Il cervello ha dunque la possibilità di compensare le lesioni cerebrali con meccanismi
specifici e la neuroplasticità è il collegamento tra recupero e premesse fisiologiche.
Tale fenomeno poggia fondamentalmente su due processi: la riorganizzazione funzionale dei
circuiti neuronali e il riarrangiamento strutturale dei circuiti stessi. Nel caso della
riorganizzazione funzionale il recupero è da attribuire a strutture integre che assolvono a
nuove funzioni normalmente non di loro pertinenza senza che per questo esse siano costrette
ad abbandonare le funzioni che fino a quel momento avevano normalmente svolto. Il
riarrangiamento strutturale consiste, invece, in quei processi di ricostituzione anatomica dei
circuiti stessi nei punti in cui essi erano stati interrotti dalla causa lesiva. Tali meccanismi si
identificano in una serie di processi essenzialmente a carico delle cellule nervose integre
situate in aree topograficamente adiacenti all‟area cerebrale lesa.
Le varie ipotesi teoriche avanzate a sostegno del recupero funzionale del sistema nervoso
centrale possono essere schematicamente raccolte in due gruppi che identificano due tipi
generali di recupero. Il primo tipo è definito dal termine recupero compensatorio o adattivo,
secondo il quale la funzione non è sostituita, ma solo compensata. I cambiamenti
comportamentali dopo un danno cerebrale, quindi, includono non solo le difficoltà ridotte dal
danno, ma anche i cambiamenti nel comportamento che un individuo sviluppa allo scopo di
compensare tali difficoltà. Le varie tecniche terapeutiche utilizzate mirano ad addestrare e a
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far acquisire una serie di abilità e di competenze, in grado di compensare le menomazioni
motorie dell‟emicorpo leso.
Il secondo tipo di recupero, comunemente definito come intrinseco, da molti ritenuto il vero
recupero, è caratterizzato dalla possibilità di riottenere un controllo nervoso sugli arti
paralizzati e di permettere il ripristino di una motricità funzionalmente utile. Secondo alcuni
studiosi non esiste mai la restaurazione della funzione, ma modificazioni di adattamento tali
che la funzione non venga più eseguita secondo la stessa strategia, utilizzando gli stessi
identici circuiti neuronali, ma attraverso strutture diverse, alternative, al fine di assicurare
prioritariamente le funzioni più importanti dell‟organismo.
Per realizzarsi, entrambi i tipi di recupero indicati necessitano di modificazioni all‟interno del
sistema nervoso centrale e dell‟attivazione dei processi di apprendimento.
Uno studio condotto su alcuni pazienti colpiti da un tumore cerebrale nelle aree di controllo
del movimento della mano ha evidenziato che, nonostante il danno, tutti avevano ottenuto un
discreto recupero. I ricercatori evidenziarono che quando i pazienti muovevano le dita si
attivavano aree dei centri motori che normalmente davano istruzioni a parti del corpo
completamente diverse. Addirittura in alcuni di questi soggetti aree cerebrali totalmente al di
fuori di quelle motorie si attivavano e sembravano presiedere ai movimenti delle dita. È
questo il caso di una riorganizzazione su larga scala del sistema di connessioni neuronali.
L‟agire riabilitativo può influire positivamente su un già presente recupero fisiologico per
sostituire le aree lese con strutture nuove e/o per creare un nuovo assetto con un
rimodellamento delle strutture preesistenti. Il compito della riabilitazione neurologica,
dunque, è quello di aiutare il sistema nervoso leso a riorganizzarsi anche se a volte la
riabilitazione spontanea non è sufficiente e, abbandonata a se stessa, potrebbe anche
allontanare il paziente dalla abilità, anziché avvicinarlo.
È necessario, quindi, superare definitivamente il dualismo corpo-mente e considerare
nell‟esercizio terapeutico l‟impiego delle cosiddette funzioni corticali superiori quali
l‟attenzione, la memoria, l‟intenzionalità e la percezione.
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II.7 Le basi dell’apprendimento motorio
L‟uomo attraverso il movimento adatta l‟ambiente in cui vive e contemporaneamente si adatta
ad esso. Ma se è vero che un movimento armonico presuppone una corretta percezione, è
altrettanto vero che una percezione adeguata può essere realizzata solo attraverso l‟esecuzione
di un perfetto orientamento dei meccanismi percettivi.
L‟atto motorio è pregiudizialmente selezionato in relazione alle caratteristiche dell‟oggetto ed
alle informazioni percettive che si vogliono raccogliere (la mano che viene toccata e punta, ad
esempio da un ago, è diversa dalla mano che tocca per esplorare e riconoscere caratteristiche
tipiche di un oggetto).
Un‟adeguata raccolta di conoscenze presuppone pertanto l‟esecuzione di un corretto
movimento, laddove percezione e movimento sono caratteristiche dello stesso processo.
E‟ fondamentale che gli schemi del movimento siano immagazzinati su determinati circuiti
cerebrali che comandano il sistema motorio al fine di attuare appropriate posizioni spaziali in
una determinata sequenza temporale: l‟area premotoria frontale e le zone posteriori appaiono
impegnate nell‟ideazione e progettazione del gesto, mentre quelle anteriori nella sua
esecuzione. E‟ inoltre necessaria una continuità tra le vie che collegano le aree sensitivo-
sensoriali, dove viene formulato il progetto cinetico, e quelle motorie, dove l‟atto viene
realizzato.
Le nostre possibilità motorie sono saldate a due tipi di motilità, volontaria e/o
semiautomatica. Pertanto alcune prassie sequenze motorie ancora “volontarie” negli atti
iniziali, diventano poi prassie specializzate semiautomatiche o automatiche quando la
ripetitività del gesto (per un ordine di grandezza di oltre 300.000 ripetizioni) ne migliora
l‟apprendimento nel tempo.
Il progetto di movimento viene inizialmente elaborato a livello delle regioni della corteccia
dell‟emisfero dominante, da qui, attraverso vari circuiti associativi, viene trasmesso alle zone
motorie più anteriori della corteccia donde va proiettato quale prassia cinetica. Il
monitoraggio dell‟attività cinetica, quando appreso ed automatizzato quale prassia
specializzata, spetta invece all‟emisfero minore che ha, tra gli altri, il compito di seguire con
una attenzione diffusa la corretta esecuzione spaziale e temporale degli atti motori.
Infine, i processi che portano ad un movimento compiuto possono quindi essere sintetizzati in
tre momenti:
identificazione dell‟obbiettivo e finalità;
svolgimento del programma cinetico;
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pianificazione e produzione del movimento;
II.8 Dispositivi utilizzati in fMRI per lo studio delle attivazioni cerebrali
La risonanza magnetica funzionale è una tecnica talmente recente che solo negli ultimi anni si
sono sviluppati dispositivi a livello prototipale per lo studio delle attivazioni cerebrali. In
questi paragrafi sono stati raccolte e analizzate alcune di queste apparecchiature, progettate
con la speranza di riuscire in futuro a ripristinare le funzionalità neurologiche perdute su
pazienti che hanno subito danni cerebrali.
II.8.1 Sensore di forza MRI compatibile per i movimenti del polso
La capacità di controllare e di misurare la forza esercitata dagli individui durante le analisi di
risonanza magnetica funzionale fornirebbe ai ricercatori e ai medici un maggiore controllo e
standardizzazione dell‟operazione e potrebbe migliorare la ripetibilità e l‟accuratezza negli
studi di neuroplastici.
Durante l‟analisi fMRI e la formazione dell‟immagine, non esistono mansioni standardizzate,
ampiamente accettate, da fare eseguire al paziente. Il monitoraggio della forza, tuttavia, può
essere generalizzato secondo una percentuale di sforzo massimo. Ciò è estremamente
importante in un confronto di plasticità neuronale fra vari soggetti per una migliore
valutazione delle modalità terapeutiche.
Sfortunatamente oggigiorno non esistono sistemi di misurazione della forza disponibili in
commercio che possono misurare unicamente le forze applicate dalla mano dell‟individuo e i
relativi momenti generati dal polso; avere quindi un dispositivo che possa controllare tutte
queste variabili in tempo reale e visualizzarle lungo assi particolari potrebbe essere usato
durante gli esami di “target matching” (letteralmente “corrispondenza dell‟obbiettivo”).
E‟ stato sviluppato dalla JR3 di Woodland un modulo MRI compatibile adatto a misurare
forze e momenti generati dal polso mentre simultaneamente viene effettuata l‟esplorazione del
cervello mediante tecnica fMRI. Una cella di carico, in materiale amagnetico, a sei assi
misura la forza esercitata su apposite maniglie di plastica.
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Fig. 2.7 Modulo MRI compatibile per il polso
La cella di carico e la maniglia sono montate su un cuneo di plastica in maniera tale che, con
paziente in posizione supina, il gomito sia flesso a 30°. Piccole scanalature su un foglio di
polietilene permettono l‟ancoraggio del sistema. Quattro respingenti imbottiti e registrabili
stabilizzano e bloccano l‟avambraccio anteriore contro la maniglia.
Alle analisi di prova hanno partecipato individui adulti, collocati insieme al dispositivo in
camera di risonanza magnetica.
I segnali della cella di carico e l‟alimentazione del sensore sono stati trasferiti dalla stanza del
dispositivo alla sala di controllo attraverso un pannello isolante. I segnali, letti da un
calcolatore tramite un modulo elettronico, sono filtrati a 60 Hz prima di essere campionati a
500 Hz.
Una rappresentazione di come il paziente sia fissato al dispositivo e visibile in figura 2.8