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La drammaticità della povertà sta proprio nella sua normalità. Essere poveri, non significa
avere poco, ma avere meno. Si è poveri quando si ha molto meno di coloro in mezzo ai
quali si vive. Anche le statistiche sulla povertà che l’Istat ci ha fornito sono costruite in
questo modo: povero è colui che ha una spesa media mensile inferiore alla metà della spesa
media pro-capite. Il povero, in termini di capacità di spesa, è come un "mezzo cittadino".
Il problema, allora, è quello della disuguaglianza. Un paese non diventa più ricco solamente
aumentando la propria ricchezza. Ciò che conta è come la ricchezza è distribuita. Oggi,
nell’ideologia dominante, queste affermazioni non trovano credito. Si sostiene che
l’importante è produrre anzitutto la ricchezza e che, solo dopo, si può pensare a distribuirla.
A tale scopo, il presente lavoro si propone, partendo dai teoremi fondamentali
dell’economia del benessere e delle teorie della giustizia distributiva (capitolo I), di studiare
il problema della redistribuzione del reddito nelle economie liberiste (capitolo II).
Fornendo, poi, un quadro sulla povertà e la disuguaglianza in Italia, alla luce dei dati ISTAT
(capitolo III), l’intento è quello di osservare gli effetti redistributivi che si sono susseguiti
alle misure normative, economiche e fiscali emanate dal governo di centro-destra (capitolo
IV).
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CAPITOLO I
TEOREMI FONDAMENTALI DELL’ECONOMIA DEL
BENESSERE E TEORIE DELLA GIUSTIZIA
DISTRIBUTIVA
1.1 Teoremi fondamentali dell’economia del benessere
Con il termine Economia del benessere si intende lo studio di quei processi economici che
influenzano direttamente il benessere individuale e collettivo. Essa studia l’allocazione delle
risorse dell’economia ed è mossa da una domanda: esiste una allocazione delle risorse
migliore delle altre?
Possiamo definire l’economia del benessere – il cui nome deriva dal titolo del libro The
Economics of Welfare (1920) dell’economista inglese A. Pigou - come quel filone della
teoria economica che ha per oggetto la valutazione della desiderabilità sociali di situazioni
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economiche alternative. Essa si propone di fornire dei criteri generali sulla base dei quali sia
possibile giudicare se una data situazione economica è preferibile ad un’altra dal punto di
vista del benessere sociale. L’economia del benessere è stata utilizzata per confrontare i
risultati che derivano dall’agire degli operatori privati nel mercato in assenza di intervento
pubblico con quelli che si ottengono quando interviene lo Stato. L’economia del benessere
fornisce perciò le giustificazioni dell’intervento dello Stato nell’economia e permette di
valutare i risultati dell’azione dei diversi strumenti con cui quell’intervento può realizzarsi.
I due fondamentali criteri con cui nell’economia del benessere vengono valutate le
situazioni economiche alternative sono: l’efficienza nell’allocazione delle risorse e l’equità
nella distribuzione delle risorse fra gli individui componenti la collettività; criteri questi
frequentemente in conflitto fra loro (cosiddetto trade off tra efficienza ed equità).
La prima viene definita da Pareto in termini di benessere degli individui: si ha un’efficiente
allocazione delle risorse quando non è possibile alcuna riallocazione per aumentare il
benessere di un solo individuo senza diminuire quello di un altro. L’analisi compiuta da
Pareto è alla base del I teorema fondamentale dell’economia del benessere per cui ogni
equilibrio economico che si determina in condizioni di concorrenza perfetta costituisce un
ottimo paretiano che indica appunto una situazione economica dalla quale non ci si può
spostare senza compromettere il benessere di un solo individuo. In sintesi, l’efficienza
paretiana si realizza quando il tasso marginale di trasformazione (TMT) di un prodotto in un
altro è uguale al tasso marginale di sostituzione (TMS) tra i beni per i consumatori per cui i
rapporti dei prezzi dei beni al consumo saranno uguali ai rapporti dei prezzi alla produzione.
Questo garantisce che i piani efficienti dei produttori siano compatibili con quelli dei
consumatori, a partire da una certa distribuzione iniziale delle risorse tra gli individui. Gli
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ottimi saranno, dunque, infiniti, uno per ogni possibile punto di partenza e tra di essi occorre
individuare l’ottimo preferito dalla collettività, quello che rende massimo il benessere
sociale (bliss point o ottimo degli ottimi). Nell’ottica paretiana, secondo cui l’individuo è
l’unico giudice dei propri interessi, le utilità dei singoli non sono confrontabili tra di loro e
l’unica possibilità è quella di creare un ordinamento delle preferenze individuali in
riferimento ai diversi stati dell’economia.
È però possibile raggiungere una qualunque altra situazione di ottimo – e di benessere
collettivo – se si modifica adeguatamente la distribuzione iniziale delle risorse fra gli
individui, e si lascia poi all’operare del mercato concorrenziale la realizzazione
dell’allocazione efficiente delle risorse: questo è quanto stabilisce il cosiddetto II teorema
fondamentale dell’economia del benessere. In sostanza, se partendo da una certa
distribuzione delle risorse si giunge ad un punto efficiente ma non equo, si può, secondo il
suddetto teorema, raggiungere una qualsiasi altra situazione di ottimo modificando
adeguatamente quella distribuzione di risorse e lasciando poi all’operare del mercato
concorrenziale il compito di raggiungere l’efficienza.
In forza del secondo teorema, sarebbe pertanto possibile separare il problema della
realizzazione dell’efficienza da quello della soddisfazione di principi di equità. Se, infatti, la
distribuzione delle risorse iniziale non fosse accettabile, uno stato dell’economia efficiente
ed eticamente più soddisfacente potrebbe essere raggiunto agendo sulla distribuzione
attraverso adeguati trasferimenti di risorse personalizzati e non distorsivi, e demandando
all’operare del mercato la realizzazione dell’efficienza. Il ruolo che in questo contesto
dovrebbe svolgere lo Stato sarebbe duplice. Da un lato, dovrebbe attuare una politica
redistributiva tale da realizzare la desiderata combinazione dei livelli di benessere dei
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componenti la collettività; e dall’altro dovrebbe esercitare gli interventi adeguati a garantire
il funzionamento del sistema concorrenziale, e quindi la presenza di condizioni di
concorrenza perfetta in tutti i mercati dei beni e dei fattori.
L’operatore pubblico per poter compiere trasferimenti personalizzati, dovrebbe avere
informazioni complete sulle funzioni di utilità di tutti gli individui… ma risulta arduo
ipotizzare che lo Stato possa disporre di strumenti idonei a raccogliere tutte le informazioni
necessarie.
Il principio di equità, inoltre, richiede che individui identici sotto tutti gli aspetti siano
trattati alla stessa maniera (equità orizzontale) e che coloro che sono in grado di pagare
imposte maggiori rispetto agli altri dovrebbero farlo (equità verticale). Si tratta di criteri
intuitivamente accettabili che però mostrano, ad un’analisi più approfondita, l’ambiguità
che li caratterizza e che ne rende estremamente difficile l’attuazione. Infatti, due persone
non sono mai completamente uguali ma presentano sempre dei caratteri peculiari. Inoltre,
tra le innumerevoli differenze, bisogna anche distinguere quelle di scarso valore, che
risultano quindi trascurabili, da quelle più rilevanti dalle quali non si può prescindere, e
bisogna altresì stabilire il peso da attribuire ad ognuna di esse per decidere quanto un certo
individuo debba pagare più degli altri. In particolare poi, per quanto riguarda il problema
della rivelazione delle preferenze, mentre nel settore privato gli individui possono esprimere
direttamente sul mercato le loro opinioni circa la desiderabilità di un bene o di un altro
semplicemente procedendo all’acquisto di quello preferito, nel settore pubblico i cittadini
eleggono dei rappresentanti che a loro volta votano un bilancio pubblico che stabilisce, tra
l’altro, quali e quanti beni pubblici offrire. Le elezioni, perciò, rappresentano solo in
maniera indiretta e limitata le preferenze dei cittadini, esprimono soltanto un orientamento
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che, oltretutto, non è in alcun modo vincolante. Come possiamo notare, i problemi
informativi risultano decisamente insormontabili e condizionano fortemente la riuscita di un
progetto redistributivo efficiente operato dallo Stato. A questo, però, si deve aggiungere
un’ulteriore considerazione evidenziata da Partha Dasgupta (1985). Se anche si riuscisse a
trovare una valida soluzione e lo Stato fosse in grado di reperire e raccogliere in maniera
perfetta e completa tutte le informazioni necessarie per stabilire qual è il punto sulla
frontiera del benessere desiderato dalla collettività, superando quindi tutti i limiti evidenziati
fin qui, perché mai dovrebbe poi affidarsi al mercato per raggiungere effettivamente quel
punto? Non sarebbe esso stesso in grado di perseguire, oltre l’equità, anche l’efficienza?
La costruzione della funzione del benessere sociale (FBS) è alla base di quelle teorie che
considerano il benessere della collettività in funzione di quello dei singoli individui che la
compongono, e quindi dell’utilità da essi goduta. Questo concetto è espresso graficamente
dalle curve di indifferenza sociale che descrivono le varie combinazioni di utilità degli
individui rispetto alle quali la società è appunto indifferente perché apportano ad essa lo
stesso livello di benessere. Dall’aggregazione delle utilità dei singoli ricaviamo la FBS che
ci permette di valutare e confrontare le diverse distribuzioni per arrivare ad individuare la
scelta socialmente preferita. Il problema è adesso quello di determinare le caratteristiche
della FBS e le modalità di aggregazione delle singole utilità. Il risultato, infatti, cambia a
seconda del giudizio di valore al quale si fa riferimento e numerose sono le proposte offerte
dalle teorie della giustizia distributiva.
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1.2 Teoria della giustizia distributiva
1.2.1 L’ utilitarismo
Fra tutte le teorie della giustizia sociale, la teoria dell’utilitarismo è forse quella che più di
ogni altra manifesta legami assai stretti con l’economia.
Come in economia il benessere di ciascuno dipende dai livelli di utilità di ciascuno, per
l’utilitarismo il benessere sociale è dato dalla somma dei livelli di utilità dei membri che
compongono la collettività. Per l’utilitarista è giusto ciò che massimizza l’utilità sociale.
La scuola degli utilitaristi risale ai primi decenni del XIX secolo. L’idea di fondo consiste
nell’aggregazione delle utilità individuali, operazione resa possibile dalla convinzione
utilitaristica, in perfetta controtendenza rispetto all’analisi paretiana, che le singole funzioni
di utilità siano misurabili e confrontabili. Il criterio che deve guidare la scelta consiste nella
massimizzazione del benessere dei membri della collettività, dando un uguale peso alla
felicità di ogni persona. Quest’ultimo rilievo discende dal principio di imparzialità che trova
la sua espressione emblematica nello spettatore disinteressato ma simpatetico, capace di
identificarsi con ciascun individuo, catturandone gli interessi, e quindi di decidere in
maniera neutrale senza privilegi o favoritismi. Un’altra caratterizzazione dell’utilitarismo è
di essere una teoria della giustizia di tipo consequenzialistico per cui le scelte vengono
giustificate solamente in base alle conseguenze che producono e mai in base a valori
antecedenti.