In più luoghi si troveranno definizioni prese a prestito da altri
campi, soprattutto quello socio-antropologico, ormai sempre più
connesso con gli studi teatrali, di cui alcune tesi sono inseparabili
in una trattazione del percorso di definizione, ed auto-definizione,
del pubblico alle visioni dello stesso (e dunque alla sua presenza
come livello della drammaturgia), al fine di disegnare i contorni di
questa figura sempre in cerca di definizione, altro polo di
un’attrazione insopprimibile, nucleo di quella relazione teatrale che,
citando Piergiorgio Giacché, trova la sua specificità, e con essa la
sua alterità caratterizzante, nel suo “consistere in un accadimento,
basato su una relazione fisica e diretta tra attori e spettatori”
1
, un
rapporto dunque che potremmo chiamare di compresenza
collaborativa tra attore e spettatore.
Nel complesso procederò lungo un percorso storico, di ricognizione
dei testi, per catturare visioni di come la “vita teatrale dello
spettatore”
2
, ovvero la risposta dell’immaginario del pubblico,
7
travalichi anche i confini spazio-temporali dello spettacolo ed
influisca sullo spettacolo stesso, dunque quale ruolo e quale luogo
siano dedicati alla sua parte nella performance, e quale peso le sue
reazioni abbiano come ritorno sulla scena.
In appendice si troverà anche un paragrafo dedicato all’analisi di un
progetto attualmente in corso a Bologna, che, proprio da una
volontà di focalizzare l’attenzione sui recettori e non sui produttori
dello spettacolo, ha preso vita nel Settembre del 1997 presso Teatri
di Vita, diretto dal giornalista teatrale Stefano Casi e dal regista
Andrea Adriatico per quanto riguarda il settore produzioni.
8
0) Il pubblico, nozione socio-antropologica
(per un orientamento metodologico)
Nel saggio introduttivo alla Teoria della Performance di Richard
Schechner
3
, Valentina Valentini, analizzando il modo in cui lo
studioso e teatrante definiva il rapporto tra spettatore e operatore di
un evento, dice testualmente: “Schechner (…) assume come
modello d’analisi il processo comunicativo nel suo complesso, gli
“aspetti contestuali”, le circostanze di enunciazione e ricezione, al
cui interno si manifesta la performance (…)”
4
.
Com’è noto le riflessioni teoriche di questo personaggio nacquero
dall’esperienza pratica; Schechner in persona infatti fu promotore di
alcuni esperimenti molto particolari di comunicazione e
performance del tipo di “The Seventh Street Environment”, un
notiziario televisivo in cui “operatore e osservatore sono entrambi
partecipanti”
5
, o “Crash” (non dimentichiamo che Marvin Carlson
9
accosta in certo qual modo l’esperienza di Schechner e del Living
Theatre, il che mi sembra da non sottovalutare
6
); egli stesso non fa
mistero di cercare, per un certo periodo di tempo, nell’evento
teatrale, una forma di attualizzazione del rito (il che ci riporta di
nuovo ad un nome conosciuto, quello di Grotowski).
Ma quello che in questo ambito particolare ci interessa è
considerare il luogo del contatto, e vedere come da esso lo
spettatore derivi la propria fisionomia.
Il contatto (che per Schechner significa trasformazione, perché
“ogni osservazione è partecipazione e ogni partecipazione è
creazione”
7
) tra operatore e spettatore avviene in uno spazio neutro,
liminale, una zona di collegamento tra esterno ed interno (realtà e
finzione) in cui l’operator e lo spectator rivestono compiti di
“reciproca attività spettatoriale”
8
. Dunque, nel corso dell’evento
teatrale, o meglio, semplicemente dell’evento, il pubblico è definito
ALLA PARI degli attori, in quanto è dall’unificazione delle due
10
funzioni - in sé limitate- dell’operator e dello spectator che è
generato quello spazio integrato in cui entrambi rivestono la propria
attività creativa. Lo spettatore infatti ricostruisce l’oggetto
rinnovandolo; mentre, con il termine di PERFORMER, potremmo
indicare proprio l’esito dell’unificazione dei ruoli e delle
competenze, ovvero l’integrazione di visioni e visuali nel “piano
finzionale”
9
. Le dinamiche di inserimento dello spettatore
nell’azione in questo caso ne danno anche una definizione, dunque,
per il fatto di essere, come in un rito di passaggio, pienamente
coinvolto nell’azione, l’osservatore deve necessariamente
trasformarsi in partecipante. “Al rito cannibalistico dell’attore che si
offre per essere consumato (…), si sostituisce un rito liminale che
associa attore e spettatore come fruitori di un comune spazio
immaginario in cui il prima e il dopo del processo comunicativo
vengono a corrispondere”. Più avanti nel testo, in un capitolo
intitolato “Performer e spettatore trasportati e trasformati”
10
11
troviamo un racconto che secondo me vale da esempio del ritorno
che, dalla platea, si ha in scena, con effetti diretti e riscontrabili
sulla performance dell’attore, e dunque una precisazione sul grado
di influenza che lo spettatore può avere sull’attore.
Il brano di cui parlo, di Lévi-Strauss, è riportato alle pagine 180-
181 del testo
11
, e narra come il Kwakiutl Quesalid, per dimostrare
che degli sciamani erano dei ciarlatani, imparò così bene i loro
trucchi da acquistare egli stesso fama di ottimo sciamano, tanto che,
a lungo andare, se ne convinse pienamente anche lui. In nota
Schechner scrive: “ E’ un altro esempio del particolare potere della
performance di invertire i rapporti di causa, in modo che gli effetti
procedano le cause. Cioè il “potere” di un performer è sia causa sia
effetto della sua performance. La performance- il suo effetto sul
pubblico- il feedback- costituiscono un groviglio sincronico che
paradossalmente si dispiega durante la performance mediante una
progressione diacronica”.
12
Quel che è successo è, cioè, che il ritorno da parte degli spettatori,
con la loro fiducia, o, per citare ancora Schechner, con il loro
“desiderio di illusione”
12
, ha fatto da catalizzatore-enfatizzatore
delle energie impiegate dall’attore nell’interpretazione del suo
ruolo, fino a farlo talmente scendere nella rappresentazione da
subirne un transfert- l’attore arriva ad essere quasi sopraffatto dal
suo ruolo- credendo dunque alla fine di essere ciò che all’inizio
voleva solo mostrare. Dalla rappresentazione alla trasformazione
dunque, grazie alla amplificazione ad opera degli osservatori-
partecipanti.
La definizione del pubblico qui dunque nasce sul campo, e
dall’esperienza, e da un ideale spettatore ricondotto alle sue radici
ritualistiche di partecipante ad un cerimoniale.
Schechner può fornirci anche uno stimolo per una modalità di
lettura tramite varie osservazioni che sottolineano l’importanza
dell’uso dello spazio in funzione del dramma.
13
“ (…) la cosa migliore che possa capitare al nostro teatro proprio in
questo momento sarebbe che ai drammaturghi, agli attori e ai registi
venisse consegnato un palcoscenico nudo sul quale non si potesse
mettere alcuna scenografia (…). Avremmo così il più eccitante
teatro di tutti i tempi.” Così suggeriva nel 1941 Robert Edmund
Jones
13
prospettando una scena quasi vuota, da riempirsi casomai
solo dell’azione e dell’energia delle parole e della recitazione. Gli
appelli all’emancipazione dai fronzoli barocchi e dai trucchi
tradizionali a teatro del Living Theatre o la ricerca di spazi “vuoti”
da parte di Copeau o Brook potranno quindi esser letti con un
particolare riguardo.
Schechner rileva come infatti “dovunque ci volgiamo nel mondo
primitivo, troviamo teatro, interazione tra spazio, tempo, performer,
azioni e pubblico. Lo spazio è usato concretamente come qualcosa
che si può modellare e trasformare”
14
. Lo spazio poi preferibilmente
deve essere libero, non costretto entro cornici architettoniche, o
14
comunque non limitante i comportamenti del pubblico e degli attori
incasellandoli nelle loro rispettive gabbie. Schechner mette
l’accento infatti sullo spazio dei cerimoniali e delle feste tribali, in
cui “il principale elemento architettonico è costituito dalla persone,
quante ce ne sono, come e dove si posano, che interazioni hanno, se
partecipano o osservano o se fanno tutt’e due le cose”
15
. Con il suo
environmental theatre Schechner suggeriva di ripensare la relazione
tra lo spazio in cui ha luogo l’evento, la recita, la rappresentazione e
quello del pubblico in modo sempre nuovo e sempre diverso,
elaborato ad hoc per ogni avvenimento, facendo in questo
riferimento come ispiratore a Grotowski.
Ma poiché è da diverse e disparate posizioni che l’audience è stata
guardata e descritta, se ripercorriamo a grandi linee l’evolversi di
questo sguardo, possiamo tranquillamente affermare che il pubblico
ha cominciato ad acquisire un certo spessore con l’integrazione
degli studi teatrali con l’antropologia
16
, come proficuamente indica
15
infatti Giacché in un testo a mio avviso molto attento, il già citato
“Lo spettatore partecipante”
17
, che afferma: “Lo spettatore può
essere finalmente considerato il punto di partenza e insieme la
direzione ultima di una ridefinita “antropologia del teatro”. (…)
Anche se l’alterità del teatro, cercata dentro lo spettatore, è meno
evidente e oggettivabile, in definitiva è più ‘reale’, anche nel senso
che è l’unica che è obbligata al riscontro con la realtà sociale e
culturale, dopo il teatro, fuori dal teatro.”
18
Giacché assume quindi proprio lo spettatore come oggetto
privilegiato di studio, e anzi lo rende protagonista di un processo di
ridefinizione dell’alterità del teatro, il suo consistere in un rapporto
immediato e fisico tra attori e spettatori, perché le due funzioni di
osservazione e partecipazione, metodologicamente assunte dallo
studioso come criterio di indagine, sono naturalmente comprese,
contemporaneamente, proprio nell’identità dello spettatore. Dunque
è mettendosi dalla sua parte, e non utilizzandolo come referente in
16
qualche modo esterno, che l’antropologo lo tramuta in polo centrale
della relazione teatrale.
Nella lettura dei testi e nell’esplorare i luoghi riservati allo
spettatore, allora, proviamo a pensarlo, per una volta, protagonista.
17
Capitolo I
“La presenza del pubblico nelle teorie dei registi e pedagoghi del
‘900”
Premessa
Anche se il periodo d’indagine protagonista in questa tesi sarà il
Novecento, andrei per un attimo molto a ritroso, per trovare
un’originaria indicazione di metodo, e ispirazione dell’angolo
visuale da cui affronterò il mio studio, in un saggio relativo all’uso
dello spazio teatrale nel Rinascimento
19
, nel quale Cesare Molinari
si pone un interrogativo, e precisamente: “(…) dove i realizzatori di
opere teatrali supponevano che si trovassero gli spettatori?”
20
.
Per rispondere a questa domanda egli prende a modello appunto il
Rinascimento, periodo in cui si pose fortemente il problema del
rapporto con la scena, tanto da dar vita alle discussioni teoriche e
alle elaborazioni pratiche sulla prospettiva centrale. E’ pregnante il
18
riferimento a questo saggio perché Molinari qui mette a stretto
paragone lo spazio, la sua organizzazione in funzione di una
determinata visuale, ed il ruolo dello spettatore, mio tema di ricerca.
Lo studioso per esempio sottolinea come nel Rinascimento
convivessero due interpretazioni sulla prospettiva, corrispondenti ad
una divergente attribuzione di ruolo allo spettatore: “Da una parte
(…) non si può negare che l’applicazione delle leggi della
prospettiva alla produzione artistica abbia determinato la creazione
di uno spazio matematico e puramente visuale che si oppone allo
spazio psico-fisico della realtà empirica >qui cita in nota Panofsky,
LA PROSPETTIVA COME FORMA SIMBOLICA, Milano, 1961 ≅;
ma, d’altra parte, essa ha offerto la possibilità di riprodurre la realtà
in una maniera ritenuta esatta, di costruire di conseguenza uno
spazio capace di prolungare, grazie all’illusione, quello della realtà
in cui inserirsi senza soluzione di continuità”
21
. Conferme di questa
19
duplice lettura la riscontra anche in G.B. Alberti, che definiva il
quadro prospettico una “finestra aperta”, il che, come poi
commentava Gombrich in “Art and Illusion”, Washington,1960,
citato ancora dallo stesso Molinari, faceva dello spettatore un
“testimone oculare degli avvenimenti immaginari”
22
. Ancora, due
studiosi come Heinz Kindermann e Dagobert Frey hanno pure
affrontato la questione da punti di vista opposti, arrivando il primo
ad attribuire una motivazione sociologica alla condizione di
immobilità dello spettatore, e dunque a considerare nettamente
separate le zone dell’attore e del pubblico, mentre il secondo crede
che l’area di azione sia sostanzialmente la medesima. Ci sono molte
testimonianze di messe in scena che Molinari riporta, coma la
lettera di Castiglione a Ludovico di Canossa, in cui descrive la
messa in scena della “Calandria” ad Urbino, o la descrizione di
Donato Giannotti relativa al “Vecchio Amoroso”, risalente agli anni
’30 del sedicesimo secolo, o alcuni prologhi di commedie
20