Per questi motivi si è scelto di strutturare il lavoro in cinque capitoli, il
primo dei quali passa in rassegna gli elementi di base un sistema di Credit
risk management e fornisce delle indicazioni relative ai vincoli ed alle
opportunità derivanti, per le banche, dall’implementazione degli
strumenti e delle metodologie in esso contemplate.
Nel secondo capitolo, invece, vengono illustrate le metodologie di
valutazione dei crediti in bilancio, previste dalla normativa attualmente
vigente, con lo scopo di evidenziarne i principali punti deboli,
ipotizzando possibili soluzioni per garantire il ricongiungimento con le
logiche del sistema di controllo dei rischi.
Il terzo capitolo introduce il processo di armonizzazione contabile,
evidenziandone le finalità, nonché le difficoltà finora incontrate e
fornisce una prima indicazione del contenuto e della struttura dei
Principi Contabili Internazionali, oltre ad alcuni elementi per la
descrizione del principio contabile IAS 39. Esso si lega al capitolo
successivo del presente lavoro, il quale si incentra sul trattamento
contabile dei crediti previsto dallo IAS 39 e ne illustra le principali novità,
con una particolare attenzione al nuovo modello di determinazione del
reddito introdotto dal suddetto principio contabile.
In conclusione del presente lavoro, si è scelto di riprendere la discussione
i principali temi affrontati precedentemente, in modo da evidenziare i
reali spazi per una effettiva convergenza tra i sistemi di controllo dei
rischi ed i sistemi contabili, alla luce della prossima adozione dei Principi
Contabili Internazionali. In questo senso, viene esaminato il
fondamentale ruolo della disclosure quale strumento di collegamento tra
evidenze contabili e informazioni presenti all’interno dei sistemi di
controllo dei rischi, espressi all’interno di un documento che si pone
l’obiettivo di informare i soggetti terzi sulla situazione della banca.
CAPITOLO 1
LA GESTIONE DEL RISCHIO DI CREDITO SECONDO
LE LOGICHE DEL CREDIT RISK MANAGEMENT
1.1 LA NECESSITA’ DI UN SISTEMA DI CREDIT RISK
MANAGEMENT
L’attività di gestione e concessione del credito ha da sempre
rappresentato nel nostro paese la determinante di fondo della redditività
degli istituti di credito
1
: il modo in cui una banca affronta questo
business ha un’influenza dominante sulla sua performance complessiva e
sulla sua competitività.
Da qualche anno, tuttavia, il mercato del credito ha sancito l’ormai
definitiva “obsolescenza dell’organizzazione produttiva esistente e
tradizionale
2
”: è in atto una vera e propria reingegnerizzazione
organizzativa e procedurale volta a permettere il conseguimento di livelli
di efficienza e di efficacia più elevati, soprattutto con riferimento ai
sistemi di controllo e gestione del rischio di credito.
I motivi alla base di questa profonda trasformazione vanno ricercati
principalmente nei cambiamenti che hanno riguardato lo scenario
competitivo, tra i quali si segnalano:
• la diminuzione generalizzata dei tassi di interesse, frutto delle
politiche orientate alla stabilità appoggiate dai paesi aderenti al
1
Sulle attività svolte dalla banca ed il loro peso specifico sulla gestione e la conseguente necessità di
adeguati sistemi di controllo interni, si veda, tra gli altri, L. HINNA, Il controllo dei rischi bancari
generali. Un approccio metodologico al management audit, Rirea, Roma, 1996, pagg. 23 e segg.
2
MOTTURA P., Nuove strategie e riorganizzazione dell’attività di credito, in Bancaria, n. 2, 2000, pag.
3.
Trattato di Maastricht prima, e all’Unione Monetaria Europea poi,
con il conseguente ridimensionamento del margine di interesse.
Come osserva Zadra “l’attuale struttura del mercato del lending non
genera sempre in Italia rendimenti superiori al costo del capitale allocato
a questo business, ovvero non sempre concorre alla creazione di valore per
la banca
3
”. Ciò comporta un ripensamento delle strategie da parte
degli intermediari, i quali non possono più limitarsi ad operare
una attività di trasformazione delle scadenze e dei rischi delle
risorse acquisite;
• la maggiore concorrenza sul mercato del credito, che spinge ad
una infelice e dannosa politica di price competition: infelice, poiché
non foriera di reali benefici di natura economica sottoforma di
risultati migliori; dannosa, poiché colpevole di un peggioramento
generalizzato della qualità creditizia dei portafogli di
investimento, sia per un allentamento nei criteri di selezione dei
prenditori, sia per l’incapacità di misurare e prezzare
correttamente i rischi nelle nuove e meno note aree territoriali nelle
quali la banca decide di espandere la propria attività di lending;
• un’attenzione più marcata al controllo del rischio di credito da
parte delle Autorità di Vigilanza, manifestata attraverso interventi
delle Autorità nazionali, volti a rendere più organica da un lato la
normativa in tema di Sistema dei Controlli Interni, e dall’altro in
tema di requisiti prudenziali con le proposte di modifica degli
Accordi sul Capitale da parte del Comitato di Basilea; tutto ciò a
testimonianza delle maggiori difficoltà che si stanno incontrando
nell’implementazione, anche per quanto concerne il rischio di
3
Cfr. ZADRA G., Prospettive del mercato dei prestiti in Italia, in Bancaria, n. 2, 2000, pag. 21.
credito, dei sistemi di misurazione e controllo previsti per i rischi
di mercato;
• lo sviluppo dei mercati mobiliari e la quotazione del capitale
bancario stimolano l’interesse degli investitori verso l’andamento
economico, la solidità patrimoniale e soprattutto i livelli di
performance degli intermediari creditizi, che spesso dimostrano di
non sapersi confrontare con gli obiettivi di redditività fissati dal
mercato e si vedono, pertanto, costretti a ricercare nuovi assetti.
L’innovazione finanziaria, il fenomeno della disintermediazione, le
trasformazioni dell’economia reale sono gli altri fattori strutturali che,
assieme a quelli precedentemente citati, hanno imposto alle banche un
ripensamento e una riorganizzazione tanto delle strategie di mercato
quanto dei processi operativi della concessione del credito, in
considerazione della stretta relazione esistente tra una corretta
metodologia di valutazione del rischio di credito, l’efficiente allocazione
del capitale e la creazione di valore per gli azionisti.
La direzione seguita dagli intermediari è stata quella di focalizzare
l’attenzione sullo sviluppo di sistemi di Credit risk management (Crm)
4
:
in altre parole, sotto la spinta delle autorità di vigilanza, le banche hanno
iniziato ad adoperarsi per realizzare un complesso integrato di modelli e
strumenti di misurazione in grado, unitamente all’esistenza di idonee
procedure organizzative, di garantire una gestione mirata ed ottimale del
rischio di credito.
Il termine “sistema” non è stato utilizzato a caso: le logiche di Credit risk
management impongono che tutte le attività che attengono alla gestione
4
Il Credit risk management può essere definito come “l’insieme integrato dei modelli e degli strumenti
di misurazione che consente, unitamente all’esistenza di idonee procedure organizzative, una gestione
finalizzata e ottimale del rischio di credito”; cfr. D’AURIA C., GAETANO A., PASTORE F., Profili
evolutivi del credit risk management nelle banche italiane, in Bancaria, n. 1, 2001, pag. 44.
del rischio di credito facciano parte di un progetto, integrato in un
insieme di processi, che risulti coerente con la struttura specifica della
banca, compreso e condiviso all’interno dagli addetti dell’area crediti ma
anche dal top management e dal Consiglio di Amministrazione,
supportato da strutture organizzative, risorse umane e sistemi
informativi adeguati.
Come afferma giustamente Profumo, “il Credit risk management non è
soltanto un insieme di modelli e strumenti nuovi. E’ più propriamente un
approccio globale alla gestione della banca
5
”. Per questo motivo ancor prima
di pensare all’innovazione degli strumenti, all’implementazione dei
modelli, alla nuova pianificazione dei presidi organizzativi, si rende
necessario un radicale mutamento nella cultura e nel modo di fare banca.
Si tratta con ogni probabilità dell’intervento più delicato e dal quale
dipendono le sorti dell’intero sistema di Credit risk management: “alle
carenze di credit culture non è possibile ovviare solo con politiche e procedure
ben scritte
6
”, né è pensabile un approccio di tipo “top-down” con ordini
impartiti dall’alto che corrono il rischio di essere rifiutati dalla struttura;
una strada da seguire, non è detto sia la più agevole, potrebbe essere
quella che passa attraverso la condivisione e la partecipazione dei
responsabili alle fasi di individuazione degli obiettivi da perseguire e di
progettazione delle caratteristiche del sistema, in funzione degli stessi:
questa scelta richiede che vengano preliminarmente definiti i ruoli e le
competenze di ciascuno, per evitare sovrapposizioni e altre inefficienze
legate alle capacità non adeguatamente sfruttate o erroneamente allocate.
5
PROFUMO A., Riorganizzazione e gestione del portafoglio crediti nell’esperienza di una grande
banca, in Bancaria, n. 2, 2000, pag. 18.
6
D’AURIA C., GAETANO A., PASTORE F., Profili evolutivi del credit risk management nelle banche
italiane, op. cit., pag. 48.
Da quanto detto emergono la complessità, la pervasività e l’articolazione
di un sistema di Credit risk management; caratteristiche che impongono
di pianificarne lo sviluppo e favorirne l’implementazione su un arco
temporale non certamente di breve periodo e, allo stesso tempo,
suggeriscono di non interpretare lo stesso, in una logica di mero
adattamento, come un insieme di modifiche più o meno approfondite ai
sistemi di controllo in uso, ma piuttosto come un cambiamento radicale
dell’approccio alla gestione del rischio di credito.
Per meglio comprendere la portata innovativa delle logiche di Credit risk
management, si ritiene opportuno procedere ad una rapida disamina dei
criteri tradizionalmente utilizzati dalle banche italiane nella gestione del
rischio di credito, con particolare riferimento alle metodologie di
valutazione/selezione dei fidi e alle dinamiche di monitoraggio degli
stessi.
Il processo decisionale che porta alla concessione del credito cui gli
istituti italiani si sono tradizionalmente affidati si caratterizza per un
output di tipo “binario”: il cliente, a seguito di una valutazione del
merito creditizio, basata su di un’analisi economico-finanziaria che tiene
conto anche delle prospettive strategiche alla luce dell’ambiente nel
quale egli opera, viene giudicato meritevole o meno di ottenere il
finanziamento.
Un approccio così strutturato risulta privo di una logica di portafoglio,
che consenta alle banche di diversificare efficientemente le proprie
esposizioni, riducendo il livello complessivo di rischio: non potendo
valutare adeguatamente e quindi cogliere le opportunità di investimenti
creditizi che hanno dinanzi a sé, esse finiscono con il comporre portafogli
con un livello eccessivo di concentrazione degli impieghi in determinate
aree geografiche o settori economici.
Inoltre, una valutazione parziale del profilo di rischio complessivo non
può che produrre un’inefficace politica di gestione dello stesso. Il sistema
bancario italiano continua a fare ricorso ad un sistema di limiti, basato su
parametri:
• “dimensionali”, per controllare l’esposizione complessiva detenuta
nei confronti di una determinata controparte;
• “temporali”, per valutare la durata massima delle esposizioni
esistenti;
• di “concentrazione”, per evitare una eccessiva esposizione verso
un determinato settore o area geografica.
Ma il problema, evidenziato da diversi autori, “consiste nel fatto che
l’attività di sviluppo commerciale (origination) è vista come inscindibile dal
processo di investimento e, quindi, il rischio di credito stesso viene gestito per
mezzo del processo di origination e non per mezzo del processo di
investimento
7
”, con le conseguenze che quest’ultimo non può svolgere il
compito che gli è proprio, vale a dire la composizione del portafoglio
crediti al fine di raggiungere gli obiettivi di rischio-rendimento fissati e la
banca si trasforma in un mero collettore di fondi, in balia del fenomeno
noto come path dependency
8
e delle fasi cicliche dell’economia.
La mancanza di un approccio di portafoglio reca con sé una scarsa
attenzione al monitoraggio delle esposizioni detenute: non si tiene conto
del cosiddetto mark to market delle esposizioni creditizie con l’effetto di
sottovalutare il rischio complessivo; le banche individuano le difficoltà
del cliente solo quando esse diventano palesi ed emergono sotto forma di
elenchi di conclamate patologie dalla gestione corrente del rapporto,
7
In proposito si veda, per tutti, CAPUTO NASSETTI F., FABBRI A., Trattato sui contratti derivati di
credito, EGEA, Milano, 2001.
8
Con questo termine, si intende il fenomeno per cui le valutazioni creditizie sono espresse
prevalentemente sulla base delle decisioni prese nel passato.
attraverso ad esempio i dati della Centrale dei Rischi, piuttosto che da
analisi di fido di più ampio respiro mirate a stimare la capacità
prospettica di reddito del cliente stesso o a valutare i suoi rapporti col
mercato, e quindi a fornire alla banca validi elementi per prevenire
situazioni di crisi.
1.2 OGGETTO E CARATTERISTICHE DI UN SISTEMA DI
CREDIT RISK MANAGEMENT
Dalle considerazioni fin qui svolte risulta, pertanto, più agevole
comprendere e giustificare l’attuale tendenza degli studiosi e degli
istituti di credito del nostro paese a sviluppare modelli interni di
misurazione e gestione del rischio di credito, sospinti in tale direzione
anche dai precetti normativi emanati dalle Autorità di Vigilanza.
Per approfondire l’analisi di un modello di Credit risk management
bisogna innanzitutto isolare ed individuare gli elementi che lo
compongono: soltanto attraverso la valutazione della qualità degli input
immessi e della robustezza della loro costruzione teorica è possibile
verificare l’efficacia del modello e la validità dei risultati prodotti.
Trattando, tuttavia, di modelli che hanno per oggetto la misurazione e la
gestione del rischio di credito, si ritiene opportuno procedere
inizialmente ad un inquadramento teorico il più possibile chiaro ed
esaustivo del suddetto rischio.
A) IL RISCHIO DI CREDITO E LA PERDITA ATTESA
Pur d’accordo con Ruozi, il quale afferma che “il rischio di un prestito è
concetto notevolmente ampio e diversificato
9
”, non ci si può tuttavia
accontentare di definizioni eccessivamente ampie, che forniscono scarse
indicazioni operative, come quelle che inquadrano il rischio di credito
come la “probabilità che l’operazione di prestito non dia alcun contributo
positivo alla redditività dell’azienda, o finisca con l’incidere sfavorevolmente sui
risultati di esercizio
10
”; d’altro canto non paiono adeguati neppure gli
approcci che definiscono il rischio creditizio come mero rischio di
insolvenza, legato cioè alla probabilità che una o più controparti della
banca non siano in grado di ripagare, in tutto o in parte, le somme
ricevute a titolo di prestito.
Partendo dal presupposto che il manifestarsi di un certo numero di
eventi di insolvenza all’interno del portafoglio della banca è un
fenomeno che entro certi termini può ritenersi fisiologico ed inevitabile
(si tornerà dopo sulla distinzione tra rischio diversificabile e rischio
sistematico), si comprende come ciò che caratterizza l’esposizione al
rischio di credito per una banca sia la possibilità che le perdite registrate
si discostino da quelle effettivamente attese. Tale fenomeno è legato
principalmente alle variazioni del merito creditizio delle controparti che
l’istituto ha in portafoglio: pertanto il rischio non va limitato al solo
fenomeno di insolvenza (rischio di insolvenza), ma anche al possibile
peggioramento (o miglioramento) del merito creditizio che comporta un
incremento (diminuzione) della probabilità di insolvenza della
controparte stessa (rischio di migrazione).
9
RUOZI R., Sull’attendibilità dei bilanci e sulla loro validità a fini di previsione delle insolvenze, in
Bancaria, n. 1, 1974, pag. 11.
10
Cfr. G. DELL’AMORE, Economia delle aziende di credito. I prestiti bancari, Giuffrè, Milano, 1951,
pag. 409.
Appare, quindi, più opportuno definire il rischio di credito come il rischio
associato alle variazioni inattese del merito creditizio delle controparti nei
confronti delle quali esiste un esposizione, il cui impatto va ad incidere sul valore
attuale dei flussi di cassa futuri, ossia sul valore della posizione creditoria
detenuta dalla banca.
Questa definizione permette inoltre di individuare gli elementi chiave
del rischio di credito, il cui approfondimento ed inquadramento teorico è
essenziale ai fini della costruzione di un modello di misurazione e
gestione del rischio creditizio che pretenda di essere efficiente; in
aggiunta pone preliminarmente il problema delle interrelazioni esistenti
tra rischio inteso come perdita inattesa, legata all’elemento incertezza, e
stima, sotto forma di perdita attesa, dei relativi effetti economici negativi.
Si è parlato ad esempio di esposizione: troppo spesso si associa
all’ammontare dell’esposizione il volume di rischio sopportato,
considerando i due concetti come sinonimi; ciò sarebbe vero soltanto se
ogni esposizione avesse la medesima probabilità di generare il medesimo
ammontare di perdite, ma è molto difficile che ciò si realizzi, dal
momento che ogni posizione è caratterizzata da una sua propria
probabilità di insolvenza e da uno specifico tasso di recupero. La
determinazione dell’esposizione assunta nei confronti delle singole
controparti è una procedura tutt’altro che facile e scontata: basti pensare,
a titolo di esempio, alle operazioni di fido come le aperture di credito in
conto corrente, dove il cliente ha la facoltà di determinare l’ammontare
del credito concesso da utilizzare e per la banca non è possibile a priori
conoscere l’esatto ammontare dell’esposizione, che varia in funzione
dell’utilizzato. Tuttavia, analoghe difficoltà insorgono anche per le
operazioni di prestito caratterizzate da piani di rientro predefiniti, come,
ad esempio, i mutui: ai fini del calcolo dell’esposizione media la banca
deve tenere anche in considerazione l’eventualità che il cliente rientri
anticipatamente rispetto al piano di rimborso. De Laurentis osserva che
sulle linee di credito ad utilizzo discrezionale l’ammontare
dell’esposizione al momento dell’insolvenza (d’ora in avanti sarà
indicata EAD, Exposure at Default) tende ad essere superiore rispetto al
livello di utilizzo corrente; viceversa, nei prestiti con piano di rientro
predefinito, l’esposizione residua al verificarsi dell’insolvenza è
normalmente inferiore a quella corrente
11
. Da ciò si deduce, tra l’altro,
che l’EAD dovrebbe essere considerata “a valori di mercato” piuttosto
che “a valori di bilancio”: l’importo iscritto nell’attivo dello stato
patrimoniale alla voce “Crediti”, infatti, non può tenere conto delle
condizioni di mercato alle quali l’operazione è stata conclusa e, pertanto,
non permette di valutare appieno i reali effetti dell’eventuale insolvenza;
se si trattasse di obbligazioni quotate, al contrario, il loro diverso valore
di mercato sarebbe riflesso proprio nella loro quotazione.
L’EAD così calcolata rappresenta uno dei tre elementi essenziali ai fini
del calcolo della perdita attesa, ossia dell’ammontare medio di perdita che
la banca si attende di subire sulla specifica posizione creditoria (o a
livello di portafoglio), con riferimento ad un dato orizzonte temporale.
Tale ammontare risulta infatti dal prodotto dei seguenti fattori:
EL
i
= PD
i
x LGD
i
x EAD
i
11
Osserva De Laurentis che “in presenza di un miglioramento del rating il cliente può avere convenienza
a rimborsare anticipatamente in considerazione della possibilità di un rifinanziamento a condizioni più
vantaggiose del prestito, privando così la banca del beneficio di avere in portafoglio un prestito
contratto a condizioni più elevate di quelle che rispecchiano il livello di rischio attuale del cliente (detto
in altri termini, la banca viene privata di un prestito caratterizzato da un livello di rischio inferiore a
quello assunto alla base del pricing originario). Ovviamente non vale il contrario, poiché il cliente che
subisse un down-grading non sarebbe affatto interessato a rinegoziare il prestito”; cfr. DE LAURENTIS
G., Rating interni e credit risk management. L’evoluzione dei processi di affidamento bancari, Bancaria
Editrice, Roma, 2001, pag. 24.
Dove PD
i
rappresenta la probabilità di insolvenza della controparte i-esima,
mentre LGD
i
misura la percentuale attesa di perdita in caso di insolvenza
della medesima controparte (loss given default, o in alternativa tasso di
severity).
Per giungere ad una stima della probabilità d’insolvenza, che
rappresenta un attributo della controparte affidata, le banche possono
adottare differenti approcci. Le analisi di fido tradizionali, cui si
accennava nel precedente paragrafo, si basano spesso sul giudizio
soggettivo dell’analista (che può essere, a seconda dei casi, un
responsabile della funzione di controllo crediti, ovvero il relationship
manager, o ancora il credit analyst della banca) e tengono conto delle
informazioni di natura qualitativa oltre che quantitativa, ma spesso più
che produrre una probabilità di insolvenza vera e propria, conducono al
giudizio diretto di accettazione/rifiuto dell’operazione.
In proposito occorre far presente che, presso le banche italiane, hanno
un’ampia diffusione i modelli di credit scoring, i quali si snodano
attraverso un processo finalizzato all’attribuzione al cliente di un
punteggio (score), che rappresenta l’espressione quantitativa legata alla
probabilità che si verifichi l’insolvenza. Tali modelli non hanno
normalmente come risultato la formulazione di una probabilità di
insolvenza, ma possono essere utilizzati per determinare tale probabilità,
ad esempio attraverso il passaggio ai sistemi di rating (dei quali si
parlerà nel prossimo paragrafo).
Si procede costruendo inizialmente campioni di clienti che si sono
rivelati insolventi e campioni di clienti che sono rimasti solventi, per
ciascuno dei quali viene individuato uno specifico set di informazioni
che alimenterà il modello statistico (dati anagrafici, indici di bilancio
storici/prospettici, dati qualitativi, dati andamentali) con i relativi pesi;