2
Dewar di Méliès, possiedono un interesse immenso, al di là delle loro qualità
artistiche e culturali, in quanto forme primigenie, ma non per questo ingenue, di
spot pubblicitari o - perché no? - preistorici , ma non rudimentali, episodi di
product placement cinematografico.
Soffermiamoci ad esempio un ‘attimo su Sunlight, un filmato della durata di 30
secondi (sorprendentemente la stessa degli innumerevoli spot pubblicitari che
infarciscono oggi la programmazione della tv). La camera fissa dei Lumiere
riprende frontalmente un quadretto famigliare - due donne adulte e due
bambine impegnate nel lavaggio dei panni - . Ci troviamo all’aperto ed il
cortiletto antistante casa è baciato da una magnifica giornata di sole. Due casse
di legno riportanti il logo Sunlight sono poste in bella evidenza all’interno del
quadro; una di queste casse regge la bimba più grande mentre aiuta la madre a
strofinare la biancheria, l’altra è sistemata appresso alla tinozza che contiene
l’acqua per il risciacquo. Una delle due donne provvede a stendere su un filo i
capi già lavati, ora di un bianco lucente. In un frangente vediamo la madre
scherzare con una figlia e poi abbandonarsi ad un sorriso gaio e contagioso.
L’atmosfera che si respira è decisamente spensierata e solare nonostante il
gravoso peso del lavoro delle lavandaie: sicuramente parte del merito è
attribuibile proprio al sapone Sunlight, che non solo aiuta a rendere
eccezionalmente lindi i panni ma contribuisce anche a trasformare una
faccenda laboriosa in una parentesi leggera, quasi in un’occasione di gioco.
Questo straordinario cortometraggio sorprende, a distanza di più di un secolo,
per l’intelligenza pubblicitaria messa in campo e per la dimostrata capacità di
piegare il neonato medium alle esigenze della comunicazione commerciale.
Consapevolezza del target, focalizzazione su una singola idea forte, sintesi
narrativa, stilizzazione: gli ingredienti di una efficace comunicazione
promozionale ci sono tutti.
Davvero sorprendente: siamo appena nel 1898 ma grazie a preziosissime
testimonianze d’archivio, come quella appena descritta, siamo in grado di
notare come sin da allora narrazione cinematografica e comunicazione
3
pubblicitaria possano arrivare a seguire percorsi molto vicini o addirittura ad
intrecciarsi e sovrapporsi completamente.
Al di là di questi primi casi esemplari possiamo rilevare come, nell’ultimo
secolo, il corso della storia sia costellato da innumerevoli zone grigie dove
questi due differenti rami dell’industria culturale hanno - volutamente o meno -
avuto modo di incontrarsi, scontrarsi, conoscersi, collaborare, influenzarsi e
cambiarsi reciprocamente.
Quello tra cinema e pubblicità si configura subitaneamente come un rapporto di
attrazione fatale reciproca. Il sistema economico industriale che ben presto si
cela dietro il prodotto finale filmico sperimenta precocemente una ricca
strumentazione di marketing come complemento essenziale per penetrare il
mercato e si dota prontamente di un solido apparato pubblicitario: inizialmente
per incentivare e consolidare l’abitudine al consumo di un prodotto innovativo e
recente ma che ambisce ad affermarsi come mass-market; successivamente
per diffondere conoscenza e motivazioni d’acquisto per ciascun prodotto
realizzato e distribuito; più avanti ancora per dare visibilità a ciascun prodotto e
per differenzialo nettamente dai prodotti concorrenti, ciò grazie anche all’uso di
elementi segnaletici importanti - come il regista, ma soprattutto le star - che
contribuiscono ad ampliare smisuratamente la forza di vendita dei prodotti.
E viceversa abbastanza precocemente il cinema, o quanto meno certo cinema,
manifesta a pieno tutto il potenziale persuasivo e di fascinazione che detiene,
suscitando l’ammirazione e l’invidia della nascente industria pubblicitaria.
L’attrazione dei pubblicitari verso i film è dovuta, al di là delle grandi coperture
che possono realizzare, al fatto che questi riescono a convogliare nel pubblico
sentimenti intensi e potenti associazioni emotive e possono di conseguenza
trasformarsi in potenti propulsori di ideologie, stili di vita, tendenze
comportamentali. Non passa molto tempo a che se ne accorgano politici e
statisti, che spesso premono per dare alla produzione cinematografica
nazionale una piega propagandistica. Esemplare il caso della filmografia
tedesca di regime , coordinata e controllata dall’onnipresente Goebbels, dove
accanto a pellicole esplicitamente propagandistiche (come Il trionfo della
4
volontà e Olympia di Leni Riefenstahl) ne vengono prodotte innumerevoli altre
in cui, nascosti tra le fila della narrazione, vengono “piazzati“ valori guida,
giustificazioni per azioni di guerra, motivazioni a determinati comportamenti,
figure eroiche di riferimento cui ispirarsi.
Ma il più efficace laboratorio di persuasione è stata da sempre la fabbrica dei
sogni hollywoodiana. E’ risaputo il fatto che ad Hollywood, durante la cosiddetta
golden age dello studio-system, i film venivano progettati e confezionati molto
attentamente attorno alla star di turno e risultavano spesso essere poco lontani
da giganteschi spot finalizzati nel vendere agli spettatori le immagini mitiche
incarnate dai divi. All’epoca gli Studios fecero la straordinaria scoperta che le
star potevano essere vendute similmente a come si fa con i prodotti di largo
consumo; di conseguenza si dotarono di reparti specializzati in test e ricerche di
mercato e si configurarono alla stregua di enormi macchine pubblicitarie per
incantare il pubblico. Orson Welles, con cognizione di causa, affermò una volta
che “gli uomini sono sempre più interessanti delle idee”. E aveva indubbiamente
ragione se si considera la tremenda influenza che attori ed attrici acclamati
giunsero a detenere nei confronti del pubblico cinematografico. McLuhan scrive
che «quando arrivò il cinema, l’intero schema della vita americana si trasferì
sugli schermi come una inserzione ininterrotta. Tutto ciò che un attore o
un’attrice portava, usava o mangiava costituiva un annuncio pubblicitario di una
forza in precedenza neppure immaginata»
2
.Vorremmo brevemente ricordare, a
titolo esemplificativo, cosa accadde quando Clark Gable , nel film Accadde una
notte (It Happened One Night, F. Capra,1934), apparve senza maglietta - primo
nella storia del cinema - , a torso nudo sotto la camicia: incredibilmente le
vendite di canottiere precipitarono e i produttori di magliette, terribilmente
preoccupati, si videro costretti supplicare la casa di produzione affinché
tagliasse la scena incriminata. E basti richiamare alla mente, anche solo di
sfuggita, i trend modaioli, le tendenze nell’abbigliamento - a volte divenute vere
e proprie ossessioni di massa - , gli irrinunciabili fashion look ed accessori cult
2
McLuhan M. (2002), Gli strumenti del comunicare, Net, pag. 247
5
lanciati da attrici come Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, e da attori come
Marlon Brando o James Dean.
Il mondo della pubblicità capta prontamente la potenza detenuta dalla star,
«prodotto perfetto della nostra civiltà dei consumi, (…) incontro fatale del
commercio e dell’arte»
3
, e la usa come testimonial per le proprie campagne
commerciali pigiando il piede sull’impareggiabile bisogno di affiliazione che
essa suscita presso ampi strati di pubblico. E’ un fenomeno che per la maggior
parte si realizza esternamente al film stesso, ma che da quest’ultimo non può
affatto prescindere in quanto sfrutta l’immaginario che il film costruisce tutto
attorno alla star. Pare che una delle primissime campagne pubblicitarie a
mettere a punto tale strategia sia stata nel 1925 quella della saponetta Lux , il
cui noto pay-off recitava “9 out of 10 screen stars use Lux toilet soap for the
priceless smooth skin”
4
. Dopodiché il contagio fu immediato così che star e
starlette si trovarono in meno che non si dica a onorare profumati contratti di
sponsorizzazione riguardanti i più vari prodotti di largo consumo. Nessuna
categoria merceologica esclusa, nemmeno quelle ritenute problematiche come
gli alcolici ed i tabacchi : «solo in quegli anni la Lucky Strike aveva sotto
contratto stelle del calibro di Constance Talmadge, Carole Lombard, Gary
Cooper, Robert Taylor e Barbara Stanwych, mentre la Chesterfield poteva
contare sulla presenza di Rita Hayworth, Susan Hayward, Richard Vidmark,
Tyrone Power, Alan Ladd, Bob Hope, Joan Crawford, Glen Ford e Gregory
Peck»
5
.
L’icona pubblicitaria per eccellenza è stata indiscutibilmente Marilyn Monroe;
l’immagine di bionda bomba sexy, cucitagli strettamente addosso e mai più
toccata, è stata abbondantemente sfruttata fin che lei era in vita per
sponsorizzare di tutto - come non ricordare almeno le mitiche due gocce di
3
Séguéla J. (1985), Hollywood lava più bianco, Lupetti, Milano, pag. 53
4
“9 stelle su 10 usano il sapone da bagno Lux per una pelle incredibilmente levigata”
5
Corti G. (2000), Il product placement nella comunicazione aziendale, tesi di laurea, Facoltà di
Economia, Corso di laurea in Economia e Commercio, Università degli Studi di Milano-Bicocca, pag.29
6
Chanel N.5 con cui ella affermava di andare a letto ? -, ed è divenuta , dopo la
sua precoce morte, «segno repertoriale per l’advertising del futuro»
6
.
La cosiddetta logica del “se lo usa Marilyn lo voglio anch’io”, per cui il fascino
ed il potenziale di attrazione di un divo vengono adoperati per reclamizzare la
più svariata tipologia di prodotti commerciali, attecchisce prepotentemente nel
sistema percettivo dello spettatore cinematografico il quale è spesso e volentieri
pronto a far follie pur di disporre di gadget in grado di fare da tramite tra la
propria persona e le patinate e perfette icone del grande schermo, tra la propria
quotidianità ed il fatato universo visto e vissuto nei film.
Ma non occorre necessariamente scomodare nomi tanto altisonanti da poter
essere interpretati come casi isolati ed eccezionali. E non basta circoscrivere
casi del genere puramente al contesto hollywoodiano, nonostante questo
fornisca le manifestazioni più evidenti e numerose.
Come dare torto a Jacques Séguéla quando, nel fondamentale testo dal titolo
Hollywood lava più bianco, afferma perentoriamente che «la star è il più grande
caso di marketing della storia»
7
?
Proprio Séguéla è stato colui che nei primi anni Ottanta ha imposto uno
straordinaria evoluzione alla pratica pubblicitaria, proponendo un inedito
paragone tra le grandi star hollywoodiane dell’età d’oro e le marche del
presente, ed incoraggiando pertanto i pubblicitari a far tesoro degli
insegnamenti provenienti dai produttori del passato, artefici principali della
bellezza mitica e della forza onirica del cinema classico e dei suoi immortali
protagonisti.
Si instaura insomma nel tempo una singolare equazione per cui il cinema sta
alla pubblicità tanto quanto la pubblicità sta al cinema.
La cosa non dovrebbe dare adito a particolari perplessità. Probabilmente si è
così abituati a ragionare per compartimenti stagni , considerando cioè - anche
a ragione - il cinema una determinata cosa e la pubblicità tutt’altra, che non si
6
ibidem, pag. 30
7
Séguéla J. , op. cit. , pag. 54
7
riesce poi, se non con notevole fatica, a scrutare più in profondità le apparenze
per riconoscere infine quanto cinema ci sia dietro tutta la pubblicità che ci
bombarda gli occhi e viceversa quanta pubblicità ci sia dentro, fuori e
tutt’intorno ai film che scegliamo di vedere.
Basta solamente volgere lo sguardo agli anni a noi più vicini per accorgersi di
come cinema e pubblicità seguitino ad operare in territori estremamente
contigui e segnati da punti di contatto tanto frequenti.
Anzitutto va segnalato come la televisione, che oggigiorno vive una relazione
integralmente simbiotica con la pubblicità
8
, continui oramai da diversi anni a
sfruttare il cinema come contenitore e supporto privilegiato di advertising. Ciò
avviene principalmente perché i prodotti di matrice cinematografica (quelli cioè
pensati inizialmente per il consumo in sala) si confermano, di stagione in
stagione, i più efficaci nell’aggregare milioni di persone davanti alla tv regalando
alle varie emittenti i picchi più alti in termini di audience (il reale ‘prodotto’ della
tv commerciale, che viene venduto agli inserzionisti pubblicitari). Le televisioni
così acquistano e trasmettono le pellicole tenendo ben presente il “plus-valore
pubblicitario” che queste sono in grado di contraccambiare. Accade di
conseguenza che pellicole di grande impatto mediatico, e spesso aventi in dota
notevoli successi di botteghino, vengono piazzate strategicamente nei giorni e
nelle fasce orarie cruciali del mercato televisivo (il prime time serale ad
esempio) e infarcite di intermezzi pubblicitari più o meno lunghi. Mentre film
passati precedentemente inosservati (se non addirittura nemmeno distribuiti), di
nicchia, magari recanti particolari ambizioni autoriali o sperimentali, vengono
confinati nella penombra della programmazione.
Se purtroppo è impossibile pensare al cinema trasmesso in tv senza il flagello
delle interruzioni pubblicitarie è quantomeno ugualmente impossibile pensare
all’attuale produzione pubblicitaria audiovisiva senza fare riferimento
all’universo del cinema.
8
a tal punto che Pitteri (in La pubblicità in Italia. Dal dopoguerra a oggi (2002), Laterza,Bari, pag. 157)
propone di sostituire il concetto di “palinsesto televisivo” con quello, a suo parere più appropriato, di
“palinsesto publi-televisivo”
8
Negli ultimi anni infatti, a interrompere la visione di film e spettacoli sul piccolo
schermo, troviamo sempre più spesso non i soliti spot, generalmente scontati e
banali, ma suggestivi e curatissimi “spot d’autore” firmati da registi italiani del
calibro di Tornatore, Salvatores, Muccino, Ozpetek, Argento, e da una lunga
lista di affermati registi stranieri come Scorsese, Kusturica, Besson, Spike Lee,
Lynch, Wenders, Allen e altri ancora.
Persino Federico Fellini, che notoriamente condusse una serrata ed indignata
protesta contro la deprecabile interruzione dei film in tv, si cimentò negli anni
Ottanta in questo campo realizzando pregevoli commercial per alcuni noti
marchi italiani come Barilla e Campari.
Chi per sfida professionale, chi per esigenze prettamente economiche, chi per
curiosità o volontà di sperimentazione, tutti si sono prestati e si prestano al
gioco della pubblicità creando filmati di trenta secondi che per destrezza nel
montaggio, cura della luce, amore per la bellezza dei corpi e dei paesaggi,
risultano prodotti cinematografici sopraffini che nobilitano il grigiore televisivo e
si fanno divorare con gli occhi.
Talvolta assistiamo addirittura al percorso inverso, per cui registi che si sono
fatti notare con spot realizzati in pubblicità vengono poi prestati al cinema e
riescono ad affermarsi come autori di successo (è il caso di Ridley Scott, Luc
Bèsson e Jean Pierre Jeunèt, tanto per citarne alcuni).
Per non parlare poi di tutti gli attori e le attrici, più o meno noti, che come nel
passato si prestano alla pubblicità vestendo i panni di testimonial. E gli
altrettanti che esordiscono recitando in commercial e vengono poi proiettati
nell’olimpo del cinema (emblematici i casi del premio oscar Charlize Theron o
dell’attore italiano Stefano Accorsi).
Oppure si pensi al folto ramo di produzione pubblicitaria televisiva che
comunemente civetta con l’immaginario cinematografico collettivo, reggendosi
su meccanismi quali la parodia, il remake, la citazione (speso verrebbe da dire il
saccheggio) di personaggi, dialoghi, immagini, scene indimenticabili.
Tutte queste prassi consolidate altro non sarebbero che indizi del profondo
desiderio che sempre più intensamente lega la pubblicità al cinema, prove della
9
sua strenua volontà di farsi cinema, di aprirsi cioè un varco nel mondo di
fantasmagorie e sogni che da più di un secolo è giurisdizione cinematografica.
Il motivo del pressing della pubblicità sul cinema è, se vogliamo, abbastanza
intuitivo: nel momento in cui alla comunicazione pubblicitaria viene richiesto di
costruire un’immagine in grado di valorizzare un marchio, allestire un mondo
dove sia possibile contestualizzarlo, predisporre per il marchio una dimensione
narrativa e onirica significativa per il consumatore, si capisce come quella si
veda costretta a ragionare ed operare in termini molto vicini a quelli del mondo
cinematografico.
Da questi elementi discende l’idea di avere a che fare con quello che potremmo
definire come un “sistema a porta girevole” tra pubblicità e cinema; ossia un
regime sinergico e osmotico in cui i due medium operano condividendo e
scambiando risorse, professionalità, codici e stilemi linguistici.
Scrive Pitteri: «cinema e pubblicità in qualche modo si assomigliano o
quantomeno agiscono in campi contigui connotati da punti di contatto tanto forti
- i contesti industriali nei quali entrambi operano, per esempio, o il reciproco
attingere alla professionalità, alle tecniche, alle innovazioni tecnologiche e
addirittura ai trend estetici dell’altro - da fare intendere legami profondi. In più,
fondando entrambi sull’immagine in movimento - l’uno interamente, l’altra solo
parzialmente, seppur affidando a essa molte delle proprie dinamiche -,
generano processi di costruzione simbolica e culturale simili, apparentemente
iscritti nel medesimo ambito linguistico e dunque decrittabili e interpretabili in
virtù dei medesimi codici»
9
.
Rovesciando invece la prospettiva, possiamo osservare quanto - oggi ancor più
a maggior ragione che ieri - il business cinematografico debba legare
strettamente le proprie sorti al marketing ed alla comunicazione pubblicitaria.
«I dati forniti dalla Motion Picture Association of America (MPAA) confermano la
tendenza a un ruolo sempre più centrale del marketing cinematografico. Dal
1990 al 2002, in poco più di dieci anni, gli investimenti in questo settore sono
9
Pitteri D. (a cura di) (2000), Fabbriche del desiderio, Luca Sossella editore, Roma, pag. 49
10
praticamente triplicati:(…) le spese in advertising sono passate da 10,24 milioni
di dollari a 27,31 milioni»
10
.
Sono differenti ma tutti ugualmente importanti i motivi che spingono produttori e
distributori ad investire parti sempre più consistenti dei loro budget in pubblicità:
la natura prototipica dell’opera cinematografica e la sua caratteristica di bene-
esperienza - per cui l’utilità agli occhi del consumatore si palesa solo dopo il
consumo - rendono i potenziali spettatori estremamente bisogni di informazioni
dai canali più diversi così da rendere meno problematica la scelta di consumo e
da ridurne il rischio connesso; inoltre ogni prodotto filmico vive in un «regime di
agguerrita concorrenza sia esterna che interna»
11
, cioè compete
contemporaneamente sull’immenso mercato dell’entertainment con altri beni di
consumo associati al concetto di tempo libero, e nello stesso tempo compete
con tutte quelle pellicole che costituiscono l’offerta di cinema in un dato
momento della stagione; infine, ma non certo meno importante, la necessità di
connotare come un evento l’uscita di un film e di costruire per ciascun prodotto
«una personalità ben definita, un’identità precisa che possa collocarsi in modo
distinto nel sistema percettivo dello spettatore»
12
.
Possiamo comprendere meglio l’importanza della comunicazione di marketing
nel cinema se pensiamo a quanto essa possa incidere sull’esito commerciale di
un prodotto: abbondano gli esempi di film mediocri che incassano bene perché
supportati da costose e martellanti grancasse promozionali, così come non
mancano – ed in Italia ne sappiamo qualcosa - i casi di prodotti di qualità che
però vengono puntualmente penalizzati al botteghino a causa di budget
promozionali esigui, incapaci di dare visibilità al film.
Come ci ricordano Celata e Caruso, «difficile pensare una strategia di
marketing vincente senza un prodotto valido, impossibile affermare un prodotto
10
Celata G. , Caruso F. (2003), Cinema.Industria e marketing, Edizioni Guerrini e Associati, Milano,
pag. 84
11
ibidem, pag. 81
12
ibidem, pag. 83
11
valido senza una strategia di marketing vincente. Vale per ogni merce, è
imprescindibile per il prodotto filmico»
13
.
Fellini, nel suo Fare un Film, scrisse una volta: “del cinema ho in mete
soprattutto i manifesti; quelli mi incantavano”.
Oggi più che mai è impossibile concepire il cinema indipendentemente da tutto
quel complesso apparato promozionale che fa affidamento sul trailer, la
locandina, il flano, il press-book, i depliant, le varie presentazioni; tutti questi
paratesti non solo sono essenziali nel completare il significato dell’opera ma
contribuiscono largamente alla costruzione di valore agli occhi dello spettatore
potenziale .
Negli ultimi decenni, con il prevalere diffuso della comunicazione audiovisiva, è
stato il trailer ad affermarsi come la più diffusa figura di frontiera tra la pubblicità
ed il cinema. Il trailer, conosciuto da noi anche con il termine prossimamente,
può essere definito come un invito alla visione che sovente si poggia su una
micro-narrazione legata al film, una sorta di «“precipitato del film” capace di
condensarne il senso»
14
con l’obiettivo di persuadere alla fruizione. In esso
l’elaborazione linguistica è densamente compenetrata dalla finalità
commerciale. «Se in rapporto alla forma il trailer è assimilabile al remake ed alla
recensione (che trasformano un testo in un altro testo), in rapporto allo scopo la
sua struttura differenziale si approssima piuttosto a quella del marketing e degli
spot (che trasformano una merce in un testo)»
15
.
Fin qui si è voluto tratteggiare, in modo necessariamente e volutamente
sintetico, un quadro generale, un frame interpretativo che, senza pretese
esaustive, possa rivelarsi utile nel ricomporre i complessi e multiformi contatti
che hanno caratterizzato e caratterizzano la storia dei rapporti tra il cinema e la
pubblicità, evidenziandone soprattutto la caratteristica di continuità nel tempo.
Si è visto come diversi possano essere i punti di vista da cui si sceglie di
osservare tale fenomeno. Più sopra ne abbiamo selezionati alcuni e tralasciati
13
ibidem, 16
14
Terrone E. , Anime in vendita, in “Segno Cinema” n.128 (luglio/agosto 2004), pag.22
15
ibidem
12
altri: uno di questi potrebbe, ad esempio, avere a che fare con la
rappresentazione della pubblicità - del suo mondo, dei suoi protagonisti , delle
sue pratiche - fornita dal mezzo cinematografico .
Tuttavia ,a parere di chi scrive, è un altro il campo più interessante e sfaccettato
ove si gioca negli ultimi tempi il variopinto rapporto tra i due media: ci riferiamo
al product placement cinematografico. Si tratta di un territorio di ricerca vergine
e sconfinato, sorprendentemente ancora troppo poco calpestato dalla
tradizionale indagine accademica .
13
CAPITOLO 2
IL PRODUCT PLACEMENT CINEMATOGRAFICO
“Le nostre marche devono essere le
nuove dive”
JACQUES SÉGUÉLA
Chi frequenta le sale cinematografiche, chi acquista e noleggia videocassette o
dvd, o anche chi il cinema si limita semplicemente a fruirlo all’interno dei
palinsesti televisivi, avrà probabilmente notato come negli ultimi anni i film siano
stati invasi da quello che la rivista Ciak definì, già qualche anno addietro, come
un «furor di marchi»
1
.
Facenti parte del vasto materiale scenografico, ritratti e mostrati nei pressi di
attrici ed attori famosi o piazzati nelle loro mani, inseriti nei dialoghi previsti dalla
sceneggiatura, protagonisti di inquadrature furbe e smaliziate, talvolta
addirittura co-protagonisti o vere e proprie star dei soggetti narrativi. Insomma,
piaccia o meno, è comunque innegabile che prodotti e marchi commerciali
hanno assunto una importanza sempre più rilevante all’interno delle pellicole
cinematografiche.
La loro presenza nel tessuto filmico non costituisce del tutto una novità
assoluta ma può essere vista come una costante che percorre tutta la storia del
cinema; «per tutto il periodo del muto, fino agli anni trenta le marche fanno la
loro comparsa come scatola, neon o cartello. (…) Il fenomeno non riguarda solo
i film d’oltreoceano, ma anche molti film europei»
2
.
Tuttavia, a partire dagli anni ottanta e soprattutto in anni più recenti,
assolutamente nuove appaiono le dimensioni di questa tendenza, sia in termini
quantitativi che qualitativi. Aumentano a dismisura i marchi commerciali e
contemporaneamente si affinano le tecniche e la tattiche di inserimento di
prodotti e marchi all’interno dei film. Da un certo punto in poi il “brandcameo”
3
1
Ciak n.9, Settembre 1997
2
Corti G. (2000) , Il product placement nella comunicazione aziendale, tesi di laurea, Facoltà di
Economia, Corso di laurea in Economia e Commercio, Università degli Studi di Milano-Bicocca, pag. 16
3
è il termine adottato dal sito americano brandchannel.com per definire il crescente fenomeno delle
apparizioni (cameo) dei brand all’interno dei film; il sito stesso offre una puntigliosa elencazione di tutti i
placement riguardanti la cinematografia hollywoodiana degli ultimi due anni .
14
si afferma sulla ribalta cinematografica con una continuità ed una pervasività tali
da poter rilevare, all’interno della quasi totalità delle pellicole, un vero e proprio
sottotesto pubblicitario soggiacente al testo cinematografico.
Klein probabilmente esagera nel sostenere che oggi «i film vengono sempre più
considerati come “proprietà dei marchi della comunicazione”», ma ha
indubbiamente ragione quando afferma che « l’inserimento di prodotti di marca
nei film è diventato un veicolo di marketing indispensabile per società come
Nike, Macintosh e Starbucks »
4
.
Campioni assoluti di questa categoria si sono confermati i film di produzione
americana: accanto ad una moltitudine di pellicole dove i piazzamenti sono stati
praticati in un modo abbastanza discreto , ne troviamo altrettanti dove marchi e
prodotti proliferano e vengo esibiti talvolta in maniera del tutto esplicita.
Solo dando una sbirciata ad alcuni dei maggiori successi degli ultimi anni
vediamo come Hollywood ci abbia fornito una miriade di consigli per gli acquisti.
In Speed (J. DeBont,1994) Keanu Reeves, alle prese con un bus dove un
maniaco dinamitardo ha piazzato una carica di esplosivo, si affida alla
precisione di un Casio G-Schock per tenere sotto controllo il tempo utile per il
disinnesco dell’ordigno
In Matrix (A.&L. Wachowski,1999) abbiamo scoperto che gli ultimi difensori del
genere umano scelgono un preciso modello di cellulare Nokia (vedi allegato 2)
nel combattere la minaccia della realtà virtuale controllata dalle macchine.
Mission Impossible 2 (J. Woo,2000) si apre con l’agente speciale Ethan Hunt
che getta via il proprio paio di ultramoderni Oakley Romeo dopo averci visto
dentro le istruzioni per una nuova missione impossibile.
Sweet November (P. O’Connor,2000) ci mostra come per un giovane
pubblicitario il Motorola Startac, il notebook della Apple e una berlina
metallizzata della Mercedes siano degli status-symbol irrinunciabili .
Con What Women Want (N. Meyers,2000) siamo addirittura entrati all’interno di
una agenzia pubblicitaria ed abbiamo potuto ammirare tutto il backstage
lavorativo che porta alla ideazione e realizzazione di uno spot per le scarpe da
jogging Nike.
In Cast Away (R. Zemeckis,2000) ci è stato propugnato lo zelo ed il senso del
dovere che caratterizza la mission di FedEx e del suo personale; ci siamo
4
Klein N. (2001) , No Logo, Baldini&Castoldi, Milano, pag. 67
15
inoltre resi conto di come un pallone Wilson possa rivelarsi un ottimo amico
quando si è del tutto soli, e ci siamo quindi emozionati e disperati assieme al
naufrago Tom Hanks quando questi ha perduto il suo pallone (vedi allegato 3)
Nel grottesco Evolution (I. Reitman,2001) si è appreso che, nell’evenienza di
una minacciosa invasione aliena, può essere opportuno affidarsi ad ettolitri di
shampoo Head&Shoulder, prodotto dalla multinazionale Procter&Gamble.
In Lara Croft:Tomb Raider (S. West,2001) abbiamo scoperto che l’affascinante
e coraggiosa eroina si serve dei cellulari Sony Ericsson come fidi compagni
d’avventura.
Mentre con Minority Report (S. Spielberg,2002) abbiamo scrutato il futuro ed
appreso che la Toyota continuerà a proporsi all’avanguardia della produzione
automobilistica con il lussuoso marchio Lexus; e che altri brand - Guinness,
Bulgari, Gap, American Express, 20th Century Fox, USA Today, Reebok,
Burger King - la faranno ancora da protagonisti nella società dei consumi a
venire.
Il fenomeno ha raggiunto un tale grado di diffusione ed istituzionalizzazione per
cui è possibile rintracciare eccellenti esempi di placement anche in quei film
che, più o meno velatamente, veicolano contenuti che si oppongono al
consumismo sfrenato e delirante della società contemporanea o ne propongono
accenni di riflessione critica . Un esempio è dato dallo stesso Minority Report
che se da un lato presenta una lampante condanna alla crescente invadenza
della pubblicità, dall’altro non esita affatto a prestarsi al piazzamento di una
moltitudine di marchi, rivelandosi quello che Christopher Goodwin descrive
come «lo spot più costoso mai realizzato nella storia del cinema» e procurando
alla ‘casa madre’ - composta da 20th Century Fox e Dreamworks - qualcosa
come 25 milioni di dollari (pari circa ad un quarto del budget complessivo)
5
.
Altro ottimo esempio del genere è fornito da Fight Club (D. Fincher,1999), film
scandalo di fine millennio; qui la condanna dell’ideologia consumistica e
dell’individualismo borghese raggiunge soglie considerevoli, e ciononostante il
film è cosparso di marchi - non solo inquadrati ma pure esplicitamente citati -
come Gucci, Armani, Calvin Klein, Ikea, Pepsi, Starbucks, Bud.
5
Sia il commento di Goodwin che i dati riportati dalla rivista americana Variety sono contenuti
nell’articolo di Matteo Bittanti, Minority Report. Do spectator dream of sponsored movies?, in “Duel”
n.100
16
La tendenza non concerne, come si avrebbe naturalmente a pensare,
solamente i grossi blockbuster destinati a far razzia di incassi nei botteghini
americani e di tutto il globo - anche se, vedremo, trova lì il terreno più fertile in
cui insediarsi - ma attualmente riguarda a 360° tutto la produzione
cinematografica.
Quella che in ambito italiano (seppure a suo modo presente e praticata) è stata
a lungo stigmatizzata, rimproverata e bandita come pubblicità occulta, negli
States e poi anche in altri paesi si è diffusa senza particolari remore né
vergogne ed è stata quindi legittimata col nome di product placement. Un
termine da noi ancora poco conosciuto ma senz’ombra di dubbio destinato a
innovare il dizionario di critici e cinefili nostrani.