ebrei era stato concesso un “privilegio” che non era stato dato ai cristiani: quello di
poter esercitare l’attività dell’usura.
Per i cristiani l’usura è peccato e quindi gli ebrei sono stati ritenuti per natura dei
peccatori. Si autorizzarono gli ebrei ad aprire i banchi di usura in quanto peccatori e
quindi destinati all’inferno perché ritenuti responsabili della morte di Gesù Cristo.
Questa è la radice storica dei pregiudizi sugli ebrei come usurai, avari, abili
trafficanti e mercanti. Nei loro quartieri e nei ghetti istituiti a partire dal XVI secolo, gli
ebrei facevano gli straccivendoli, compratori e venditori di oggetti usati, sarti che
riparavano gli abiti usati e poi li rivendevano.
Gli ebrei ebbero il ruolo di usurai non perché effettivamente monopolizzassero il
mercato del denaro ma per due ragioni principali: le loro attività economiche, qualunque
fossero, erano identificate dal mondo cattolico come “usuraie” perché praticate da
“infideles”, ritenuti incapaci in quanto tali di comprendere il senso spirituale delle
Scritture, di conseguenza, ritenuti estranei, in quanto “carnales”, ossia non convertiti ed
ostinati, nel proprio errore, all’organizzazione economica cristiana. Il secondo motivo
era dovuto alla effettiva presenza di prestatori su pegno ebrei nelle città italiane alla fine
del Medioevo, anche se promossa e sollecitata dalle città stesse, che confermò
l’immagine precedente e consentì all’attenzione pubblica di distogliersi dal
contemporaneo, forte sviluppo della banca cristiana, che nella realtà andava
monopolizzando i circuiti di denaro in tutta Europa. Si giunse così, nel 1215, in
occasione del quarto Concilio Lateranense, alla descrizione dell’usura come di un
comportamento tipicamente ebraico e specificatamente mirato ad indebolire
economicamente la società cristiana e le chiese.
Le successive discriminazioni e persecuzioni rivolte contro le comunità ebraiche
che fanno parte della storia del Rinascimento precedono, non solo cronologicamente, gli
orrori compiuti dai nazisti nel ‘900.
Uno dei rari contributi che hanno rotto il silenzio sulla comunità ebraica, spesso
tenuta nell’ombra durante tutto il rinascimento, è costituito dal “Mercante di Venezia”
di Shakespeare.
L’opera sintetizza la prospettiva cristiana sugli ebrei: mentre al personaggio ebreo
è associata la ricerca della giustizia attraverso l’ausilio del diritto, ai personaggi cristiani
è invece attribuita la fede nella provvidenza divina.
Gli schemi presenti nel “Mercante di Venezia” costituiscono pertanto, una
importante chiave di lettura per comprendere con quali occhi gli uomini del
Rinascimento abbiano visto e considerato gli ebrei.
Capitolo I
L’usura nella storia, nell’etica, nella morale e nella
filosofia
1.1 Il concetto di usura nel tempo
Poche parole hanno assunto, nel corso dei secoli, significati così diversi,
per non dire antitetici, come il termine “usura”. L’etimo latino del vocabolo, che
deriva in ultima istanza dal verbo “utor” (usare)
1
, è di per sé del tutto neutro e
innocente.
Infatti, in origine, con il termine usura si designava il frutto del denaro dato
in prestito, senza che la parola implicasse significati indegni, odiosi o
moralmente riprovevoli. In seguito, col diffondersi del fenomeno della crescente
esosità dei prestatori di denaro, l’uso della parola fu ristretto ad indicare quei
prestiti che comportavano una eccessiva gravosità dell’impegno finanziario del
debitore nei confronti del prestatore.
Con il termine usura ci si riferisce alla riscossione da parte di chi presta
denaro in operazioni che non debbono dar luogo ad interesse: per questo motivo
usura e interesse non sono sinonimi perché l’usura ha luogo laddove non vi è
produzione o trasformazione materiale di beni concreti.
D’altra parte l’usura designa una molteplicità di pratiche e questo rende più
difficile la fissazione di un confine tra il lecito e l’illecito nelle operazioni che
comportano un interesse.
Da sempre dunque, il problema della liceità dell’usura, di denaro o altro
oggetto fungibile, ha continuamente intrigato filosofi, teologi, moralisti e perfino
poeti: tra i pensatori nemici dell’usura ricordiamo Platone, Aristotele, San
Tommaso d’Aquino e Karl Marx.
In ogni tempo, la questione dell’usura ha impegnato a fondo le menti dei
legislatori di vari Paesi: per esempio, già nel II millennio a.C. il codice di
Hammurabi, composto di quasi trecento norme giuridiche, figura anche il tema
dell’interesse.
1
Questi sono gli etimi e i significati della parola usura: usura, dal tardo latino usuria, che deriva dal
latino usura, a sua volta da usus, participio passato di utor.
Nella Grecia antica, filosofi e pensatori di grande rilievo, quali Platone e
Aristotele, non si discostarono troppo da una valutazione negativa del carattere
dell’usura, anche se nella società in cui vivevano la proprietà privata della terra,
un alto grado di divisione del lavoro, il commercio (soprattutto marittimo) e
l’uso della moneta erano fenomeni già esistenti.
Ma la vera e propria trattazione del concetto di usura avviene nella Bibbia,
nel Deuterenomio, dove compaiono precetti contro chi pratica l’usura nei
confronti del proprio fratello. Il Deuterenomio formò uno dei cardini dell’etica
basata sulla fratellanza di sangue delle comunità ebraiche: in esso si statuiva la
solidarietà del mishpaha (clan) e l’esclusione del nokri (lo straniero) dai
privilegi e dagli obblighi della comunità; inoltre proibiva all’ebreo di ritrarre
qualunque neshek (interesse) dal proprio fratello, rendendolo lecito, invece, nei
confronti del nokri
2
.
Per tutto il Medioevo, qualsiasi forma di pagamento di interessi su somme
di denaro date e ricevute in prestito, fu considerata usuraia, e pertanto,
condannata dalla Chiesa come peccaminosa e vietata dalle leggi dello Stato
come reato; quanto alla possibilità ad esercitare l’usura nei confronti dello
straniero, questo avveniva da parte ebraica nei confronti dei cristiani, ma non nel
senso inverso, poiché i cristiani medievali non hanno considerato gli ebrei come
stranieri
3
.
Il filosofo e teologo che ebbe maggiore impatto sul pensiero etico-
economico nella Chiesa nel Medioevo, e che esercitò l’enorme influsso sui
pensatori religiosi e laici che lo seguirono, fu San Tommaso d’Aquino (1225-
1274) che considerava ogni forma di usura da condannare come innaturale e
quindi peccaminosa.
Nelle sue riflessioni sull’usura San Tommaso attribuisce al peccato
dell’avarizia la causa di tale pratica; mentre la società civile e le leggi positive
non condannano l’usura per opportunità politiche ed economiche, le leggi
2
Benjamin Nelson, Usura e cristianesimo, Firenze 1967, pag. 19-20
3
Jacques Le Goff, La borsa e la vita, , Roma 2001, pag. 16
ecclesiastiche non possono tollerare nessuna forma permissiva verso le attività
usuraie.
Con l’evoluzione dei traffici e con lo sviluppo di una nuova società
mercantile di tipo capitalistico, l’accezione del termine usura venne
restringendosi, fino a indicare la richiesta e la corresponsione di tassi esorbitanti
applicati ai prestiti in denaro, laddove un tasso moderato viene solitamente
chiamato interesse.
Con lo sviluppo delle tecniche produttive, con l’intensificarsi delle
comunicazioni e dei commerci, il panorama dell’Europa mutò profondamente: si
sviluppò sempre di più un’economia di tipo mercantile in cui anche il denaro
diventava una merce come le altre, una merce che aveva prezzo, un prezzo
costituito dal tasso di interesse.
Al di là di tutte le proibizioni religiose o civili il prestito a interesse
diventava sempre più un elemento insostituibile della vita economica; non a
caso nacquero a Firenze, Venezia, Milano, Siena i primi grandi banchieri,
specializzatisi nel fornire i capitali a compagnie mercantili e agli stessi sovrani
in cambio di interessi o di appalti vantaggiosi.
Nel corso del xv secolo si assiste in Italia alla nascita di un nuovo istituto di
credito al consumo, il cosiddetto “Monte di Pietà”. La locuzione, che traduce il
latino “Mons Pietatis” , indica “monte”, nel senso economico di cumulo, fondo
di valute, adibito a beneficio dei bisognosi, per fini di misericordia; in sostanza,
ci si sforza di applicare un rimedio all’usura, di trovarne una nuova fonte di
difesa in grado di garantire gli strati più deboli della società.
Ai primi del Cinquecento la chiesa cattolica per la prima volta si
pronunciava con un certo possibilismo sul problema dei prestiti di denaro a
interesse. Il Pontefice Leone X pur confermando la condanna generale
dell’usura, autorizzava il pagamento di piccole somme per le spese di gestione
dei Monti di Pietà.
Negli stessi decenni anche Martin Lutero (1483-1546), prende di mira l’
usura, attaccando tale pratica con la stessa risolutezza dei padri della Chiesa e
dei papi. Anzi nei suoi due Sermoni sull’usura del 1519 e del 1520, Lutero non
solo ribadisce che il prestito di denaro deve essere gratuito, ma, condanna anche
quel pagamento di un compenso previsto e ammesso dal diritto canonico.
Come se non bastasse, la messa in scena del Mercante di Venezia di
Shakespeare ebbe in Inghilterra l’effetto di ravvivare ulteriormente le dispute
dottrinali sull’usura: al nucleo ideale della commedia, il rapporto dell’uomo col
denaro, la critica rivolse l’attenzione al tema dell’usura che si presentava come
un importante problema sia economico che morale
4
.
La discussione sulla liceità o meno dell’interesse finanziario continuò
all’inizio del secolo XVII. I mercantilisti, pur credendo nella produttività della
moneta, erano in favore dell’accumulazione di capitale monetario, e perciò
contrari all’esazione di interessi eccessivi. Nel 1625 il filosofo Francesco
Bacone, nel noto saggio sull’usura Of Usurie si pronuncia in favore dell’usura,
fenomeno che il filosofo considera inevitabile e per questo da regolamentare
attraverso le leggi; il completo rovesciamento della posizione aristotelica
sull’usura avviene però nel Settecento a opera di uomini ‘moderni’ il cui
pensiero è fortemente condizionato dalle nuove idee dell’ Illuminismo: questi
affrontarono problemi dell’economia politica e del commercio comprese le
questioni relative all’interesse finanziario.
Verso la fine del Settecento, la Rivoluzione francese segna la fine di
un’epoca, tanto in politica quanto in economia e l’Assemblea Nazionale del
1789, riconosciuta dal re Luigi XVI e proclamatasi in Costituente, deliberò la
soppressione del regime feudale e la dichiarazione dei diritti dell’ uomo e del
cittadino; fra le varie libertà proclamate, c’era anche la libertà del commercio e
del credito.
4
J. Wilders, Shakespeare - The Merchant of Venice: a selection of critical essays, Londra 1969, pag.
17
Ai primi dell’ Ottocento, il codice napoleonico riconosceva l’autonomia
dell’iniziativa privata in campo economico, garantendo il diritto di proprietà e
concedendo, all’articolo 1905, la facoltà di “stipulare interessi per il semplice
prestito di denaro, di derrate o di altra cosa mobile”.
Anche la Chiesa cattolica, da allora in poi, di norma non avrebbe più
condannato l’interesse finanziario in genere, ma si sarebbe limitata alla sola
condanna dei tassi usurari
5
.
5
Cfr..M. Gelpi e F.Julien-Labruyère, Storia del credito al consumo , Bologna, 1994 p.135.
1.2 Nella Bibbia
La Bibbia, divisa in Vecchio e Nuovo Testamento, per gli Ebrei è soltanto
il Vecchio Testamento. L’Antico Testamento si divide in tre parti: la Legge o
Pentateuco, perché in cinque libri, e cioè Genesi, Esodo, Levitico, Numeri,
Deuteronomio; i Profeti, in otto libri; i Libri storici e i Libri poetici e sapienziali.
Tra i passi dei testi sacri della legge ebraica che si pronunciano
esplicitamente contro l’esazione dell’interesse finanziario vanno ricordati
l’Esodo, il Levitico e il Deuteronomio. Le proibizioni che riguardano l’usura
nell’Antico Testamento sono:
nell’Esodo: “se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo,
all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non
dovete imporgli alcun interesse”
6
.
nel Levitico: “se tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è
privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere
presso di te; non prendere da lui interessi né utili; ma temi il tuo Dio e fa vivere
il tuo fratello presso di te; non gli presterai denaro a interesse, né gli darai il vitto
a usura”
7
.
nel Deuterenomio: “non farai al tuo fratello prestiti ad interesse, né di
denaro né di viveri, né di qualunque cosa che si presta ad interesse.
Allo straniero potrai prestare ad interesse, ma non al tuo fratello, perché il
Signore tuo Dio ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano, nel Paese in cui stai
per andare a prendere possesso”
8
.
I seguenti passi sono esecrazioni e ammonimenti che in vario modo
rafforzano i precedenti divieti presenti nel Neemia, nei Salmi, nei Proverbi, in
Geremia e in Ezechiele
9
:
6
Esodo, 22, 24
7
Levitico, 25, 35-37
8
Deuterenomio, 23, 20-21
9
Ezechiele, profeta e sacerdote, visse nel periodo dell’esilio degli ebrei a Babilonia dopo la
deportazione del 597 a.C.
Neemia esorta i prestatori di denaro a condonare i debiti o a non
esigere interessi dai propri fratelli;
nei Salmi viene annunciato che chi presta denaro senza fare usura,
abiterà la tenda del Signore;
Geremia condanna l’usura offrendo il proprio esempio di uomo
giusto ai propri fratelli;
Ezechiele ammonisce chi presta a usura ed esige interesse, perché
non vivrà, costui morirà e dovrà a se stesso la propria morte.
Il tema dell’usura viene indirettamente toccato anche in almeno due passi
dei Vangeli, quelli di Matteo e di Luca, nei quali il cristiano viene esortato non
solo a concedere prestiti in denaro, ma a farlo senza speranza di riceverne
mercede.
Nei Vangeli, tuttavia, si trovano anche due famose parabole, di Matteo e di
Luca, il cui insegnamento sembra contraddire il principio dell’illiceità di ogni
forma di prestito oneroso.
Secondo quanto narra Matteo
10
, un uomo, in procinto di mettersi in viaggio,
distribuisce ai servi alcuni talenti, assegnandoli in base alla sua fiducia nella loro
capacità di metterli a frutto. Al ritorno del padrone, il servo che aveva ricevuto
cinque talenti gliene rende dieci, e quello che ne aveva avuti due, ne restituisce
quattro. Il servo, invece, al quale era stato affidato un talento solo, avendolo
sotterrato per timore di perderlo e di sfigurare agli occhi del padrone, non può
che restituire una moneta sola.
Il padrone allora elogia e premia i due servi intraprendenti e operosi, che
hanno saputo mettere a frutto il capitale ricevuto, mentre biasima e condanna il
servo “malvagio e infingardo” dicendogli: “Avresti dovuto affidare il mio
denaro a banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse”. E
aggiunge: “Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha dieci talenti e il servo
fannullone gettatelo fuori nelle tenebre”.
10
Cfr. 25, 14-28
La versione di Luca
11
differisce sostanzialmente soltanto per il numero dei
servi e per il numero e il tipo delle monete affidate alla loro custodia, ma
riconferma l’approvazione dell’avvenuto impiego del denaro e la ricompensa
dell’operosità capace di moltiplicare la ricchezza, ribadendo la condanna della
sterile tesaurizzazione della moneta.
Secondo Barbieri, “le parabole dei talenti e delle mine giustificano non solo
l’operosità, capace di moltiplicare il denaro, ma prevedono, forse, anche la
liceità di riscuotere dalle banche gli interessi dei propri depositi”. Si tratterebbe
di far distinzione tra il “mutuo per il consumo immediato”, la cui condanna è
drastica e perentoria, e il “prestito con funzione economica”, e cioè l’apporto di
capitale nuovo all’imprenditore già in possesso di mezzi finanziari, fenomeno
che giustifica il percepimento di un interesse. Affermazione questa, che, pur
mitigata dall’avverbio dubitativo forse, sembra un po’ audace; tant’è vero che il
Barbieri stesso finisce col concludere, “ma in tale argomento il Vangelo, come
legiferatore di principi valevoli per tutti i secoli, non si è pronunciato”
12
.
Secondo G. Ragazzini l’Evangelista ha inteso privilegiare il valore
simbolico della parola “talento”, un dono di Dio all’uomo, una dote naturale da
saper sfruttare ed ha attribuito a tale termine lo spazio del pensiero etico e non
quello della dottrina economica
13
.
11
Cfr. 19, 12-26
12
G. Barbieri, Le dottrine economiche nel pensiero cristiano, Milano, 1954 p. 1115
13
G. Ragazzini, Breve storia dell’usura, Bologna 1994, pag. 20-23
1.3 Nella Grecia classica
I grandi filosofi e pensatori dell’antica Grecia analizzarono con interesse il
fenomeno dell’ usura evidenziando soprattutto gli aspetti negativi.
Platone e Aristotele portarono avanti un discorso lineare e preciso del
concetto di usura. Nella sua opera più significativa sotto il profilo delle teorie
economiche che vi sono esposte, La Repubblica, Platone (427-347 a.C.) esprime
un giudizio di biasimo assoluto per ogni pratica usuraria
14
. Tale giudizio
negativo è ribadito, nei Dialoghi, nei capitoli V e XI delle Leggi
15
.
Nella sua Repubblica, Platone aveva dato come necessari alla città solo l’
agricoltore, il tessitore, il muratore ed il cuoiaio, e, solo in linea inferiore, il
negoziante ed il banchiere, privilegiando, così, un livellamento comunistico.
Per questo motivo fu molto criticato da Aristotele, il quale lo accusava di
aver ragionato solo in base al criterio del minimo vitale, quasi che la vita di
collettività si identifichi in un semplicemente vivere, mentre bisogna piuttosto
vivere bene.
Nelle Leggi, Platone affronta a più riprese l’argomento dell’interesse.
Nessuno, per esempio, deve depositare denaro presso chi non è di sua
fiducia, né darlo in prestito per interesse: la legge, infatti, non obbliga chi ha
ricevuto il prestito a pagare l’interesse o a restituire il capitale.
Deve, inoltre, essere condannato a pagare il doppio, chi ricevuto, una
prestazione d’opera, in anticipo sul pagamento, non la ricambi pagando la
ricompensa nel tempo convenuto. Platone insiste sul punto precisando che se
passato un anno, costui pagherà anche l’interesse di un obulo al mese per ogni
dracma del prezzo del lavoro, e questo a prescindere dal fatto che fosse proibito
in ogni altro caso a trarre interessi dal danaro. Si nota quindi la posizione di
estrema condanna di Platone, per il quale il debitore, salvo il caso di mora, non è
tenuto a restituire neanche il capitale ricevuto.
14
La Repubblica, VIII, 555
15
Leggi, V, 742
Per Platone la moneta era un simbolo escogitato per facilitare gli scambi
16
;
tutto ciò era funzionale a teorie, secondo le quali il valore della moneta è, in
linea di principio, indipendente dalla materia di cui è composta. Da ciò discende
la sua ostilità verso l’uso dei metalli preziosi ed il suo sostenere la possibilità di
una moneta a circolo chiuso.
Aristotele (384-322 a.C.), definito “il primo economista analitico”, porta
avanti il pensiero platonico sulla moneta e sul guadagno. Il Philosophus,
analizzando la ricerca del bene e della felicità, viene ad inquisire “su di una cert
’altra opinione meno ragionevole la quale pone la felicità in ciò che ha ragione
di bene utile, cioè il denaro. E ciò ripugna al concetto di fine ultimo. Infatti si
dice utile una cosa per il motivo che essa è ordinata ad un fine: siccome il
denaro presenta una utilità universale nei riguardi di tutti i beni temporali, ne
discenderebbe che tale opinione, riponente nel denaro la felicità, avrebbe una
certa probabilità. Ma Aristotele la respinge per due ragioni. La prima è che il
denaro si acquista per mezzo di violenza e con la violenza si perde. Ma ciò non
conviene alla felicità che è il fine delle azioni volontarie: quindi la felicità non
consiste nel denaro. La seconda ragione è che noi cerchiamo la felicità quale
bene che non sia ricercato in ragione di altro. Il denaro invece è cercato in
ragione di altro, perché precisamente ha ragione di bene utile, quindi la felicità
non consiste nel denaro”
17
.
Per questo motivo aggiunge che “quella vita che si incentra nel denaro, è
violenta. Le ricchezze stesse non sono ciò che chiamiamo bene, sono infatti utili
e ricercate in vista di altro”
18
.
Quanto dunque alla valutazione economica, è pienamente riconosciuta in
Aristotele la necessità e la funzione della moneta, senza abbandonarsi ad
utopismi platonici.
Per Aristotele, proprio come la proprietà ha due usi - l’uno proprio della
16
De Repubblica, 2, 321
17
Super Ethica I, c.5
18
Ethic,l.I, c.5
cosa posseduta (oggi diremo valore d’uso), l’altro per effettuare scambi (valore
di scambio) -, così vi sono due modi di guadagnare: lo scambio, o baratto, e l’
accumulazione capitalistica. Perciò la moneta agisce in due modi diversi nel
processo economico per dirla con Roll, “come intermediario degli scambi, la cui
funzione si esaurisce nell’ acquisizione del bene richiesto per la soddisfazione di
un bisogno; e nella forma di capitale monetario, che conduce gli uomini a un
desiderio di accumulare senza fine.
Per la prima volta nella storia del pensiero economico viene stabilita la
distinzione tra capitale monetario e capitale reale
19
.
Ne consegue che il modo più riprovevole di procurarsi un guadagno è
quello in cui l’individuo si serve della moneta stessa al fine di accumulare altra
moneta, cioè l’usura.
La vera funzione della moneta è quella che si ha nello scambio e non quella
per cui la moneta si accresce mediante l’interesse
20
. Infatti, la moneta è, per sua
natura, “sterile”; con l’ usura, invece, essa prolifica; ed è proprio per questo che
l’ usura è il modo più innaturale di guadagnare. Non sorprende perciò, che
quando la dottrina cristiana medioevale cercò di condannare gli aspetti ritenuti
più riprovevoli del commercio - la ricerca del guadagno come fine a se stesso e
particolarmente l’ usura - , essa cercò in Aristotele un riferimento.
In Grecia, il prestito commerciale si sviluppa e diventa, a partire dal V secolo,
un fattore della prosperità economica del paese. Nonostante le teorizzazioni di
numerosi filosofi che avevano a lungo disquisito sull’illiceità dell’usura, la
Grecia antica non ebbe mai, a differenza di Roma, una legislazione atta a
regolare l’interesse e a reprimere il fenomeno usurario. Nel corso della sua
storia, il prestito a interesse fu sempre ammesso anche con tassi piuttosto elevati.
Soltanto molto tempo dopo, quando divenne provincia romana, la Grecia praticò
tassi inferiori.
19
E. Roll, Storia del pensiero economico , Torino, 1966, p.23
20
La Politica,I,10, 1258 a e b