II
e diventa, come spiegherò nel terzo capitolo, autonomo. Il complesso è, quindi, quella
realtà che appartiene alla personalità inconscia. Come delineato nel primo capitolo il
termine personalità assume nella teoria junghiana un duplice significato essa è sia una
funzione psicologica che una attività psicodinamica. Il concetto di “complesso” è legato
anche a quello di “energia psichica” la quale assume nella teoria junghiana una valenza
diversa da quella freudiana. Per Freud l’energia psichica o Libido è un energia sessuale,
per Jung essa è invece generale oltre che sessuale. La libido junghiana è dunque un
concetto essenzialmente dinamico che spiega sia la possibilità di evoluzione (stati
libidici) sia quella di regressione (nevrosi). La nevrosi è quindi causata non tanto da
avvenimenti occorsi nella prima infanzia, come teorizzato da Freud, ma da un conflitto
attuale, ovvero dall’incapacità che il soggetto ha di adattarsi all’ambiente o di
trasformarlo in base alle sue esigenze evolutive. Nel momento in cui un conflitto appare
insuperabile la libido, ad esso legata, regredisce a forme di funzionamento più arcaiche;
è attraverso questo suo movimento a ritroso che essa incontra il complesso e lo
riattualizza. Per cui, per Jung, non vi è alcun nucleo patogeno fintanto che il movimento
a ritroso della libido non sollecita i ricordi latenti legati al complesso, funzionante
secondo modalità infantili, più fantastiche che razionali. Jung sposta la ricerca della
causa della nevrosi e punta il riflettore sul presente e sul futuro del soggetto anziché sul
suo passato. Per tale ragione Aurigemma nell’introduzione del libro “Il contrasto tra
Freud e Jung” (Jung 1930, pag. IX) sostiene che il postulato della teoria di Jung “ è
un’immagine dell’uomo come natura fondamentalmente sana, complesso di forze in
espansione, contraddittorie e tensionali e quindi di difficile armonizzazione, e tuttavia
costituzionalmente portatore di una capacità di compensazione e di riequilibrio
implicita nella realtà inconscia”. Questo a significare che l’inconscio è dotato, come
spiegato nel corso della trattazione, di un alto potere curativo. Il passo successivo,
nella teoria junghiana, è rappresentato dalla nozione di “imago”. Freud aveva
sottolineato l’importanza e la durevole influenza delle relazioni dei bambini con i loro
genitori; ciò che era importante non era l’influenza reale della relazione genitore-figlio
ma l’immagine soggettiva che il bambino ne aveva. Fu di Jung la proposta di chiamare
tale rappresentazione “Imago” – parola ispirata dal romanzo di Carl Spitteler-. Freud
aveva fatto rilevare che l’imago dirigeva inconsciamente la scelta dell’oggetto d’amore.
A Jung erano sembrati non sufficientemente chiariti i motivi delle discrepanze tra madre
reale e l’imago materna e giunse alla conclusione che l’elemento determinante era la
preesistenza, nella psiche umana, di un immagine inconscia della donna. Il concetto
imago, nella psicologia junghiana rappresenta quindi uno stadio di transizione tra la
III
nozione di complesso e la nozione di “Archetipo”, a sua volta strettamente collegata alla
concezione junghiana dell’inconscio collettivo. Jung ritiene, che esistono molte
situazioni psicologiche che non possono essere spiegate facendo ricorso alla propria
storia personale o all’inconscio freudiano, sede dei complessi e dei conflitti che
derivano dall’esperienza infantile. Ad esempio, alcuni sogni, tutte le favole e spesso la
stessa ricerca e scelta del partner fanno ritenere che si debba ricorrere ad un’altra ipotesi
teorica, che prescinda da esperienze passate realmente accadute; a tal fine egli ipotizza
l’esistenza di un inconscio più profondo, un inconscio collettivo il quale è il contenitore
della “memoria della specie”. Per sostenere tale teoria Jung usa il metodo dei
parallelismi culturali – per tale motivo la psicologia analitica è anche chiamata
psicologia comparativa-, dimostrando che ogni gruppo etnico, di fronte ad eventi
universali quali nascita, morte, amore etc., risponde con modalità comportamentali ed
espressive simili, come si può riscontrare dal confronto di diverse mitologie e sistemi
religiosi o di diverse creazioni artistiche, nonché dal confronto tra queste ed il materiale
psichico che emerge dai sogni o dalle fantasie. Per ritrovare i contenuti dell’inconscio
collettivo si può ricorrere ai miti, anche Freud se ne era ampiamente servito ed a tal fine
aveva detto che essi “corrispondono ai residui deformati di fantasie di intere nazioni, e
cioè ai sogni secolari (continuati per secoli) della giovane umanità” (Freud 1907, pag.
382). Questi residui mitici rappresentano per Jung la traccia mnestica su cui si
struttureranno gli archetipi, i quali sono immagini originarie che partecipano
dell’istinto, del sentimento e del pensiero, pur conservando una loro autonomia; gli
archetipi costituiscono la memoria dell’umanità la quale, permane nell’inconscio. Si
tratta, però, di un inconscio collettivo, ovvero di un inconscio comune a tutti gli uomini,
senza distinzione di popoli, di tempo e di luogo, un’immagine virtuale del mondo
trasmessa geneticamente. Come vedremo in seguito gli archetipi sono da intendersi
come potenzialità espressive, forme vuote, nel senso gestaltistico del termine. Da un
punto di vista funzionale essi agiscono come gli istinti, gli impulsi oppure come idee
generali che preformano l’esperienza. Durante il trattamento analitico l’uomo non
incontra mai, però, nei vissuti soggettivi gli archetipi, ma i contenuti interiori, ovvero
quei contenuti psichici organizzati in complessi, nei quali le forme archetipiche si
storicizzano. Visto sotto questo profilo l’inconscio freudiano e quello junghiano non
coincidono perché, per Freud l’inconscio produce i suoi contenuti, mentre per Jung esso
li contiene, inoltre, i contenuti dell’inconscio individuale sono diacronici, mentre quelli
dell’inconscio collettivo sincronici. Dunque l’inconscio individuale rappresenta un
compromesso tra la determinazione degli archetipi e le scelte personali. Il secondo
IV
capitolo è dedicato alla spiegazione delle personificazioni che gravitano intorno all’Io, il
quale, al contrario della visione di Freud viene concepito da Jung come un “complesso”
tra tanti complessi. Esso è, indiscutibilmente, il complesso più importante, ma non è il
centro della coscienza. Nel processo d’individuazione l’uomo deve operare
costantemente una differenziazione ed una integrazione dei complessi onde pervenire
alla personalità totale. Il terzo capitolo tratta del processo di individuazione e della
possibilità che si ha attraverso l’analisi di diventare un individuo, ovvero, un essere
indiviso da se’ stesso ma diviso dagli altri. A tal fine occorre ricordare che tale processo
non porta all’isolamento sociale ma, al contrario ad una più alta adesione alla società.
Individuazione e collettività sono una coppia di opposti che mantengono una relazione
reciproca, per cui non è possibile procedere nell’individuazione senza tenere conto delle
richieste sociali. Essere uomo per Jung significa essere “uno”, ma non si può diventare
individuo senza pagare un prezzo alla società; egli ritiene che l’adattamento sociale sia
un aspetto fondante del cammino dell’individuazione e che si ha una specie di
regolazione omeostatica tra le condizioni interne e quelle esterne che rende possibile il
mantenimento di un equilibrio psicologico. Jung parla della necessità di rapporti umani
per l’individuo come di un vero e proprio istinto, istinto che fa risalire alla libido
parentale radicata nella tendenza endogamica. Nel mondo di oggi prevale la tendenza
esogamica, l’individuo è un estraneo tra estranei, è solo nella relazione che si ha un
appagamento di questa richiesta profonda e Jung nota che questo va tenuto ben presente
anche nella “traslazione” perché il rapporto con il Se’ è un rapporto, come vedremo in
seguito, con gli altri uomini. Come sottolineato nel terzo capitolo, le differenze
concettuali tra Freu e Jung, porteranno quest’ultimo a mutare il metodo interpretativo
del simbolo affiorante nel sogno o nella fantasia. Jung inserirà nella sua teoria il termine
“simbolo vivo” il quale da’ avvio ad un nuovo metodo di interpretazione, infatti,
accanto all’interpretazione riduttivo- riconduttiva –tipicamente freudiana- Jung inserisce
quella prospettica-costruttiva. Le due interpretazioni non si escutono ma si completano
a vicenda. Come si è potuto osservare Jung pur allontanandosi dalla teoria di Freud non
la rigetta in toto, e riconoscerà sempre a Freud il merito di aver cambiato radicalmente
la visione di malattia mentale.
Essendo la fiaba ed il processo d’individuazione in essa contenuto, il fine ultimo della
trattazione, in appendice verrà inserita una fiaba attraverso la cui lettura è possibile
rintracciare le tappe attraverso le quali, l’uomo giunge alla totalità della personalità
(Se’). La scelta di proporre una fiaba araba riguardante il processo d’individuazione, è
avvenuta perché nel mondo orientale, le fiabe sono destinate ad un pubblico adulto e
V
dunque contengono al loro interno più saggezza e comprensione intuitiva; nel mondo
arabo, inoltre, esse hanno un posto nella vita culturale conscia.
1
Capitolo I
1. IL CONCETTO DI INCONSCIO PER FREUD
la distinzione tra conscio ed inconscio è stata operata da Sigmund Freud il quale, è
il fondatore della psicoanalisi. Con il termine psicoanalisi si è soliti intendere una
procedura esplorativa di quei processi psichici altrimenti inaccessibili ai metodi
tradizionali.
La psicoanalisi non è una scuola di pensiero unitaria e rigidamente
istituzionalizzata, bensì, una serie di teorie, pratiche e idee che ruotano intorno
alle scoperte di Sigmund Freud.
Una di queste scoperte è proprio l’inconscio, egli giunge alla conclusione
dell’esistenza di una mente inconscia attraverso l’osservazione; in Introduzione
alla Psicoanalisi (Freud, p. 27) Freud afferma che “ci sono fenomeni molto
frequenti, molto noti e tenuti in assai poco conto, fenomeni che non hanno nulla a
che vedere con le malattie, in quanto possono venire osservati in ogni persona” .
Questi fenomeni sono: il sogno, i lapsus, gli atti mancati, i motti di spirito; tutti
questi fenomeni, seppur diversi tra loro, hanno un significato e tale significato non
può essere attribuito alla mente conscia, anche perché essi vengono agiti senza
che il soggetto ne sia consapevole. La prima rivoluzione in campo psicologico
operata da Freud è proprio questa: ogni sintomo ha un significato specifico.
Proprio per spiegare il significato del sintomo Freud ricorre ad un modello
inconscio della mente.
Gia nel 1899 in “L’interpretazione dei sogni” egli descrive la topica della mente,
ovvero, la mente è divisa in tre sistemi differenti: inconscio, preconscio, conscio.
Ogni sistema funziona attraverso le proprie regole e comunica con gli altri
sistemi.
Le regole del funzionamento inconscio possono essere così riassunte: “assenza di
reciproca contraddizione, processo primario (mobilità degli investimenti),
atemporalità e sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica” (Freud,
1915, p. 91)
2
Freud si chiese cos’era che muoveva l’inconscio e comprese che si trattava di una
forte energia, e che tale energia (libido) derivava dalle pulsioni, specialmente le
pulsioni sessuali.
La libido assume per Freud il significato esclusivo di “bisogno” sessuale, ma tale
denominazione, peraltro già usata in medicina dove stava ad indicare la cupidigia
sessuale, non rispecchiava l’uso classico del termine perché, in Cicerone ed in
Sallustio essa stava ad indicare, genericamente, “desiderio appassionato” (Jung,
1932, p. 52)
Freud, diede alla sessualità un valore grandissimo ed in “tre saggi sulla teoria
sessuale” (Freud, 1905) teorizzò una sessualità infantile, la quale procede
attraverso quattro fasi: orale, anale, fallica, genitale, tali fasi vanno superate onde
evitare l’instaurarsi di sintomi nevrotici da adulti. L’esistenza di una vita sessuale
infantile era già conosciuta, specie nella biologia, il merito di Freud fu quella di
sistematizzarla all’interno di una teoria della mente in grado di spiegare
l’insorgere di alcune patologie psicologiche. Per Freud ogni bambino ha una
sessualità, normale e universale, ha dei desideri e questi desideri non sono
conflittuali ne’ segno di angoscia, ma segno di piacere. Ad un certo momento
della vita, il bambino deve rinunciare a questi desideri; a causa dell’educazione,
della famiglia e delle norme sociali, egli è costretto a rimuoverli. Questi contenuti
rimossi vanno nell’inconscio, portando con loro tutta la carica di cui sono dotati,
tale carica è la pulsione, alla quale è legata l’energia della libido.
Quindi nell’inconscio si trova tutto il rimosso ed in l’Io e L’Es (Freud, 1922) egli
dice che “il rimosso è per noi il modello dell’inconscio”. Gia nel saggio
sull’Inconscio (Freud, 1915 p. 69) scrive, altresì, che “il rimosso non esaurisce
tutta intera la sfera dell’inconscio. L’inconscio ha un’estensione più ampia; il
rimosso è una parte dell’inconscio”
Per comprendere il modello del funzionamento dell’inconscio si deve, quindi ,
partire dal significato che Freud attribuisce alla rimozione ed alle pulsioni. La
rimozione viene operata dall’Io, e si riferisce, essenzialmente, alle pulsioni
sessuali o di desiderio.
3
1.2 TIPI DI PULISIONE
La pulsione è una spinta che nasce dall’interno della psiche e muove i bisogni
dell’Es (istanza totalmente inconscia che risponde al principio del piacere); essa
va distinta dall’istinto in quanto, gli istinti hanno carattere ereditario e sono tipici
degli animali.
Lo stimolo pulsionale si differenzia dagli stimoli esterni perchè proviene
dall’interno , e perché, al contrario degli stimoli, non può essere vinta mediante la
fuga (Freud, 1915, p.29). inoltre la pulsione, al contrario dello stimolo, possiede
una forza costante. Freud indica lo stimolo pulsionale con il termine di “bisogno”;
ciò che elimina tale bisogno è il “soddisfacimento”, il quale può essere ottenuto
solo attraverso un’opportuna modificazione della fonte interna dello stimolo.
Sono le pulsioni, quindi, e non gli stimoli esterni le vere forze che muovono
l’intero apparato psichico e che lo hanno portato al suo attuale livello di sviluppo
(Ibidem, p. 31)
Per Freud, esistono due tipi di pulsione: pulsione di bisogno, o, di
autoconservazione, definita anche pulsione primaria o dell’Io, la quale garantisce
all’individuo la sua sopravvivenza; essa viene mossa da un bisogno specifico e
può essere soddisfatta solo attraverso una risposta specifica. E la pulsione di
desiderio, o, pulsione sessuale, la quale, al contrario, non è mossa da una spinta
specifica perché, qui si tratta di raggiungere il soddisfacimento attraverso
l’attivazione di rappresentazioni mobili. La pulsione importante da un punto di
vista psicoanalitico è la pulsione del desiderio.
Le due pulsioni pur essendo contrapposte tra loro, si trovano in una condizione di
interscambio. Inizialmente le pulsioni sessuali ricevono dalle pulsioni di bisogno
un “appoggio”, ovvero, una modalità di espressione. Più tardi le due pulsioni si
diversificano e le pulsioni di desiderio, sembrano funzionare a scapito di quelle di
bisogno . Le stesse energie contropulsionali con le quali l’apparato psichico si
oppone alle necessità sessuali, sarebbero sottratte alle pulsioni dell’Io.
Parlando di pulsione è stato inserito il termine “energie psichica”, questo termine
corrisponde alla libido, la quale è una quantità finita di energia fisio-psichica, per
Freud essa ha un carattere esclusivamente sessuale. Questa considerazione della
libido solo in termini sessuali, porterà, molti collaboratori, tra cui Jung, a staccarsi
dalla visione teorica di Freud.