1 - Cosa significa “F-ZERO”?
Il nome scelto per denominare quest’opera è un po’ elaborato, ma
importante per chiarire il valore dei contenuti proposti. Considerato
l’argomento, cioè le corse di Formula 1, e la mia città natale,
Modena, il richiamo alle vetture Ferrari è immediato. Dalla stagione
2000, a Maranello, usano battezzare la vettura iscritta al campionato
componendo la lettera “F”, iniziale dell’azienda, col numero
dell’anno in corso.
Allo stesso modo ho voluto procedere io, intendendo con “F” la
categoria Formula 1, e indicando con “Zero” l’inizio di una nuova
epoca, ricca, mi auguro, delle inedite frontiere progettuali che si
potrebbero delineare con le riforme da me suggerite.
“F-Zero” può, così, essere letto come “Formula 1 – Anno Zero”.
2 - Progettisti e regolamenti
Il mondo della Formula 1 è terribilmente complicato, sconvolto
dall’ossessiva ricerca dell’apice tecnologico e dagli enormi interessi
che gravitano attorno alle competizioni.
Anno dopo anno, infatti, le norme che vincolano i progettisti sono
diventate sempre piø restrittive, così che la lotta per il dominio della
categoria è diventato esclusivo appannaggio dei costruttori piø
importanti al Mondo. ¨ finita l’era dei pionieri o degli avventurosi
temerari che, con un paio di idee coraggiose e un motore
convenzionale riuscivano a schierare vetture dignitose. Oggi, le auto
da Gran Premio sono concepite con criteri affini a quelli dell’industria
aerospaziale, dove i materiali costano cifre impressionanti, le
componenti elettroniche sono costantemente aggiornate, mentre il
tempo e le risorse (umane e finanziarie) per la ricerca non bastano
mai.
L’essenza delle prestazioni di una vettura si trova in un difficile
compromesso fra innumerevoli fattori, ognuno portato allo
sfruttamento estremo: l’intuito dell’uomo è ancora determinante, e lo
sarà per sempre, ma ogni piø elementare invenzione deve superare
un tormentato processo di calcolo, simulazione e sperimentazione
affinchØ possa esprimersi al meglio e, soprattutto, in armonia con
l’insieme.
Il margine di errore concesso è davvero esiguo, tutto viaggia sul
filo del rasoio. Basti pensare che un solo decimo di millimetro di
variazione dell’altezza da terra della vettura può trasformare il suo
comportamento dinamico. Ma questo è soltanto il piø banale degli
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esempi: tutte le soluzioni e i materiali utilizzati, per validi che siano,
non bastano, perchØ bisogna pensare immediatamente fino a quale
limite possano essere impiegati. Solo così diventano legittime le
ambizioni di schierare vetture competitive.
Motore, trasmissione, sterzo, aerodinamica, freni, sospensioni,
gomme… tutto deve funzionare alla perfezione, pena la sconfitta o,
peggio, conseguenze terribili per il pilota. Quando si esplorano
frontiere nuove e ci si spinge alle frontiere della fisica, l’errore o il
guasto, seppur lievi, possono comportare un prezzo davvero salato
da pagare.
I progettisti hanno sempre spremuto la propria creatività per
arrivare dove nessuno era giunto prima, ma non sempre le loro
trovate si sono conciliate con la sicurezza. Le prestazioni
aumentano, e con esse lo spettacolo di una tecnologia vincente; se
non capitano episodi gravi per lungo tempo, i timori si attenuano e ci
si convince di aver imboccato una strada buona; a rendere piø
stabile la situazione interviene il Potere Sportivo, condizionato dagli
introiti derivanti dalle sponsorizzazioni e dal consenso del pubblico.
Si vive in una sorta di torpore, assuefatti dalla fortuna e cullati dai
guadagni, fino a quando non capita la doccia fredda, e di questi
avvenimenti la storia delle corse ne è costellata, anche quella piø
recente.
I vincoli imposti ai progettisti nel concepire le vetture sono,
dunque, conseguenza di numerosi eventi e di strategie per
condizionare la dinamica delle corse agli occhi degli spettatori.
Le stagioni sportive degli anni 1983, 1989 e 1994 saranno
ricordate per importanti svolte epocali che hanno determinato
nell’evoluzione dei regolamenti sportivi. La prima fu l’abolizione
dell’effetto suolo, una pericolosa esasperazione aerodinamica
ottenuta profilando le scocche delle monoposto come vere e proprie
superfici alari, e avvalendosi di sottili bandelle laterali (le famose
“minigonne”) per far scorrere senza dispersioni l’aria sotto le
monoposto, in modo da creare una forza verticale che comprimeva
l’auto sulla pista con efficacia proporzionale alla velocità. Era
persino divenuto superfluo l’alettone anteriore, abbattendo le
dispersioni di potenza dovute agli attriti delle sue superfici. Una
trovata geniale e indubbiamente produttiva, ma assai critica da
gestire, perchØ rendeva l’assetto alquanto sensibile alle
sollecitazioni esterne, fino al pericolo estremo in caso di “aggancio”
fra le vetture. Mi riferisco a quando una delle due ruote anteriori
urta, o sfiora appena, una posteriore dell’auto che precede: la
monoposto che tampona viene trascinata verso l’alto. Ma quando
ciò succede ad alta velocità, assieme alla piena azione
aerodinamica, aumenta improvvisamente lo spessore d’aria tra
asfalto e macchina, provocando il decollo di questa. Ricordiamo la
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dinamica del fatale incidente di Gilles Villeneuve a Zolder, oppure un
altro episodio, accaduto al vecchio Nürburgring, di cui ricordo solo la
dinamica, fortunatamente conclusosi con pilota miracolosamente
incolume. In quel caso, le sospensioni della vettura erano state
impostate per adattarsi alle numerose sconnessioni ed al terribile
alternarsi di dossi e avvallamenti del lunghissimo tracciato. Ebbene,
bastò un sobbalzo piø accentuato per far alzare in volo l’auto: uno
spettacolo sconcertante, che strozza il fiato e lascia senza parole.
Scorrendo l’attuale testo del regolamento sportivo, troviamo
l’articolo che piø rappresenta lo spirito della riforma del 1983. Esso
sarà ribadito anche piø avanti, proprio a causa della sua importanza,
ma iniziamo ora a leggerlo con piø profondità. Ecco il comma 1 del
paragrafo 12 del terzo articolo e lo riporto testualmente:
«Tutte le parti sospese, poste a piø di 330 mm dietro l’asse
anteriore e a piø di 330 mm davanti l’asse posteriore, visibili da
sotto, devono formare superfici che stanno su uno di due piani
paralleli, o quello di riferimento, o quello scalinato. Ciò non vale per
la porzione visibile degli specchietti retrovisori, a condizione che
ciascuna di queste due aree non superi i 9.000 mm
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quando
proiettata a terra.»
Lo ripeto in altri termini. Il fondo della vettura non è
uniformemente piano, ma percorso da uno scalino longitudinale, alto
5 centimetri e largo da un minimo di 30 a un massimo di 50,
simmetrico rispetto all’asse centrale della scocca. Si tratta di un
importante ostacolo alla ricerca dell’effetto suolo ed è rivestito da un
pattino di legno altrettanto lungo e largo 30 cm, necessario a
impedire l’avvicinamento a terra della macchina oltre un certo limite:
infatti, se l’attrito con l’asfalto consuma il legno piø di quanto
consentito, il concorrente viene squalificato! Il fondo dell’auto si
chiama “piano di riferimento”, perchØ serve come base per verificare
la conformità in altezza di ogni profilo. Tutte le componenti
aerodinamiche della macchina non possono avvicinarsi a terra oltre
questo livello. La proiezione a terra di qualsiasi elemento del corpo
vettura deve essere coperta o dalla superficie inferiore del fondo
scalinato, o da quella del piano di riferimento. In sØ, la regola può
apparire abbastanza goffa e burocratica, ma rappresenta il miglior
ostacolo finora ideato per arginare il piø possibile l’inventiva dei
tecnici in materia di aerodinamica. Non essendo possibile prevedere
ogni loro mossa, si è ideata una norma che determina alcuni
inevitabili paradossi: ad esempio, se l’ombra a terra di un retrovisore
supera i 9.000 mm
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, il piano di riferimento dovrà sporgere quanto
basta per coprire tutta questa proiezione. ¨ fin troppo evidente che
uno specchietto non potrà mai convogliare aria sotto al fondo della
vettura per incrementarne la deportanza, ma si tratta di un caso
limite dovuto a un provvedimento che argina al meglio ogni
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acrobazia creativa volta ad accelerare la velocità dell’aria tra la zona
inferiore della monoposto e il terreno.
Non è vero che oggi le auto di Formula 1 siano prive di effetto
suolo, ma è chiaro che piø di tanto non è possibile fare, quindi il
regolamento è, dopo quasi vent’anni, ancora efficace. Non tutti sono
convinti della validità di questa norma, però abolirla o riscriverla in
una forma piø permissiva potrebbe determinare la costruzione di
macchine difficili da gestire, dunque molto pericolose, proprio
perchØ dominate da un’aerodinamica sostanzialmente indefinita e
solo occasionalmente davvero produttiva.
Il 1989 è noto per essere l’anno dell’abolizione dei
turbocompressori, un passo importante nella sicurezza e nel
contenimento delle prestazioni dei motori, dopo gli incredibili valori
di potenza specifica raggiunti, nell’ordine di 1 CV/cm
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! Considerate
le cilindrate, di 1.5 litri, ancora non si riesce a immaginare la
difficoltà del pilota a gestire una così dirompente forza motrice…
Fu decretato, così, il passaggio ad alimentazione atmosferica, con
aumento della cilindrata fino a 3.5 litri.
Il 1994 rimarrà impresso nella storia come uno degli anni piø
drammatici, dominato da profonde emozioni, capaci di soffocare
ogni lucida razionalità. Esso fu preceduto da lunghi dibattiti sulla
dinamica che avrebbero preso le corse, in seguito al ritorno dei
rifornimenti e ad una politica piø repressiva nei confronti degli
automatismi elettronici, dalle sospensioni attive ai controlli della
trazione. Si diffuse la paura per nuovi pericoli, dagli incendi per
fughe di benzina alle conseguenze di errori umani, dovuti a piloti
chiamati a guidare vetture sempre piø potenti e veloci, ma anche piø
povere di quei meccanismi che sopperiscono alla difficoltà dell’uomo
di sincronizzarsi con sollecitazioni così rapide e violente.
In un solo fine settimana, ad Imola, ne capitarono di tutti i colori:
mancò soltanto il fuoco. Barrichello uscì alla variante prima del
traguardo, perdendo il controllo della propria Jordan; fu
impressionante la facilità con cui la macchina trasformò il cordolo in
un trampolino da cui di alzò a un metro da terra per schiantarsi
rovinosamente contro le protezioni di gomma. Il pilota ne uscì con
un braccio fratturato e tanta paura. Sabato e Domenica, due
incidenti mortali coinvolsero gli estremi della Formula 1,
pareggiando ogni disuguaglianza. Dapprima, lo sconosciuto pilota
Roland Ratzenberger, in forza alla piccola e povera scuderia
Simtek, perse il controllo dell’auto alla frenata della curva
Villeneuve, perchØ si ruppe l’ala anteriore, causando un improvviso
alleggerimento sull’avantreno di quasi 300 Kg. La macchina uscì ad
oltre 310 Km/h e lo schianto contro il muro di cemento, dopo una
breve via di fuga, uccise quasi sul colpo il povero pilota. Il giorno
dopo toccò alla blasonata Williams-Renault, guidata dal super
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campione brasiliano Ayrton Senna. Alla velocissima curva del
Tamburello, cedette improvvisamente il piantone di collegamento fra
il volante e la scatola dello sterzo; il pilota frenò disperatamente, ma
colpì il muro quando viaggiava ancora a piø di 180 Km/h e le
concitate operazioni di soccorso si dimostrarono una drammatica,
quanto inutile, formalità.
Poco prima, una collisione alla partenza aveva sparato in tribuna
micidiali detriti delle automobili coinvolte. Numerosi spettatori
rimasero feriti, uno dei quali molto gravemente. Quando la corsa
riprese, mentre si sperava che il grande Senna vincesse,
all’ospedale, la sua battaglia piø importante, la Minardi di Michele
Alboreto perse la ruota posteriore destra mentre lasciava i box, in
piena accelerazione. Il pneumatico falciò parte della squadra Ferrari
e il piø grave dei meccanici fu proprio mio cugino Daniele, colpito in
pieno petto e ricoverato d’urgenza per accertamenti radiografici. Per
fortuna, si trattò solo di una misura cautelativa.
A Montecarlo, due settimane dopo, durante le qualificazioni, Karl
Wendlinger distrusse la propria Sauber all’uscita del tunnel e ne fu
estratto in condizioni disperate. Rimase in regime di coma artificiale
per oltre un mese, a causa di un edema cerebrale; la convalescenza
fu lunga e riprese a correre, ma in altre categorie.
Durante una sessione di prove private, a Barcellona, Andrea
Montermini, ingaggiato dalla Simtek, uscì in piena velocità lungo il
rettilineo. L’incidente fu davvero spaventoso, ma le conseguenze sul
pilota furono, tutto sommato, lievi.
Da quella stagione iniziò una profonda revisione della Formula 1,
rendendo, ad esempio, piø severe le prove di resistenza strutturale
delle vetture, introducendo il limite di velocità nella corsia dei box e
riducendo la cilindrata a 3 litri. Una spronata decisiva alla ricerca di
maggior sicurezza giunse, però, solo al termine del 1995, quando la
McLaren di Hakkinen si schiantò ad Adelaide e anche in quel caso
seguì un periodo di coma artificiale per il pilota. Un quadro clinico
simile a quello di Wendlinger, ma meno grave, tant’è vero che il
finlandese si ripresentò al volante già nel 1996.
Gli abitacoli sono, da allora, divenuti piø avvolgenti e robusti, ma
ancora subentrano cambiamenti di anno di anno, perchØ si
comprende come la ricerca della sicurezza possa sempre
migliorare.
¨ innegabile che tanti precedenti abbiano imposto riflessioni ai
detentori del potere sportivo, chiamati, assieme ai costruttori, a
deliberare vincoli progettuali volti a restituire dignità a un mondo
delle corse che stava ormai naufragando, ma che ancora oggi non
ha fugato tutte le perplessità.