Stato sociale) ossia, riprendendo Wilensky
1
, quell’insieme delle garanzie e degli
interventi forniti dal governo per assicurare standard minimi di reddito, alimentazione,
salute, alloggio e istruzione ad ogni cittadino come “diritto sociale
2
” e non come
carità. In tale modello “statuale”, la politica sociale coincide con le azioni del sistema
politico-amministrativo, nelle sue varie fasi, dalla legislazione, alla gestione e
implementazione dei programmi pubblici.
Nella moderna concezione di politica sociale lo Stato, da unico gestore delle
politiche pubbliche, assume una funzione di indirizzo, di coordinamento e mediazione.
Di conseguenza, gli attori della politica sociale sono, oltre ai governi, tutte quelle
organizzazioni e soggetti sociali che si occupano del benessere della popolazione.
Infatti, occorre considerare che il benessere della popolazione non dipende unicamente
dalle azioni dello Stato, ma anche da quelle delle principali istituzioni sociali,
economiche in senso lato, culturali, scientifiche, produttive, di privato sociale, ossia
aspetti che riguardano la società civile delle aree geografiche considerate.
Da modello “statuale” si passa a quello “societario” il quale amplia e integra i tre settori
classici del welfare (occupazionale, fiscale e dei servizi sociali), con le iniziative svolte
negli altri settori (non-pubblici), come il terzo settore e le reti informali
3
.
Per politica sociale intenderemo in questo elaborato quel complesso di norme,
attività, interventi, socialmente mirati e strutturati, aventi per oggetto il raggiungimento
e la tutela del benessere e della sicurezza dei cittadini mediante risposte adeguate ai
bisogni da questi manifestati, o latenti, nella prospettiva dell’equilibrio dei rapporti
1
Wilensky, H. (1980), Neocorporativismo, accentramento e stato assistenziale, Cappelli, Bologna, citato
in Donati, P., a cura di (1993), Fondamenti di politica sociale-Teorie e modelli, NIS, RM, pag. 20.
2
Anche detti diritti di cittadinanza, “riguardano il pieno esercizio di tutti gli altri diritti che consentono ai
soggetti, individuali e collettivi, la piena autonomia della propria vita e del personale progetto di felicità,
l’opportunità di partecipare alla vita associata e civile e il diritto-dovere di contribuire alla crescita della
qualità della vita”. Ci riferiamo a Rizza, S., (1997), La città e i cittadini, Centro Studi Cammarata, S.
Cataldo (CL), p. 42.
3
Donati, P., a cura di (1993), op. cit, pag.31-.
sociali, in funzione del conseguimento degli obiettivi più generali della società espressi
dai gruppi organizzati che di questa sono connotazione intrinseca ed espressione
estrinseca
4
.
Nel primo capitolo parleremo del Trattato di Amsterdam sottoscritto nel 1997
dai Paesi membri dell’Unione europea, nonché del successivo Consiglio di
Lussemburgo, grazie a cui gli interventi per l’occupazione sono inseriti formalmente tra
le priorità dell’azione comunitaria.
A partire dal 1998, gli Stati membri sono chiamati a programmare annualmente misure
di lotta alla disoccupazione in linea con gli Orientamenti indicati a livello comunitario, e
a darne conto alla Commissione europea la quale valuta le attività svolte ed i risultati
conseguiti.
Parleremo altresì dei Fondi strutturali, quegli strumenti finanziari di cui si avvale
l’Unione europea allo scopo di raggiungere l’obiettivo di coesione economica e sociale.
In particolare, ci soffermeremo su uno di essi, il Fondo sociale europeo, nato nel 1958
per migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori all’interno del mercato
comune, ripercorrendone l’evoluzione fino alla riforma dei Fondi strutturali del 1993.
Nel secondo capitolo tratteremo dell’Iniziativa Comunitaria Occupazione,
inserita nel periodo di programmazione degli interventi finanziati dai Fondi strutturali
1994-1999 e cofinanziata dal Fondo sociale europeo, la quale ha inteso contribuire allo
sviluppo delle risorse umane migliorando le prospettive occupazionali delle categorie
considerate a rischio di esclusione dal mercato del lavoro.
4
Definizione in AA.VV. (1993), Il servizio sociale come processo d’aiuto, FrancoAngeli, MI.
Vedremo come tale Iniziativa rientra in pieno in quella che è la Strategia europea per
l’occupazione avviata nel 1997, la quale sottolinea la necessità di favorire, nelle
politiche del lavoro, il passaggio da misure passive a misure attive. Queste ultime sono
volte non tanto a garantire l’erogazione di sussidi sociali, quanto piuttosto a migliorare
la capacità di auto-orientamento e di attivazione sul mercato da parte dei singoli
individui.
Nei progetti Occupazione italiani, tale Strategia si è realizzata attraverso il recupero
della centralità dell’utente svantaggiato come risorsa su cui investire. Le misure attive
volte a innalzare l’occupabilità dei gruppi svantaggiati operando una loro attenta
graduazione in relazione alla tipologia di svantaggio e alle caratteristiche dei territori
interessati, si sono concretizzate operativamente in azioni pluridimensionali
(orientamento, formazione, inserimento lavorativo ecc.) il cui grado di efficacia dipende
sia dalla capacità di proporre percorsi di integrazione fra i sistemi educativo, formativo
e del lavoro, sia dal coinvolgimento di un’ampia rete di attori e servizi locali.
Il carattere preventivo delle azioni progettuali, correlato alla forte personalizzazione
degli interventi, hanno anticipato e aggiunto elementi significativi ai provvedimenti di
riforma in fase di avvio in sede nazionale e locale.
Proprio nel terzo capitolo vedremo come da qualche anno l’Italia stia attuando
un processo di riforma delle politiche del lavoro, della formazione e delle politiche
sociali.
In questo clima di intensa effervescenza legislativa, grande rilevanza è data all’aumento
delle opportunità professionali per i gruppi sociali che incontrano maggiori difficoltà di
inserimento nel lavoro ed all’integrazione di azioni sia dal lato della domanda che
dell’offerta di lavoro. Si attribuisce altresì un ruolo significativo al miglior
funzionamento del sistema sociale e lavorativo, alla riforma e modernizzazione del
sistema dell’istruzione, della formazione professionale, della ricerca e del trasferimento
tecnologico in una logica di sviluppo e di governo integrato delle sue componenti.
Come non vedere analogie tra i percorsi integrati di accesso al lavoro per le
utenze svantaggiate nei progetti Occupazione e le nuove modalità di intervento
all’interno della riforma dei Servizi pubblici per l’impiego; e tra la personalizzazione
degli interventi e la nuova normativa sul diritto al lavoro dei portatori di handicap? Il
Dlgs 469/97 che regola la nuova architettura dei Servizi pubblici per l’impiego in Italia,
sottolinea l’importanza del radicamento sul territorio dei servizi erogati attraverso il
decentramento alle Regioni e agli enti locali delle funzioni e dei compiti in materia di
mercato del lavoro ed il coinvolgimento degli attori, con particolare riferimento alle
parti sociali.
Inoltre, sempre in Occupazione, l’inserimento delle fasce sociali deboli oggetto
di intervento nei nuovi bacini di impiego ha avuto luogo essenzialmente attraverso la
creazione di imprese sociali e, perciò, si allaccia al mondo del terzo settore in Italia ed al
ruolo importante che svolge nel ridisegno del welfare. In tutti questi cambiamenti in
atto, la parola chiave diventa integrazione, concetto centrale nell’ambito della legge
quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali
(L.328/2000).
Nella seconda parte del terzo capitolo, accenneremo alla situazione del mercato
del lavoro in Italia che, alla fine degli anni’90, risulta caratterizzata dalla crescita dei
tempi di inserimento lavorativo.
La prolungata esclusione dal mercato del lavoro aumenta il rischio di esclusione sociale
e delinea la figura dell’inoccupato di lunga durata.
Vedremo come la povertà rappresenti un fenomeno cumulativo e multidimensionale nel
senso che, all’insufficienza del reddito, si accompagnano carenze di altre risorse,
dall’istruzione all’accesso ad altri servizi pubblici e privati, mettendo in moto il “circolo
vizioso della povertà”.
Oggi, concetti quali emarginazione e povertà che una volta si pensavano circoscritte ai
barboni ed a una limitata fascia di anziani con difficoltà economiche, si sono ampliati
fino ad includere una serie di condizioni oggettive e percezioni soggettive che
attraversano orizzontalmente le tradizionali divisioni interne alla società, coinvolgendo
classi, status e ruoli differenziati.
In questo senso, la povertà può essere letta come uno stato o momento in cui individui
e/o gruppi sociali vengono a trovarsi poveri. Essa diventa una condizione temporanea di
mancanza di risorse la quale può essere superata con un intervento anch’esso
temporaneo.
E l’introduzione del Reddito minimo di inserimento in Italia, sostenuto dalla
Commissione europea ed il cui ruolo è stato rafforzato dalla legge-quadro 328/2000, è
un esempio del passaggio da interventi passivi ad attivi all’interno di un percorso
integrato.
Nel momento dell’avvio dei progetti Occupazione nel 1994 il soggetto
svantaggiato era considerato un individuo incapace di inserirsi nei circuiti professionali
e, perciò, si studiavano strumenti che gli consentissero di diminuire lo scarto di
competitività tra lui ed i soggetti più forti. Successivamente, grazie anche a riflessioni
emerse nell’ambito dell’Iniziativa Occupazione, il mancato inserimento socio-
professionale è stato attribuito all’incapacità del sistema di includere tutti gli individui
lasciando fuori da esso quelli meno dotati di strumenti di autoaffermazione.
Nel capitolo conclusivo, il quarto capitolo, presenteremo la nuova Iniziativa
comunitaria Equal 2000-2006, la quale interviene proprio sui sistemi in quanto
generatori di disuguaglianze che rischiano di trasformarsi in discriminazione. In tale
contesto risulta evidente come il legame tra politiche del lavoro e politiche sociali sia un
fattore strategico di successo di una programmazione che ambisca a risolvere i problemi
di inserimento occupazionale dei soggetti appartenenti alle fasce deboli.
Attraverso la costituzione di una rete di attori locali appartenenti a diversi livelli
istituzionali, ossia pubblico, privato e terzo settore, sostenuta in sede europea, si intende
coniugare crescita economica e competitività del mercato senza accrescere il divario e la
relativa marginalizzazione sociale delle fasce più svantaggiate, in modo da garantire un
equilibrio nella disponibilità delle risorse.
CAPITOLO I
UNIONE EUROPEA E POLITICHE SOCIALI
Introduzione
Fin dalla sua costituzione nel 1957, quella che allora si chiamava Comunità
Economica Europea si è prefissa l’obiettivo di sostenere uno sviluppo armonioso ed
equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione
continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido
del tenore di vita e più strette relazioni fra gli stati che a essa partecipano
5
.
Uno dei cardini fondamentali su cui, allora come oggi, si basa la politica della
CEE
6
è la realizzazione di un generale “programma” di promozione del benessere delle
popolazioni europee.
Il Trattato di Roma
7
conteneva pochi articoli che riguardavano in modo specifico
la politica sociale, nozione che si riferisce al complesso delle misure volte a migliorare
le condizioni di vita e di lavoro delle persone o, citando Donati
8
, quella parte della
politica generale che ha come specifico compito la promozione del benessere
economico e sociale della popolazione. E non c’è dubbio che attività economica e
benessere della persona trovano nel lavoro, per il bene e per il male, un punto nodale
9
.
5
Articolo 2 del Trattato CEE.
6
Diventata Unione europea in seguito al Trattato di Maastricht del 10.12.1991.
7
Fu firmato dai sei paesi fondatori della CEE (Belgio, Repubblica federale di Germania, Francia, Italia,
Lussemburgo e Paesi Bassi) il 25 marzo del 1957.
8
Donati, P. a cura di, (1993), op. cit.
9
Rizza, S. (1997), op. cit.
La sicurezza dell’occupazione è stata storicamente e tradizionalmente una delle
premesse più forti del Welfare State
10
, creato per venire incontro alle esigenze dei
lavoratori
11
.
Il lavoro costituiva la garanzia della sicurezza sociale propria e dei propri familiari.
I primi segnali odierni di difficoltà dello Stato sociale sono ravvisabili nel
mancato mantenimento della promessa della garanzia universale e permanente di
un’occupazione
12
e nell’impossibilità di soddisfare una domanda crescente di nuovi
interventi per nuovi bisogni.
Nel rapporto tra lavoro e sistema di Welfare la scommessa è che quest’ultimo, ridefinito
e riorganizzato, possa rappresentare un motivo per la soluzione della crisi del lavoro e
un fattore sinergico per la crescita comune di ambedue i sottosistemi
13
.
Le politiche del lavoro, ossia, citando Frey
14
, tutti gli interventi degli organi
pubblici in materia di lavoro e dell’occupazione, diventano perciò un luogo cruciale per
l’edificazione di un nuovo sistema di Welfare, non solo perché la drammatica questione
occupazionale mette a rischio la coesione sociale delle società sviluppate, ma anche per
la possibilità di introdurre elementi innovativi rispetto alle concezioni tradizionali delle
politiche sociali: tendenziale personalizzazione degli interventi; ricerca di soluzioni
locali e mirate; coinvolgimento di una pluralità di attori, oltre alle istituzioni pubbliche,
in una logica di collegamento tra gli interventi e di programmazione negoziata;
attivazione e responsabilizzazione dei beneficiari; focalizzazione sulla dimensione
promozionale invece che garantista e imperniata su provvedimenti assistenziali fini a se
10
Ferrera, M. (a cura di) (1981), Lo stato del benessere: una crisi senza uscita?, Le Monnier, FI.
11
Rizza, S., op. cit.
12
Saiani Parra, P., “Quale valutazione per le politiche attive del lavoro” in AAVV (a cura di Franchi M. e
Palumbo M.) (2000), La valutazione delle politiche del lavoro e della formazione, FrancoAngeli, MI.
13
Rizza, S., op. cit.
14
Frey, L. (1996), Le politiche dell’occupazione e del lavoro in Europa, FrancoAngeli, MI, p.39.
stessi
15
. In sostituzione del Welfare della protezione passiva che viene dal passato
emerge ciò che Paci (1997) definisce il “Welfare delle opportunità” i cui capisaldi
dovrebbero essere rappresentati oltre che dall’istruzione, dalla formazione professionale
e dalle politiche attive del lavoro
16
.
Emerge altresì l’esigenza di combattere la disoccupazione e l’esclusione sociale
“armando” il cittadino delle competenze necessarie per inserirsi nel mercato del lavoro,
per rimanerci ed eventualmente rientrarvi. Si tratta di investire nel capitale umano,
modalità che il sociologo Giddens
17
preferisce a sostegni economici diretti agli individui
i quali si dovrebbero collocare in un continuum di interventi dove si mescolano i
caratteri di politica attiva e passiva
18
.
Negli anni ’90 l’Unione europea, preso atto della grave situazione
dell’occupazione nei Paesi membri, pone le basi per una Strategia europea per
l’occupazione in cui le politiche attive del lavoro rivestono un ruolo cardine.
L’integrazione economica e sociale auspicata fin dalla sua costituzione non si
sarebbe mai potuta attuare se non si fosse risolto prima di tutto il problema
15
Ambrosini, M., “Frammenti di risposta: verso nuove politiche sociali e occupazionali” in AAVV, (a
cura di Franchi M. e Palumbo M.) (2000), La valutazione delle politiche del lavoro e della formazione,
FrancoAngeli, MI.
16
Frey, L., op. cit., che definisce così le politiche attive: sussidi all’occupazione, creazione di lavoro nel
settore pubblico, formazione professionale, sostegno finanziario e reale per la nuova imprenditorialità.
Esse sono messe in azione dai governi (policy makers), allo scopo di rispondere alle specifiche esigenze
del mercato del lavoro e influiscono sulla composizione dell’offerta; politiche passive: le strategie di
assicurazione contro la disoccupazione, nell’ambito di politiche economiche e sociali che tendono a darsi
sempre più carico delle conseguenze della problematica di disoccupazione /sottoccupazione riconducibile
all’imperfetto funzionamento dei meccanismi di mercato, possono essere considerate la prima forma di
intervento pubblico “non strutturale” ipotizzata e sperimentata in favore dei lavoratori. Si chiamano
passive in quanto non sarebbero introdotte per incidere sulle cause della problematica occupazionale,
bensì per correggere a posteriori le conseguenze di essa.
17
Giddens, A. (1999), La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, trad.it. Il
Saggiatore, MI citato in Ambrosini, M., op.cit.
18
Saiani Parra, P., op. cit. L’autore fa riferimento all’analisi della Commissione di Indagine sulla povertà
e emarginazione 1997.
dell’occupazione. La Strategia europea per l’occupazione invita a spostare le risorse
dalle tradizionali politiche di assistenza ai disoccupati a interventi concreti di
promozione all’accesso o al rientro nel mondo del lavoro.
1. Le politiche europee in materia di occupazione
1.1 Il Trattato di Amsterdam
Il Trattato di Amsterdam sottoscritto il 2 ottobre 1997 e ratificato il primo
maggio 1999, modifica, come indica il titolo stesso, sia il trattato sull’Unione europea,
sottoscritto a Maastricht il 7 febbraio 1992 e in vigore dal 1 novembre 1993, sia i trattati
istitutivi delle tre Comunità europee
19
(CEE, CEEA, CECA).
Sottoscrivendo tale trattato, gli Stati membri si sono impegnati, insieme con la
Comunità, a sviluppare una strategia coordinata a favore dell’occupazione e della
promozione di una forza-lavoro competente, qualificata, adattabile nei confronti del
mercato del lavoro, in grado di rispondere ai mutamenti economici, promovendo la
cooperazione con gli Stati membri, sostenendone e, se necessario, integrandone
l’azione
20
.
Il Trattato di Amsterdam, infatti, nel primo paragrafo dell’art. 3 CE ha inserito un nuovo
comma, contrassegnato dalla lettera i), con il quale si aggiunge agli obiettivi comunitari,
“la promozione del coordinamento tra le politiche degli Stati membri in materia di
occupazione, al fine di accrescerne l’efficacia con lo sviluppo di una strategia
coordinata sull’occupazione”.
La portata innovativa del Trattato
La portata innovativa delle scelte compiute ad Amsterdam è ampia in quanto:
a) il nuovo capitolo dell’occupazione fornisce una effettiva base giuridica alle
politiche occupazionali dei Paesi dell’Unione che non sono più lasciate
esclusivamente al comportamento spontaneo di ciascuno Stato membro. Inoltre
19
Nascimbene, B. (1999), Comunità e Unione europea-codice delle istituzioni, p. XI, G. Giappicchielli
Editore, TO.
20
Orsello, G.P. (a cura di ) (1999), Trattato di diritto amministrativo, pag. 177, CEDAM, Padova.
l’occupazione viene vista come terreno unificante dell’insieme delle politiche e
attività comunitarie;
b) la legittimazione rinforza la base di coesione per l’insieme dei principali attori
responsabili delle politiche occupazionali, ossia non solo i governi e le parti
sociali ma anche i soggetti a cui è attualmente affidata la gestione efficace di tali
politiche a livello locale (operatori pubblici e privati locali, le organizzazioni
sociali ecc.) e quelli a cui il Trattato riconosce un ruolo attivo e visibile nel
rafforzare l’efficacia delle misure occupazionali (organizzazioni del
volontariato, cooperative, associazioni non governative, ecc.);
c) il coordinamento a livello comunitario tra le politiche attive del lavoro che,
come vedremo successivamente, sono considerate centrali nella lotta alla
disoccupazione, fa riferimento al modello di coordinamento delle politiche
economiche (insieme delle azioni poste in essere dallo Stato per regolare
l’attività economica, le politiche monetarie, di bilancio ecc.). La differenza sta
nel carattere non vincolante di eventuali raccomandazioni. Viene ampliata la
procedura di consultazione presso le istituzioni europee delle proposte della
Commissione relative agli orientamenti per l’occupazione e si prevede che le
politiche per l’occupazione degli Stati membri vengano valutate annualmente
dal Consiglio per controllare l’aderenza agli orientamenti fissati dall’UE.
Disposizioni del Trattato
Il trattato dispone che il Consiglio, previa consultazione del Parlamento
europeo, istituisce un comitato per l’occupazione a carattere consultivo, composto da
due membri nominati dalla Commissione e da due membri nominati da ciascuno Stato
ed incaricato di coordinare le politiche nazionali in materia di occupazione e di mercato
del lavoro.
Altre disposizioni del Trattato integrano la normativa comunitaria in materia di
politica sociale, allo scopo di promuovere l’occupazione, il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale e la
lotta contro l’emarginazione, anche con la consultazione delle parti sociali a livello
comunitario da parte della Commissione
21
. Il dialogo fra le parti sociali può condurre a
relazioni contrattuali, ivi compresi accordi.
Sono state perfezionate le norme relative alla parità di trattamento fra lavoratori di sesso
maschile e lavoratori di sesso femminile. L’art. 2 del trattato CE prevede esplicitamente
che in ogni sua azione essa debba cercare di eliminare le disuguaglianze e promuovere
la parità tra uomini e donne
22
. Inoltre, è stato inserito un nuovo articolo 13 al fine di
rafforzare il principio di non discriminazione in stretto rapporto con le pari opportunità.
Il nuovo articolo stabilisce che il Consiglio può prendere i provvedimenti necessari per
combattere contro qualsiasi forma di discriminazione che sia fondata sul sesso, sulla
razza o sull'origine etica, sulla religione o sulle credenze, su un handicap, sull'età o
sull'orientamento sessuale.
Sono state accentuate le norme relative alla protezione dei consumatori, quelle in
materia ambientale e quelle relative alla politica di coesione economica e sociale
23
.
Inoltre, al Trattato è stato allegato un Protocollo sull’applicazione dei principi di
sussidiarietà e proporzionalità di cui si parla nel glossario sull’UE in appendice.
Gli articoli innovativi del trattato di Amsterdam
Il Trattato di Amsterdam comporta importanti innovazioni nell’ambito della
politica sociale che viene con esso inserita nel titolo “Politica sociale, istruzione,
formazione e gioventù” che si articola in un capo relativo alle disposizioni sociali (artt.
21
Si tratta di obiettivi enunciati secondo la via tracciata dalla Carta sociale europea firmata a Torino il
18 ottobre 1961, nonché dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, del 1989.
22
art. 3, par.2 del trattato CE.
23
Orsello, G.P. (a cura di), op. cit., p.178.
117-122), in uno relativo al “Fondo sociale europeo” (artt. 123-125), e in uno su
“istruzione, formazione e gioventù” (artt. 126-127).
Nell’art.117 comma I gli Stati membri convengono sulla necessità “di promuovere il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera che consenta la
loro parificazione nel progresso”. L’art. 118 incarica la Commissione, conformemente
agli obiettivi generali del trattato, di “promuovere una stretta collaborazione tra gli Stati
membri nel campo sociale” ed elenca le materie che tale cooperazione deve interessare
(occupazione, diritto al lavoro, formazione professionale ecc.). L’art. 118A consente
che possano essere emanate delle direttive per tutelare la sicurezza e la salute dei
lavoratori. L’art.118B assegna alla Commissione il compito di “sviluppare a livello
europeo un dialogo tra le parti sociali, il quale possa sfociare, se esse lo ritengono
opportuno, in relazioni convenzionali”. Esso incoraggia quindi la conclusione di
contratti collettivi internazionali. L’art.119 contiene il principio fondamentale della
parità delle retribuzioni fra uomini e donne; l’art.120 contiene una dichiarazione
d’intenti degli Stati membri che si adoperano a “mantenere l’equivalenza esistente nei
regimi di congedi retribuiti”, l’art.126 si occupa di educazione e l’art. 127 di formazione
professionale
24
.
Le politiche occupazionali, dirette alla salvaguardia e crescita dei posti di
lavoro
25
rientrano in tal modo a pieno diritto fra i compiti di carattere sociale che la
Comunità si prefigge di attuare, considerando la grave crisi occupazionale che tutti gli
24
Beutler, B. et al (1998), L’Unione europea-Istituzioni, ordinamento e politiche, Il Mulino, BO.
25
Colasanto, M., “Politiche sociali, politiche del lavoro e il nuovo ruolo sociale dell’impresa”, in Donati,
P. (a cura di), op.cit., p.174.