I. Il Northern Ireland Act 1998 tra devolution e power
sharing
I.1 La svolta devolutiva britannica tra il 1997/1998
Negli ultimi decenni la ripartizione del potere, tra Stato centrale ed altre
entità territoriali dotate di autonomia, ha assunto una notevole importanza nel
dibattito politico interno di molti paesi occidentali. Accanto alla sovranità
dell’ente-stato si è così riconosciuta la rilevanza di interessi locali: questo non
solo nei casi degli Stati che hanno adottato soluzioni federaliste ( come la
Repubblica Federale Tedesca, e il Belgio), ma anche in quegli stati che hanno da
ultimo optato per una ridistribuzione delle competenze attraverso la
regionalizzazione ( come l’Italia la cui Costituzione Repubblicana prevedeva sin
da principio uno stato regionale, e la Spagna nel solco tracciato dal Titolo VIII
della Costituzione del 1978 ).
Gli interessi delle comunità regionali possono emergere attraverso vari
schemi che vanno dall’istituzione di semplici regioni amministrative,
all’istituzione di vere e proprie regioni politiche, le quali basano la legittimazione
dei propri organi di governo sull’applicazione del principio elettorale. Attraverso
le urne, gli aventi diritto possono eleggere quegli organi regionali, che risultino
titolari di determinate competenze assegnategli dagli organi centrali.
5
Con il termine Devolution s’intende quindi, il processo di riallocazione delle
competenze (amministrative, esecutive e legislative) posto in essere dagli organi
centrali dello stato, verso le unità territoriali.
La campagna elettorale per le elezioni politiche nel Regno Unito del 1997,
tra il Conservative Party del Premier John Major e il Labour Party guidato da Tony
Blair, ha visto entrare prepotentemente nel dibattito politico britannico la
1
necessità di “restituire un qualche carattere della democraticità di base” ad una
politica nazionale, che per quasi un ventennio era stata monopolizzata da un
lungo periodo di governo conservatore (1979-1997), e dalle sue politiche
marcatamente centralizzate.
Per quasi 20 anni infatti le istanze autonomiste delle cosiddette regioni
celtiche del Regno Unito (Scozia,Galles e Irlanda del Nord) non trovarono alcuna
sponda nei governi Tatcher-Major che si sono succeduti a Westminster; anzi fu
proprio durante il suo secondo mandato (caratterizzato dagli strutturali tagli al
welfare state britannico) che il primo ministro inglese Margaret Tatcher ottenne
anche la soppressione del Greater London Council, ultimo baluardo di organo di
governo amministrativo decentrato i cui poteri si estendevano attorno l’area
metropolitana della capitale inglese.
Al ritorno al governo nel 1997, il Labour Party dovette così affrontare sin
dall’inizio le crescenti aspettative che il proprio elettorato aveva coltivato verso
un processo di trasferimento di poteri dal centro, delle tradizionali istituzioni di
1
Torre, Devolution e Regionalismo nel Regno Unito, in Studi sui rapporti internazionali e
comunitari delle Regioni, a cura di Buquicchio, Bari, Cacucci, 2004, p 8
6
Westminster, alle “aree periferiche” del Regno Unito. La devolution of powers
era infatti parte integrante del manifesto politico del Labour, che proprio nelle
“aree celtiche” vedeva le sue roccaforti elettorali: in particolar modo i collegi
gallesi e scozzesi erano da sempre considerati veri “serbatoi di consensi”,
differentemente da quelli dell’Irlanda del Nord, in cui per tradizione, i maggiori
partiti non s’ erano mai identificati nel binomio Lab- Con, ma trovavano soluzioni
del originali rispetto al resto del regno.
La devolution, processo consistente nell’adozione di formule di governo
decentrato e quindi per loro natura più prossime ai cittadini, venne presentata
così dal New Labour come la soluzione alla crisi di democraticità in cui versava il
Regno Unito. Con crisi di democraticità non è da intendersi che il Regno Unito
abbia mai corso il rischio di un involuzione democratica della propria forma di
stato, verso un qualche autoritarismo; questa piuttosto era riferita a diversi
fattori tra i quali non ultimi un governo monopolizzato da un partito per quasi 20
anni, la mancanza di una qualsiasi forma di autonomia per gli enti territoriali e,
non ultima la supremazia del parlamento Londinese, il quale non prevedeva
concorrenti nell’esercizio del potere legislativo.
A fronte di ciò gli anni 90 riproposero in maniera decisa la questione
territoriale e la necessità di lasciare all’interno del territorio parte dell’iniziativa
politica. Il processo devolutivo, inserito dapprincipio nell’agenda di governo, ha
subìto nel 1998 un’ improvvisa accelerazione con l’emanazione, a distanza di
poche settimane l’una dall’altra, di tre Act parlamentari.
7
Con questi, Westminster, istituiva 3 Assemblee regionali (per l’esattezza
nel caso scozzese si tratta dell’istituzione di un vero e proprio Parlamento) e
altrettanti esecutivi locali, assegnando loro poteri e competenze in maniera
differenziata. Con lo Scotland Act 1998, il Government of Wales Act 1998, e il
Nortern Ireland Act 1998 Londra aveva virato in maniera decisa verso una forma
di regionalizzazione del Regno Unito dai chiari caratteri asimmetrici.
La scelta di una devoluzione variamente graduata, contrariamente
all’adozione di una regia unica che guidasse il trasferimento di competenze alle
nuove strutture locali, è stata il frutto di una precisa volontà del legislatore.
Una volontà politica che doveva, per forza di cose, fare i conti le differenti
esigenze che si fronteggiavano nelle tre regioni periferiche. Così, mentre in
Scozia, dove le spinte autonomistiche erano storicamente più forti, è stato
istituito un vero Parlamento con competenze normative primarie, in Galles ,la
prossimità e in parte omogeneità con l’Inghilterra,hanno fatto si che si creasse
una sorta di “sperimentazione costituzionale” attraverso la nascita di un’
Assembly con poteri legislativi secondari.
E’ stata però l’Irlanda del Nord, la terza delle regioni periferiche, a
presentarsi sin da subito come la sfida più complicata per il primo Governo Blair:
il compito era quello di porre fine al direct rule londinese (governo diretto) che si
protraeva da quasi 30 anni, attraverso l’istituzione di una New Assembly la cui
legittimità fosse unanimemente riconosciuta.
8
La peculiarità della regione Nord-Irlandese non poteva così non vedere una
risposta unica nel suo genere. L’esigenze devolutive non potevano difatti lasciare
il passo alla concreta necessità di democraticità, inclusione sociale che le
istituzioni locali non avevano mai avuto nella precedente esperienza di Home
Rule. Il N.I.A.1998, ha assunto così sin da subito un ruolo ulteriore a quello della
semplice legge devolutiva di competenze: quello di compromesso tra le differenti
esigenze di autonomia e riconoscimento politico, di entrambe le comunità.
I.2. Dal Belfast Agreement al Northern Ireland Act 1998
Il N.I.A. 1998, testo che ha posto in essere le condizioni di un nuovo
autogoverno nelle sei contee, deve quindi essere letto e analizzato come il
risultato del lungo processo di trattative tra i governi britannico e irlandese e i
maggiori partiti dell’Ulster. Questo ha trovato conclusione solo il 10 Aprile del
1998, con i rappresentanti dei maggiori partiti di entrambe le comunità (cattolica
e protestante) firmatari del “ The Agrement reached in the Multy-Party
2
Negotiations”, più comunemente ed erroneamente indicato come il Belfast
2
I partiti firmatari del “The Agreement reached in the Multy Party Talks” furono per l’esattezza 7
degli 8 partecipanti ai negoziati. Tra i firmatari del documento c’erano il maggiore partito
protestante l’Ulster Unionist Party e il maggior partito cattolico l’SLDP. Gerry Adams delegato per
il Sinn Feinn, partito politico repubblicano legato da sempre all’Ira, partecipò ai negoziati senza
firmare il documento precisando che solo l’Ard Fheys (l’assemblea generale dei delegati) avrebbe
potuto farlo. L’Ard Fheys approvò l’ accordo successivamente con una maggioranza del 96%. Il
DUP, allora secondo partito protestante per numero di consensi, decise di abbandonare i
negoziati nel momento in cui fu ammesso il Sinn Fein.
9
Agreement. L’Accordo Multipartitico seguì sostanzialmente tre linee guida
(strands ) che tracciavano la via riguardo, le relazioni interne all’Irlanda del Nord
(Strand One), le relazioni tra Nord e Sud (Strand Two) e le relazioni britannico
irlandesi (Strand Three).
Il Belfast Agreement in realtà, così come presentato a Westminster dal
governo Blair nel Command paper 3838, non è un unico testo ma è composto da
2 parti distinte l’una dall’altra: le prime 26 pagine riportano punto dopo punto
l’accordo politico siglato da 7 dei maggiori partiti dell’ Irlanda del Nord ( si tratta
del citato Multy-Party Agreement), le successive 3 pagine riportano invece
l’accordo raggiunto tra due stati sovrani il Regno Unito e l’Eire, che va sotto il
nome di British-Irish Agreement.
Nella stessa giornata del 10 Aprile 1998, i due governi per mano dei
rispettivi rappresentanti, Tony Blair e Marjorie Mowlan per il Regno Unito e
Bertie Ahern e David Andrews per la Repubblica, firmarono poi un accordo
(British Irish Agreement) in cui, oltre a manifestare soddisfazione per il risultato
politico raggiunto dai partiti nord-irlandesi, s’impegnarono solennemente a
supportare e, ove necessario, adottare i vari strumenti legislativi al fine di porre
3
in essere la “soluzione costituzionale” già fatta propria dai partiti attraverso la
firma del Multy Party Agreement.
Il British Irish Agreement è andato quindi, per sua espressa previsione, a
sostituire il precedente accordo internazionale, l’ Anglo Irish Treaty, firmato ad
3
“The two Government affirm their solemn commitment to support and where appropriate
implement, the provision of the Multi-Party Agreement” Par.2 British-Irish Agreement 1998
10
Hillsborough nel 1985. Il BIA a differenza del MPA, non è stato quindi solo un
accordo tra rappresentati di diversi schieramenti politici su alcune linee
programmatiche da seguire per porre fine al direct rule britannico, ma è stato un
vero e proprio trattato internazionale tra Stati sovrani legato per necessità al
successo della soluzione devolutiva illustrata nel Multy Party Agreement.
Il Belfast Agreement vedeva così al suo interno due corpi distinti che al
contempo erano indissolubilmente legati l’uno dall’altro: dal mantenimento dei
risultati raggiunti nell’accordo tra i partiti dipendeva il BIA, il quale forniva al
stesso tempo la base legale necessaria per la costituzione dei futuri organismi
internazionali che avrebbero dovuto integrare e coadiuvare le nuove istituzioni
nord-irlandesi la cui nascita era prossima.
L’accordo politico è stato poi legittimato dalla popolazione dell’isola,
attraverso due referendum. Questi, se nella sostanza ponevano il medesimo
quesito, ovvero l’approvazione o meno del testo firmato dai delegati dei partiti e
dei due governi, formalmente si differenziavano non poco vista la natura
costituzionale che rivestiva la consultazione nella Repubblica.
La popolazione delle Eire, nella giornata del 22 Maggio,è stata infatti
chiamata ad esprimersi sulla modifica degli Art.2 e 3 della propria costituzione,
in un referendum che ha portato all’ emendamento numero 19 di questa, sul cui
significato si tornerà oltre.
11
La natura della consultazione nell’Ulster britannico, al contrario, è stata
solo consultiva: la “Costituzione” britannica d’altronde non conosce altre
tipologie di referendum.
Ciò non deve comunque ingannare sull’importanza che, in vista una
devoluzione dei poteri finalmente condivisa, abbia potuto rivestire l’applicazione
di un istituto di democrazia diretta quale l’appello al popolo.
L’ appello al popolo, e il suo pronunciamento su una questione devolutiva,
era stato tra l’altro già sperimentato da Westminster in una precedente
occasione: nel 1979 il governo del Regno Unito aveva dovuto confrontarsi con un
referendum consultivo in materia di devolution, sulla futura regionalizzazione
della Scozia.
Allora però, il governo britannico promosse la consultazione in un
momento successivo al passaggio parlamentare del Bill con risultati disastrosi.
Vista dai più come mera concessione londinese, l’allora proposta devolutiva,
venne sonoramente bocciata dagli elettori, facendo naufragare qualsiasi
speranza di decentramento.
Nella primavera del 1998, non è stato commesso il medesimo errore dal
governo Blair, e il referendum, in Irlanda del Nord (come anche in Scozia e
Galles) è stato stato tenuto in maniera antecedente all’ iniziativa parlamentare.
Ciò ha probabilmente cementato la convinzione nell’elettorato di essere
chiamato ad un ruolo da protagonista (quindi non solo consultivo) nell’ iter
legislativo.
12
In entrambi i territori ( il Nord e il Sud) l’elettorato ha dato prova di aver
apprezzato i passi raggiunti dai partiti, spianando la via al ritorno all’autogoverno
4
in Irlanda del Nord.
L’iniziativa è tornata così ai 2 governi incaricati di porre in essere le
istituzioni necessarie al mantenimento di una pace duratura. Ma il ruolo chiave è
spettato necessariamente a Westmister il cui compito fu: conciliare la
devoluzione dei poteri con un governo locale legittimato da entrambe le
comunità cattolica e protestante, senza che divenisse, come la precedente
esperienza, ostaggio di una o l’altra parte .
Il risultato è stato il Northern Ireland Act 1998, atto licenziato attraverso il
Royal Assent il 19 Novembre 1998, con cui Westminster, istituendo una nuova
assemblea ed un nuovo esecutivo per l’ Ulster, ha inserito all’interno della
propria forma di governo istituti di natura consociativa tanto lontani
dall’adversarial system, a cui da sempre ha fatto rifermento, quanto importanti
per comprendere la futura esperienza autonomista.
4
Nel territorio dell’ Eire su 2.753.127 votanti (pari al 56% degli aventi diritto) i “SI” furono il
94.4%. In Irlanda del Nord su 953.853 votanti (81% degli aventi diritto) i favorevoli all’accordo
multipartitico furono il 71%.
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I.3 La democrazia consociativa e il Modello Westminster
I.3.1 Il modello consociativo
Con il N.I.A. 1998 Westminster ha di fatto deciso di puntare tutto sulle
potenzialità della democrazia consociativa, obbligando le due comunità religiose
alla convivenza e alla co-gestione (power sharing) del potere.
Consociativismo e power sharing (letteralmente condivisione del potere)
vengono spesso utilizzati come sinonimi anche se il primo è solamente uno dei
modi attraverso cui realizzare il secondo.
Il termine consociativismo non indica quindi una determinata forma di
governo in sé e per sé determinata, ma piuttosto una serie di istituti e
comportamenti tesi alla condivisione del potere da parte della più ampia
maggioranza possibile.
Per forma di governo deve intendersi qui: “ il complesso degli strumenti
che vengono congegnati per conseguire le finalità statali e quindi quegli elementi
che riguardano la titolarità e l’esercizio delle funzioni attribuite agli organi
5
costituzionali”. Le varie forme di governo, relativamente ai regimi liberali e
6
democratici (in qui quindi sussiste una ripartizione del potere tra i vari organi),
tradizionalmente vengono divise in forme di governo “pure”, e forme di governo
“miste”: dove mentre nelle prime ogni organo di governo esercita in maniera
5
De Vergottini, Diritto Costituzionale Comparato, VII edizione, Padova, Cedam, 2007, p 137
6
Per la distinzione tra democrazie e autocrazie, relativamente alla concentrazione e ripartizione
del potere si veda G. De Vergottini, Diritto Costituzionale Comparato, cit.,p 142
14
autonoma la proprie competenze (il legislativo spetta all’assemblea che non ha
rapporto alcuno con l’esecutivo), nelle seconde il riparto delle attribuzioni fra
legislativo ed esecutivo non segue criterio rigido ( facendo si che tra legislativo ed
esecutivo s’instaurino legami di coordinamento e collaborazione).
Le democrazie consociative non ricalcano così un terzo polo equidistante
dai due indicati sopra, perché gli istituti consociativi hanno trovato applicazione
sia in forme di governo parlamentari (di natura non maggioritaria come i Paesi
Bassi, il Belgio, l’Austria), sia in forme di governo direttoriali (come la
Confederazione elvetica) in cui esiste una netta separazione tra legislativo ed
esecutivo. Una soluzione come quella consociativa è stata quindi applicata
indifferentemente sia all’interno di forme di governo “pure” che all’interno
forme di governo “miste.
Le principali caratteristiche delle democrazie consensuali sono state
illustrate nei suoi diversi studi accademici dal politologo Arend Lijphart. Egli più
volte ha affermato di non aver teorizzato questa modalità di esercizio del potere
ma piuttosto di aver reso pubblico quello che i rappresentanti politici avevano
posto in essere negli anni precedenti, in quelle società profondamente divise da
ragioni storiche, etniche e religiose. In società come quella nordirlandese, per
dirla con le parole di J.S. Furnivall, ” le differenti comunità vivono l’una accanto
15
all’altra, ma allo stesso tempo separate, all’interno di una medesima unità
7
politica”.
In Democracy of plural society Lijphart ha sottolineato così 4 caratteristiche
fondamentali delle democrazie consociative:
Consociational democracy can be defined in four characteristics. The first and
most important element is government by a grand coalition of political leaders of all
significant member of plural society…the other 3 basic elements of consociational
democracy are the mutual veto or concurrent majority, proportionality as the principal
standard of political representation…, a high degree of autonomy for each segment to
8
run its own internal affairs.
Un esecutivo di coalizione in cui i leader dei maggiori partiti politici siano
chiamati a cooperare, il riconoscimento del potere di veto alla minoranza in
modo porre al sicuro la protezione di quest’ultima, l’adozione di un sistema
elettorale proporzionale attraverso cui ciascun segmento possa influenzare la
politica in ragione della propria forza numerica, sono tutti istituti che possiamo
ritrovare nelle forme di governo parlamentare adottate in molti degli stati
Europei sin dalla prima metà del 1900.
In particolare Lijphart fa riferimento ad alcune esperienze in cui il
consociativismo è risultato certamente fruttuoso e ha segnato la vita politica per
diversi decenni: questi sono i casi dei Paesi Bassi, dell’Austria, e della Svizzera la
cui peculiare forma di governo prevede da sempre un ampia condivisione dei
poteri tra le differenti forze politiche.
7
“Different sections of the community live side by side, but separately, within the same political
unit” Furnivall, Colonial Policy and Practice, Cambridge, Cambridge University Press, 1948,p 304
8
Lijphart, Democracy in Plural societies, New Haven London, Yale University Press, 1977, cit., p 25
16
Egli è comunque non di meno cosciente delle conseguenze negative in cui
possono incorrere le democrazie consociative, tra cui un esecutivo imbrigliato
dalle diverse componenti, il potere di veto che potrebbe portare
all’immobilismo, e la mancanza di un elemento portante della democrazia
britannica quale l’opposizione di governo.
Nonostante ciò, è ivi presente la convinzione che la problematica principale
che una qualsiasi forma di governo debba affrontare nelle società divise, sia la
totale mancanza di elettorato fluttuante: quell’elettorato che di volta in vota
possa cambiare schieramento politico, rendendo possibile l’alternanza al
governo. Questo tipo di elettorato viene meno in quelle società dove ogni
individuo appartiene per nascita necessariamente ad una delle comunità in
lotta, appartenenza che sarà riflessa in una rigida fedeltà nella scelta elettorale
del partito rappresentante la propria comunità.
9
In mancanza di ciò che viene definito floating voters ( elettorato
fluttuante) quindi l’alternativa è tra una democrazia consociativa o una dittatura
10
della maggioranza.
La prima esperienza devolutiva in Irlanda del Nord rappresentò proprio il
classico caso di cui sopra: in cui una maggioranza unionista favorita, da un
sistema elettorale maggioritario a turno unico e da una suddivisione del
9
Sul ruolo giocato dall’elettorato fluttuante nelle democrazie si veda Timothy Sisk, Power Sharing
and International Mediation in Ethnic Conflicts, Washington, UISP, 1996, p 58
10
Esemplificativo è il caso di Lord Craigavon, il quale divenuto Primo Ministro dell’Irlanda del
Nord, ringraziò l’elettorato dicendosi orgoglioso di poter guidare uno Stato Protestante, e un
Parlamento Protestante, senza aver conto della consistente minoranza cattolica presente in esso.
17
territorio in collegi elettorali palesemente incongrua, governò attraverso
esecutivi monocolore in maniera ininterrotta e con risultati disastrosi dal 1921 al
1972 senza la possibilità di essere ribaltata dall’ opposizione nazionalista relegata
a ruolo di comprimario.
I.3.2 Il Modello Westminster
Se dovessimo tracciare un grafico all’interno del quale porre le diverse
possibilità di esercitare la sovranità in uno stato, in modo semplicistico ma non
del tutto errato potremmo porre all’opposto dell’ipotesi consociativa quella serie
di istituti della democrazia parlamentare che fanno capo alla forma di governo
britannica comunemente conosciuta come modello Westminster.
Fissare attraverso alcuni punti cardine il premierato britannico è un
operazione difficile e in massima parte delicata. Questo perché si rischia da un
momento all’altro d’irrigidire una forma di governo che della sua flessibilità ha
fatto la sua chiave di volta. Difatti il Regno Unito è un caso eccezionale al mondo:
uno degli stati democraticamente più avanzati non dotato di una costituzione
scritta, ma che fonda il suo diritto costituzionale, su una serie di documenti
scritti, una serie di consuetudini di natura costituzionale (conventions of
constitution) e non ultimo alcuni principi fondamentali che plasmano l’intero
diritto pubblico quale ad esempio la supremazia del Parlamento.
E’ da farsi poi un’ altra premessa riconoscendo come il premierato
britannico , similmente al modello consociativo, non corrisponde ad una forma di
18
governo in senso stretto ma piuttosto ad un’ evoluzione e specificazione della
forma di governo parlamentare . Come accennato in precedenza, la forma di
governo parlamentare, prevede a seconda delle condizioni in cui si sviluppa
differenti modalità di “coordinamento, collaborazione e di condizionamento …
11
tra gli organi del legislativo e dell’esecutivo”.Le modalità attraverso cui si
pongono in essere queste forme di coordinamento e condizionamento, e infine si
esercitano i poteri, comportano poi per necessità la preminenza di uno degli
organi costituzionali sugli altri.
Al centro del premierato britannico si pone così il Prime Minister indicato
dagli elettori. Indicato e non eletto perché gli elettori sono comunque solo tenuti
ad eleggere la maggioranza parlamentare di cui egli è riconosciuto leader: il
Premier è così legato ad una doppia fiducia quella parlamentare e quella del
corpo elettorale.
Nel tentativo di racchiudere in alcuni tratti salienti l’esperienza del governo
britannico, e così facendo cercando di tracciare un quadro comune delle
democrazie maggioritarie, possiamo in via esemplificativa indicare delle linee
guida quali: un sistema tendenzialmente bipartitico (o comunque bipolare),
l’investitura indiretta del leader della maggioranza a Premier, un sistema
elettorale maggioritario (preferibilmente a turno unico), un governo con ampi
poteri che agisca da cabina di regia della maggioranza parlamentare, il
11
De Vergottini, Diritto Costituzionale Comparato, cit., p 158
19