dalla legge, né con pene che non siano da esse stabilite”, e riaffermato
dall’art. 25, secondo comma della Costituzione secondo la quale
“Nessuno può esser punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso”.
Dal principio anzidetto, derivano le seguenti conseguenze,
concettualmente diverse ma complementari fra di loro:
in primo luogo fonte del diritto penale, per quanto attiene il
presupposto (i reati), nonché le conseguenze (le pene), può esser
soltanto la legge, intendendo per tale sia la legge in senso
“formale” (art. 72 Cost.) sia gli atti ad essa equiparati (i “decreti
legislativi” ex art. 76 Cost. e i “decreti legge” art. 77 Cost.),
concretizzando in tal modo il principio della riserva di legge. Al
riguardo, secondo un indirizzo adottato anche dalla Corte
Costituzionale in numerose sentenze
1
, la riserva di cui all’art. 25
Cost., avrebbe carattere relativo, pur sempre entro ambiti
rigorosamente delimitati dalla normazione primaria, ciò si
1
Con sentenza del 17 marzo 1966 n. 26 è stato affermato: “…la Corte ha avuto diverse
occasioni di escludere l'illegittimità di disposizioni legislative, le quali, nel comminare una
sanzione penale, si rimettevano, per la specificazione del contenuto di singoli, definiti
elementi della fattispecie considerata nel precetto penalmente sanzionato, ad atti non dotati
di valore di legge”;
- Con sentenza del 27 marzo 1969 n. 61 la Corte ha dichiarato: “…con la sentenza n. 26 del
1966 questa Corte ha deciso che il principio di legalità della pena può considerarsi
soddisfatto quando la legge indichi con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il
contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla trasgressione dei
quali deve seguire la pena”;.
- Nella sentenza del 25 marzo 1971 n. 69 la Corte ha sostento: “ la norma impugnata non ha
violato l'invocato principio costituzionale, rimettendo alla fonte regolamentare la
specificazione di elementi predeterminati dalla legge”
- Ed infine nella sentenza del 5 luglio 1971 n. 168 si dispone:“… il principio di legalità non
è violato quando sia una legge dello Stato - non importa se proprio la medesima legge o
un'altra legge - a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il
contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla cui trasgressione
deve seguire la pena".
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desume dalla genericità della formula utilizzata dal legislatore
costituzionale, che vieta la punibilità “in forza di una legge…”
antecedente al fatto. Viene in tal modo ammessa un’eventuale
devoluzione, in favore delle fonti secondarie, di una funzione
d’integrazione della legge, entro i limiti da quest’ultima
prefissati, ciò al fine di scongiurare, nella sostanza, di svuotare il
principio della riserva di buona parte del suo contenuto di
garanzia. In particolare si può ritenere che i regolamenti e le altre
fonti mediate acquisiscano rilievo quali semplici presupposti di
fatto in situazioni nelle quali deve ritenersi tuttavia che non sia
consentito prescindere, da parte della norma penale, da
sufficienti elementi di specificazione della fonte secondaria
chiamata ad integrarla.
in secondo luogo il fatto che dà luogo all’applicazione di una
pena, deve essere previsto dalla legge in modo “espresso”,
rendendo quindi necessario il carattere della “tipicità” o
“determinatezza” della fattispecie criminosa (principio di
tassatività). La norma contenuta nel secondo comma dell’art. 25
della Costituzione risulta essere, in tal senso, meno garantista
rispetto alla disposizione dell’art. 1 c.p., in quanto l’espressione
“fatto commesso” utilizzata dal legislatore costituzionale, si
riferisce, secondo parte della dottrina, alla necessaria
preesistenza della legge rispetto al comportamento tenuto, al
contrario il legislatore ordinario richiede necessariamente la
“previsione espressa” della fattispecie criminosa, nel senso che la
11
norma penale incriminatrice non può avere un contenuto
indeterminato
2
.
Il principio di legalità, sotto un profilo strettamente giuridico
importa il divieto per il giudice di infliggere le sanzioni al di fuori dei
casi tassativamente previsti dalla legge e di applicare pene diverse da
quelle contemplate nella stessa. Quindi un divieto di analogia, affermato
in modo esplicito nell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale,
secondo cui “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad
altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Ne
risulta conseguentemente che l’ordinamento penale è un ordinamento
chiuso nel quale l’unica fonte è il diritto positivo. La ragione di tale
divieto, secondo parte delle dottrina
3
, va ricercata nella necessità,
tutelata dall’ordinamento, di garanzia dei diritti fondamentali della
persona minacciati da norme di creazione squisitamente
giurisprudenziali, ad opera di un potere giudiziario a volte
subordinato al potere politico o esecutivo, realizzate attraverso
l’estensione analogica.
Per quanto attiene il divieto di analogia, la dottrina si è
interrogata innanzitutto se tale divieto sia relativo alla sola cd. analogia
in malam partem, con conseguente ammissibilità della cd. analogia in
bonam partem, tesi quest’ultima supportata innanzitutto dal dettato
dell’art. 1 c.p. il quale vieta la punibilità delle fattispecie che non siano
espressamente previste dalla legge come reati, tralasciando, secondo
l’opinione prevalente, le norme penali favorevoli. Tale indirizzo trova
2
Così I. Caraccioli , Manuale di diritto penale, Padova, ed. Cedam, 2000, pag. 28.
3
Cfr. I. Caraccioli, Manuale di diritto penale op. cit., pag. 29; G. Bettiol - R. Bettiol,
Istituzioni di diritto e procedura penale, Padova, ed. Cedam, 1995, pag. 69
12
fondamento anche nella stessa ratio del divieto - la tutela per il
cittadino dalle arbitrarie incriminazioni da parte dell’autorità
giudiziaria - secondo la quale è preferibile che si evidenzi un “vuoto”
normativo, eventualmente colmabile dal legislatore, piuttosto che
riconoscere al giudice un “pericoloso” potere di estensione
discrezionale delle norme incriminatici. Pericoli che non esistono al
contrario nell’ipotesi dell’analogia in bonam partem, che, qualora
applicata, determinerebbe conseguenze solo in termini di minore rigore.
Parte della dottrina sostiene, al contrario, l’inammissibilità anche
dell’analogia in bonam partem, in quanto la sua ammissibilità potrebbe
finire con il conferire un eccessivo potere al giudice penale,
discrezionalità potenzialmente concretizzabile in un difetto di tutela
per le parti offese dal reato e per la collettività in genere
4
. Secondo tale
interpretazione, la ratio del divieto di analogia in materia penale non è
limitata alla protezione del solo autore del fatto, ma al contrario
corrisponde all’esigenza di arginare il potere discrezionale del giudice
penale nell’applicazione delle norme penali.
Ci si è posti inoltre in dottrina un ulteriore quesito, in particolare
se il divieto di analogia in materia penale sia costituzionalizzato dal
secondo comma dell’art. 25 della Costituzione, scongiurando in tal
modo un’eventuale rimozione di detto divieto attraverso una modifica
degli artt. 14 delle disposizioni sulla legge in generale e 1 del codice
penale ad opera del legislatore ordinario, o se al contrario esso sia
4
In tal senso F. Bricola , La discrezionalità nel diritto penale, Milano, ed. Giuffrè,1965, pag.
303; P. Nuvolone, Le leggi penali e la Costituzione: principio dell'irretroattivita, personalita
della responsabilita penale, libertà di opinione, associazione, riunione, di stampa, di
espressione artistica, religiosa, diritto di sciopero, misure di pubblica sicurezza,Milano, ed.
Giuffrè, 1953, pag. 131; F. Ramacci, Istituzioni di diritto penale, 2° ed.,Torino, G.
Giappichelli,1992, pag. 154 ss.
13
derogabile da questo ultimo in quanto non sancito nella nostra Carta
fondamentale. Qualora fosse accolta quest’ultima tesi, con la modifica
dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale e dell’art. 1 del
codice penale verrebbe nella pratica riconosciuto in capo al giudice il
potere di creare norme penali, vanificando in tal modo il “monopolio
legislativo” che è alla base dell’ordinamento penale.
In conclusione possiamo affermare che l’analogia, secondo un
indirizzo ormai consolidato, non è ammessa per le norme penali, sia in
bonam che in malam partem, ed inoltre tale divieto non può esser
rimosso dal legislatore ordinario in quanto è stato costituzionalizzato.
Va in fine precisato che diversa dall’estensione analogica è
l’interpretazione estensiva del diritto penale, ammessa in quanto
rappresenta una tecnica che consente all’interprete di operare
rimanendo all’interno della norma. Spesso si creano inevitabilmente
nella legge degli spazi vuoti che spetta all’interprete colmare, ma
questo ultimo non crea il diritto, in quanto tale compito spetta alla
legge, ma concorre alla sua creazione, integrando, ove occorra, le
disposizioni legislative.
3. Il principio dell’irretroattività della legge penale
Per quanto concerne il problema della successione delle leggi, in
via generale, l’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile
stabilisce:“la legge non dispone che per l’avvenire; essa non ha effetto
retroattivo”. Il principio dell’irretroattività della legge importa innanzitutto
che la norma giuridica non si applichi a fatti o rapporti sorti prima che
la medesima sia entrata in vigore e si completa con il principio della
14
non ultrattività della legge, in base al quale quest’ultima non si applica a
fatti verificatesi dopo la sua estinzione. I due principi anzidetti
implicano che la legge abbia efficacia circoscritta al tempo in cui questa
è in vigore.
In particolare, in materia penale il primo comma dell’art. 2 del
codice penale accoglie il principio generale anzidetto attraverso la
formula “Nessuno può esser punito per un fatto che, secondo la legge del
tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”; così nello stesso modo il
secondo comma dell’art. 25 della Costituzione dispone che “Nessuno
può esser punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima
del fatto commesso” fissando così il principio di legalità in materia penale,
come precedentemente ricordato, e costituzionalizzando allo stesso
tempo quello della non retroattività della legge penale.
Il principio dell’irretroattività della legge penale completa il
quadro già delineato dal principio di legalità, rafforzando la garanzia
in favore dei cittadini che dovranno, o per lo meno potranno, sapere se
il loro comportamento, nel momento in cui agiscono, è lecito o meno, e
in questo ultimo caso quali sono le conseguenze, quindi le pene
previste per il loro agire.
Accanto al principio generale di cui all’art. 2 primo comma del
codice penale nel campo della materia di cui trattasi si è affermato da
tempo il principio della retroattività della legge più favorevole, che deroga la
regola generale anzidetta estendendo l’efficacia della disposizione a
fatti o rapporti sorti prima che la medesima entrasse in vigore.
In particolare il secondo comma dell’art. 2 c.p. in base al quale
“Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore,
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non costituisca reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli
effetti penali” regola l’ipotesi in cui una legge posteriore non consideri
più come reato un fatto che in precedenza era punito (c.d.
depenalizzazione). In tale ipotesi, lo Stato non ritenendo più un fatto
contrario agli interessi della comunità riconosce che la punizione, così
come l’esecuzione della pena già inflitta, non hanno più ragione di
sussistere.
Un’ulteriore deroga al principio della irretroattività della legge
penale è quella prevista dal terzo comma dell’art. 2 c.p. secondo cui “Se
la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile“. Si concretizza in tal modo l’effetto
retroattivo della legge posteriore, qualora questa introduca
modificazioni favorevoli al reo, cioè preveda, in ordine alla medesima
ipotesi, conseguenze meno gravose, non solo in termini di durata e
specie della pena, ma anche in rapporto alle circostanze attenuanti o
aggravanti, alle pene accessorie, alle misure di sicurezza e così via.
Diversamente dalla fattispecie di cui al secondo comma del medesimo
articolo, la sua efficacia non è però incondizionata, avendo luogo
soltanto nel caso in cui non sia intervenuta una sentenza irrevocabile.
La ratio della deroga va ravvisata nell’esigenza di adeguare la nuova
disciplina più mite anche ai fatti posti in essere in precedenza, simile
sostanzialmente alle ipotesi disciplinate dal secondo comma dell’art. 2
c.p., anche se meno incisiva in quanto non viene meno la
riprovevolezza sociale del fatto.
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Il principio della retroattività della legge più favorevole non si
applica nei confronti delle leggi eccezionali e temporanee, in
particolare il quarto comma dell’art. 2 c.p. introduce una deroga alle
deroghe di cui al secondo e terzo comma disponendo che “se si tratta di
leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi
precedenti”. Ne consegue che nelle ipotesi contemplate da tali leggi si
applica sempre la disposizione che era in vigore nel tempo in cui il
fatto è stato commesso, anche se la successiva lo punisca meno
gravemente o addirittura non lo consideri più come reato; se così non
fosse gli autori dei reati, sapendo in precedenza che tali norme sono
destinate a perdere efficacia dopo un certo tempo, avrebbero la
possibilità di eludere le sanzioni, soprattutto per i fatti commessi
nell’imminenza dello scadere del termine o verso la fine dello stato
eccezionale.
4. Il principio di territorialità
La legge penale non incontra limiti soltanto nel tempo, ma anche
nello spazio. In particolare la legge penale, a norma dell’art. 3 c.p.
“...obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello
Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno e dal diritto
internazionale”, per territorio dello Stato deve intendersi, ai sensi
dell’art. 4 cpv. del codice penale: a) il territorio della Repubblica; b) ogni
altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato“.
Il reato si considera commesso in Italia, a norma dell’art. 6 c.p.
quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è avvenuta qui, in tutto
o in parte, oppure vi si è verificato l’evento.
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Ne consegue che la sfera di efficacia della legge penale è
delimitata dal territorio dello Stato, obbligando tutti coloro che vi si
trovino, siano cittadini, stranieri o apolidi. Il principio della
territorialità è una conseguenza immediata della sovranità statale, la
quale esige che sia riconosciuta validità solo alle disposizioni statali,
con esclusione delle regole emanate da ogni altro ordinamento
giuridico.
In deroga a tale principio sono punibili dallo Stato italiano, e
secondo le leggi italiane, alcuni reati commessi all’estero, in ragione del
bene giuridico di specialissima importanza che essi hanno offeso,
appartengono a questa categoria i reati di cui all’art. 7 c.p. (delitti
contro la personalità dello Stato, delitti di contraffazione del sigillo
dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto ecc.), nonché i delitti
politici commessi in territorio estero da cittadini o stranieri (art. 8 c.p.),
intendendosi per tali sia quelli che offendono un interesse politico dello
Stato o un diritto politico del cittadino e sia quelli determinati in tutto o
in parte da motivi politici.
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