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risposte dato che la nostra cultura tradizionale considerava anziana una
donna di cinquanta anni, ma non un uomo suo coetaneo. I risultati di
questa indagine hanno rivelato che gli anziani pensano che l’età senile
inizi a 65 anni, tre anni dopo rispetto a ciò che pensano i giovani, mentre
le donne posticipano l’anticipazione dell’età senile rispetto agli uomini.
Pare dunque difficile stabilire dei criteri di demarcazione precisi che
differenziano le diverse fasce di età dal momento che sopravvivono degli
stereotipi difficili da sradicare, tuttavia è possibile effettuare delle
ricerche su questo campione di soggetti tenendo conto delle
contraddizioni esistenti in qualsiasi tentativo di classificazione.
Modificazioni fisiologiche nell’anziano
“In un organismo che invecchi, tutti i tessuti subiscono modificazioni più
o meno marcate che differiscono per la qualità, quantità ed il ritmo
temporale con cui si manifestano. Così le ossa tendono a decalcificarsi,
la struttura delle pareti dei vasi sanguigni varia, i tassi degli ormoni
circolanti per lo più diminuiscono e molti altri parametri fisiologici si
alterano in tempi e in modi diversi. Normalmente, tutte queste
modificazioni non sono drammatiche, né patologiche, né patogene:
semplicemente l’organismo di chi invecchia deve adattarsi a nuovi
equilibri fisiologici in cui i gradi di libertà sono ridotti e i meccanismi
divengono un po’ meno efficaci.” Dellantonio Negri (1989).
Il numero massimo di anni che un uomo può vivere non è aumentato in
maniera significativa nel corso della storia, ciò che è cambiato è
l’aspettativa media di vita dell’uomo, soprattutto a partire da questo
secolo.
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Lo scopo delle ricerche sull’invecchiamento non è solo quello di
prolungare la vita, ma anche quello di preservarne e migliorarne la
qualità. Parecchie modificazioni cerebrali hanno luogo nell’età avanzata,
anzitutto vi sono le modificazioni vistose come una diminuzione del peso
del cervello e una riduzione del suo contenuto proteico. In secondo luogo
sembra che il numero delle cellule nervose diminuisca con l’età anche in
certi nuclei sottocorticali. Alcune delle caratteristiche proprie della
senescenza come modificazioni dell’umore, del sonno, della memoria,
dell’attività motoria, potrebbero essere dovute a una riduzione del
numero di recettori per la dopamina, la norepinefrina e l’acetilcolina. Si
riducono anche le sinapsi, cioè i siti di contatto tra le cellule nervose e,
più in generale sembrano rallentare i processi di riorganizzazione
sinaptica che probabilmente costituiscono uno dei correlati fisiologici dei
processi di apprendimento.
Sono state proposte almeno tre ipotesi che mettono in relazione
l’invecchiamento con alterazioni del DNA e RNA (Goldman e Coté,
1994), esse sono:
1. Le anomalie e le mutazioni dei cromosomi aumentano con l’età, man
mano che questi errori si accumulano nei geni in attività le sequenze
di DNA di riserva (di ridondanza), che contengono lo stesso tipo di
informazioni, ne prendono il posto finché tutta l’informazione
ridondante è esaurita. A questo punto intervengono i fenomeni di
senescenza.
2. L’apparato genetico non contiene un programma vero e proprio di
invecchiamento, ma gli errori che si verificano durante la duplicazione
del DNA tendono ad aumentare con l’età per via di danni casuali o
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alterazioni che si verificano con il passare del tempo. Il carico
eccessivo di questi errori porta alla senescenza.
3. L’invecchiamento fa parte di una più vasta sequenza evolutiva. Le
modificazioni che si osservano con l’età sarebbero la normale
espressione di un programma che ha inizio con il concepimento e
termina con la morte.
Modificazioni cognitive: memoria verbale e visiva
E’ opinione comune che l’invecchiamento coincida con un decadimento
parziale o globale delle attività cognitive, esistono numerosi studi che
dimostrano quale sia il quadro dei cambiamenti neuropsicologici che
caratterizzano la prestazione dei soggetti anziani normali (cioè senza
particolari patologie). Questi cambiamenti interessano in modo diverso le
aree neuropsicologiche ed hanno un carattere selettivo.
Memoria verbale
L’orientamento Human Information Processing ha prodotto un numero
cospicuo di ricerche sui processi cognitivi, soprattutto sulla memoria,
tuttavia solo di recente si è preso in considerazione lo studio di queste
funzioni lungo tutto l’arco della vita. Nello studio della memoria degli
anziani il panorama delle ricerche appare sbilanciato, con una netta
prevalenza di studi sulla codifica e il recupero di materiale verbale
rispetto a quelli che impiegano materiale visivo. Per quanto riguarda i
compiti verbali una delle ipotesi è quella del deficit di produzione nelle
due versioni di deficit di ricerca e dei livelli di profondità di codifica. In
entrambi i casi il declino nella capacità di apprendere e rievocare
riscontrato negli anziani sarebbe da attribuire alla loro incapacità
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nell’impiegare delle strategie efficaci. Secondo l’ipotesi del deficit di
ricerca gli anziani ricordano meno materiale dei giovani perché non
formulano strategie adeguate quando apprendono o perché non le
utilizzano in fase di recupero. Secondo l’ipotesi dei livelli di profondità
di codifica (Craik e Lockhart, 1972), gli anziani non sarebbero in grado
di attuare spontaneamente una codifica semantica degli item e si
fermerebbero ad un livello di elaborazione più superficiale del materiale.
Essi si troverebbero pertanto in difficoltà nell’accesso alla memoria
semantica durante l’elaborazione di nuove informazioni e il loro ricordo
sarebbe poco resistente all’oblio. Dal momento che l’ipotesi del deficit di
produzione non trova sempre dati a suo favore, sono state formulate
nuove spiegazioni fra le quali quella di Tulving e Thomson (1973) che
riguarda la specificità di codifica. Secondo questo principio il contesto
entro cui una informazione viene presentata ne determina la codifica,
inoltre il recupero dell’informazione viene reso più difficoltoso se questa
viene rappresentata in un differente contesto. Al contrario tanto più
contesto di codifica e contesto di recupero sono simili tanto più il
ricordo sarà facilitato. Il concetto di specificità richiama l’attenzione sul
fatto che un’informazione non viene codificata in maniera univoca, ma
dipende dal contesto in cui è inserita. Lo stesso principio risulta valido
anche per quanto riguarda l’utilizzo delle strategie mnestiche: se nella
fase di codifica viene utilizzata una particolare chiave strategica, questa
si caratterizza come contesto e sarà l’uso della stessa chiave strategica a
permettere un maggior recupero delle informazioni. Il decremento delle
abilità durante la vecchiaia sarebbe da attribuire alle difficoltà incontrate
dagli anziani nel memorizzare contemporaneamente più informazioni, tra
le quali gli indici contestuali.
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Memoria visiva
Le ricerche sul ricordo di materiale visivo sono state invece interpretate
alla luce di due ipotesi: la breakdown hypothesis (Rissenberg e Glanzer,
1986) e la central speed hypothesis (Birren, 1974).
• La breakdown hypothesis si basa sull’idea di una comunicazione fra i
magazzini di memoria, cioè sull’attivazione delle informazioni
immagazzinate rilevanti per un determinato stimolo. Con
l’invecchiamento la comunicazione tra i magazzini mnestici
diminuirebbe e l’attivazione delle informazioni già immagazzinate in
memoria si farebbe meno estesa riducendo la probabilità di successo
nel recupero delle nuove informazioni apprese. Il materiale visivo che,
secondo la teoria della doppia codifica elaborata da Paivio (1971),
attiverebbe più facilmente sia il codice verbale che quello visivo,
perderebbe questa sua proprietà nel corso degli anni e tenderebbe a
diminuire la superiorità dell’immagine sulla parola. Tuttavia l’utilizzo
di mnemotecniche a carattere immaginativo ha dato buoni risultati
anche su soggetti anziani.
• La central speed hypothesis ha utilizzato il paradigma delle rotazioni
mentali osservando che tra gli anziani si verifica un rallentamento
cognitivo generalizzato rispetto ai giovani che aumenta al crescere
della difficoltà del compito.
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CAPITOLO SECONDO: IMAGERY E INVECCHIAMENTO
Che cos’è l’imagery
“E’ evidente in quale parte dell’anima sia la memoria e cioè nella
medesima parte in cui risiede anche l’immaginazione. Sono oggetti di
memoria di per sé quelli che cadono sotto l’immaginazione; per
accidente poi, quelli che non sono separati dall’immaginazione.” Questo
era quanto affermava Aristotele in un suo trattato riguardante la
memoria; egli infatti sosteneva che le immagini sono delle raffigurazioni
interne a cui viene attribuita una particolare funzione nella memoria.
Nell’ambito delle scienze psicologiche l’immagine mentale è considerata
un prodotto dell’attività della mente, quando in tale prodotto sono
presenti delle caratteristiche non comuni di originalità e di creatività
allora ci si riferisce a un fenomeno che viene definito con il termine di
“fantasia” o immaginazione; quando invece ci si riferisce ad un evento
mentale riguardante la rievocazione e la riproduzione di fatti o di oggetti
simili per molti aspetti alla percezione, allora ci si riferisce all’immagine
mentale.
La psicologia sperimentale ha iniziato a occuparsi di immagini mentali
già quando Galton nel suo studio intitolato “Indagine all’interno delle
facoltà umane e dei loro sviluppi”(1883) condusse un esperimento nel
quale chiedeva ad alcune persone di tentare di ricordare come era
apparecchiata la tavola della colazione e di descrivere quello che
vedevano utilizzando l’occhio della mente. Lo studio delle immagini
mentali continuò ad avere un ruolo importante durante il periodo in cui
l’introspezione veniva ritenuta uno dei metodi principali dell’analisi
psicologica, ma subì un netto declino nel periodo del comportamentismo,
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quando i processi mentali interni non vennero più considerati un metodo
valido per lo studio scientifico. Durante gli anni settanta le immagini
ritornarono gradualmente ad avere un posto nelle ricerche scientifiche
grazie all’opera di Paivio che, utilizzando le tecniche normalmente in uso
nei laboratori che si occupavano di apprendimenti verbali, dimostrò che
uno dei fattori che predicono meglio la facilità con cui una parola è
ricordata è costituito dalla capacità dei soggetti di dare origine a una
immagine mentale. Paivio sostiene che il vantaggio mnestico delle
immagini mentali non dipende da una maggior potenza della codifica
immaginativa, quanto piuttosto dalla probabilità di attivazione
contemporanea di due tipi di codifica: quella immaginativa e quella
verbale. La presentazione di una parola altamente immaginabile
dovrebbe dunque attivare sia codici verbali che codici visivi e questa
doppia codifica porterebbe ad una miglior rievocazione. La teoria della
doppia codifica postula l’esistenza di un sistema verbale e di uno
immaginativo che possono essere anche modi nei quali è possibile
codificare le informazioni. Baddeley, Grant, Wight e Thomson (1975) in
alcuni esperimenti tentano di esplorare il ruolo della teoria della doppia
codifica utilizzando dei compiti di interferenza di natura solamente
spaziale (compiti definiti di tracking); se la teoria di Paivio fosse vera i
compiti di tipo spaziale dovrebbero ridurre l’effetto dell’immaginabilità.
La conclusione di tali esperimenti fu che l’effetto dell’immaginabilità
non dipende dalla possibilità di installare una rappresentazione visuo-
spaziale nel sistema immaginativo (o blocco per appunti visuo-spaziali
come Baddeley lo definisce), ma piuttosto dal fatto che le parole
concrete sono più riccamente rappresentate nel sistema di memoria
semantica a lungo termine. Questo risultato, seguito da altri esperimenti,
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ha portato gli autori ad ipotizzare una separazione fra le componenti
visive e quelle spaziali che avrebbero anche una localizzazione
anatomica differente. Il blocco per appunti visuo-spaziale potrebbe
essere coinvolto nella preparazione e manipolazione di immagini
mentali, ma non responsabile del fatto che le parole concrete e più
facilmente immaginabili vengano meglio ricordate di quelle astratte. Le
componenti visive e quelle spaziali potrebbero, alla luce di questi
risultati, essere due componenti correlate ma distinte. Paivio, con la
teoria della doppia codifica, tuttavia, non si è limitato a parlare solamente
di aspetti che riguardano la codifica, ma anche di rappresentazioni
permanenti all’interno della nostra mente. La sua posizione infatti si
propone di dimostrare come un item può essere conservato in memoria
sotto forma di rappresentazione analogico-percettiva in quanto in grado
di conservare alcune caratteristiche percettive dell’oggetto come i
rapporti di grandezza, la forma, il colore... Questa concezione pone le
basi per un ampio dibattito teorico non solo sulla memoria, ma anche
sulla strutturazione e concezione della mente umana. Le caratteristiche
delle rappresentazioni in memoria possono venire codificate attraverso
rappresentazioni di modalità specifiche, mantenendo quindi le
caratteristiche sensoriali (visive, olfattive, tattili...) attraverso cui sono
state codificate oppure, pur avendo inizialmente caratteristiche differenti,
possono venire in seguito rappresentate in un unico formato amodale e
indifferenziato. Marschark e Cornoldi (1991) sembrano preferire una
posizione intermedia fra le due che propone i sistemi a modalità specifica
implicati in un immagazzinamento on line, mentre quando le
informazioni passano alla memoria a lungo termine coinvolgono altre
forme di rappresentazioni apparentemente più amodali. Questa ipotesi
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non esclude il fatto che le informazioni non possano essere conservate in
memoria in forme che permettano una ricostruzione fedele rispetto
all’esperienza percettiva, tuttavia l’esperienza empirica meglio concorda
con la tesi che i sistemi che processano modalità specifiche di
informazioni interagiscono con il sistema di memoria a lungo termine
che lascia tracce non necessariamente analogiche o isomorfiche con il
percetto visivo o con le rappresentazioni della memoria a breve termine.
Natura e organizzazione delle immagini mentali
Negli ultimi decenni si è assistito ad un grande sforzo per cercare di
comprendere la natura e l’organizzazione dei processi immaginativi e
sono sorte alcune teorie che hanno cercato di spiegare l’origine di tali
processi. Da un lato vi sono stati gli “immaginisti” (Paivio, 1974) cioè i
sostenitori dell’autonomia della funzione immaginativa e della sua
analogia con quella percettiva, dall’altro i “proposizionalisti” che negano
tutto ciò e sostengono che le rappresentazioni mentali sono di tipo
unicamente proposizionale (Pylyshyn, 1973).
Kosslyn (1981) e Shepard (1978) hanno indagato questi aspetti attraverso
l’analisi dei tempi di risposta in compiti di rotazione mentale e di
ispezione e hanno evidenziato che l’immaginazione funziona in modo
analogo alla percezione in quanto, per ruotare un’immagine mentale è
necessario un tempo maggiore quanto più è ampio l’angolo di rotazione e
ispezionare un’immagine richiede tempi maggiori all’aumentare della
distanza fra gli estremi presi in considerazione. Questo dato viene
interpretato in una duplice maniera, da un lato seguendo le ipotesi di
Shepard (1978) il quale sostiene una sorta di analogia fra funzione
percettiva e immaginativa, dall’altro, come sostiene Pylyshyn (1981), i
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risultati si riferiscono al prodotto delle conoscenze che il soggetto
possiede sul funzionamento percettivo che vengono trasferite anche a
quello immaginativo. Queste due spiegazioni si basano su due modelli
antitetici in quanto il primo attribuisce all’immaginazione un ruolo
funzionale all’interno dei processi immaginativi e l’altro, invece, la
considera un mero epifenomeno privo di una sua funzione specifica. In
uno studio condotto da De Beni e Giusberti (1990), che riguarda gli
aspetti metacognitivi dell’immaginazione, vengono analizzate da un lato
le conoscenze condivise che un campione di soggetti universitari
possiede riguardo alle immagini mentali e, dall’altro, le influenze che
queste hanno sulla immaginazione stessa. Questi ricercatori, partono
dalla consapevolezza che i risultati di questo tipo di studi vanno
interpretati con molta cautela dal momento che spesso (soprattutto in
alcune lingue come il francese e l’italiano) vi è una sorta di ambiguità
sull’uso del termine immaginazione. Gli scopi di questa ricerca erano di
venire a conoscenza di che cosa la gente pensa dell’immaginazione e
cioè verificare se la sua definizione poteva essere considerata il referente
semantico dei termini immagine mentale e immaginazione. Spesso
infatti, dicono gli autori, questi termini sono più che altro associati agli
aspetti legati alla creatività e alla fantasia piuttosto che a una
“rappresentazione della realtà”. Se questa ipotesi fosse vera potrebbe
succedere che il significato che lo sperimentatore attribuisce al termine
immagine mentale (rappresentazione della realtà) e quello che attribuisce
il soggetto (fantasticheria o pensiero mentale) non corrispondano affatto
e ciò verrebbe a creare fraintendimento e ambiguità. Inoltre i ricercatori
volevano indagare gli effetti di istruzioni ad immaginare situazioni
comuni espresse in un linguaggio il più semplice possibile. Infatti una
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delle ipotesi è relativa al fatto che i soggetti sarebbero in grado di fornire
risposte interessanti relative ai processi immaginativi se le domande
fossero poste in modo comprensibile. I risultati confermano l’ipotesi
secondo la quale vi è una certa ambiguità nel classificare il termine
immaginazione in quanto alcuni soggetti lo vedono maggiormente come
qualcosa sul versante della fantasia, altri su quello delle immagini
mentali. I soggetti ritengono che l’esperienza dell’immaginare sia
qualcosa di comune caratterizzata da elementi precisi come il colore,
elementi di realtà o di fantasia, e riconoscono l’esistenza di differenze
individuali. La ricerca inoltre ha evidenziato come i soggetti siano in
grado di operare sia processi simil-percettivi sia quelli del tutto svincolati
dai limiti posti dal mondo fisico a seconda della presentazione linguistica
della domanda. Infatti i dati confermano l’ipotesi iniziale che
l’immaginazione nei compiti di scanning e rotazione si comporta come la
percezione perché in tal senso è indirizzata dalle richieste del compito;
questo, però, non significa che questo sia il solo modo di funzionamento,
ma solo uno fra quelli possibili. Questa differenza potrebbe essere
causata da diverse istruzioni linguistiche. Sono sufficienti piccole
variazioni linguistiche (essere\andare) per indurre un tipo di risposta
piuttosto che un’altra, infatti l’immaginazione in compiti di scanning e
rotazione si comporta in modo simile alla percezione perché in tal senso
è indirizzata da istruzioni linguistiche. Se, invece, le richieste del
compito sono formulate in modo diverso potrà accadere che
l’immaginazione segua altre vie di funzionamento.
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Differenti tipi di immagini mentali
Molti sono i fattori che giocano un ruolo importante nella generazione e
nel ricordo di immagini mentali come ad esempio la vividezza della
immagine, le differenze individuali, il tipo di istruzioni e il tipo di
immagine generata.
Un altro fattore importante riguarda la presentazione di materiale
concreto, infatti si può dire che le parole concrete vengono meglio
ricordate di quelle astratte forse perché, se si considerano le proprietà
linguistiche, le parole astratte evocano più significati e sono da
considerarsi maggiormente ambigue rispetto alle concrete (Richardson,
1991); Paivio stesso (1969) considerava la concretezza semplicemente
un altro modo per misurare la immaginabilità. Un altro aspetto di
notevole interesse riguarda il tipo di immagini mentali che vengono
generate e la relativa efficacia sul ricordo, infatti nonostante spesso sia
implicita l’assunzione che esista un solo tipo di immagine mentale,
numerose ricerche hanno evidenziato una variegata tipologia al loro
interno supportata sia da studi su introspezione soggettiva che da
evidenze empiriche (Cornoldi, De Beni e Pra Baldi, 1989; De Beni e
Giusberti, 1990).
Immagini comuni e bizzarre
Per quanto riguarda le immagini bizzarre è opinione comune che
facilitino la prestazione mnestica anche se questo non sempre concorda
con i protocolli di rievocazione. Ad esempio i soggetti della ricerca
condotta da De Beni, Cornoldi, Pra Baldi e Cavedon (1986), impegnati
in compiti di rievocazione di immagini mentali, riferiscono di ricordare
meglio le immagini bizzarre rispetto a quelle comuni anche se ciò non
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corrisponde al vero; questo risultato può essere considerato uno dei casi
in cui vi è discrepanza fra la consapevolezza mnestica del soggetto e le
sue prestazioni effettive. Tuttavia altri esperimenti mostrano la
superiorità del ricordo delle immagini bizzarre rispetto a quelle comuni
ad esempio McDaniel e Einstein (1991) analizzano la contraddittorietà
dell’effetto bizzarria e rilevano che la miglior efficacia sulla prestazione
mnestica è dipendente da alcuni fattori specifici quali la procedura
sperimentale, la modalità di elaborazione degli stimoli e il tipo di
compito di memoria. Infatti la superiorità delle immagini bizzarre risulta
evidente quando vengono presentate liste di parole o frasi con situazioni
miste a formare immagini bizzarre e comuni; l’effetto non si evidenzia
con disegni sperimentali between subjects quando cioè ad un gruppo di
soggetti viene chiesto di evocare una serie di immagini uniformemente
bizzarre e ad un altro gruppo di evocare solo immagini comuni. Inoltre
l’istruzione ad immaginare è decisiva per avere l’effetto bizzarria che
non è evidente se la consegna è semplicemente quella di elaborare
semanticamente frasi bizzarre. Infine, per quanto riguarda l’aspetto
relativo al tipo di compito di memoria, la formazione di questo tipo di
immagine produce effetti positivi in compiti di rievocazione libera, ma
non di riconoscimento o di ricordo di coppie associate. I due autori
ipotizzano che questi effetti possano essere spiegati sulla base della
teoria della distintività. La distintività di un evento è determinata da due
fattori e cioè dal fatto che un item distintivo ha poche caratteristiche in
comune con le altre informazioni contenute in memoria e si identifica
come distintivo all’interno del contesto di apprendimento nel quale è
inserito. Un item bizzarro rispetta entrambe queste caratteristiche. Esiste
tuttavia una spiegazione alternativa che ipotizza l’esistenza di una
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attivazione emotiva dei soggetti alla presentazione dell’item bizzarro;
questo potrebbe comportare un maggior investimento di risorse attentive
che fungerebbero da cue emotivo durante il recupero. Il cue emotivo
potrebbe perdere di efficacia se il numero di item bizzarri è troppo alto.
Immagini singole o interattive
Le immagini mentali sono state distinte anche sulla base della
dimensione singola o interattiva dal momento che questa caratteristica
sembra avere un peso sul ricordo. Infatti pare che l’utilizzo di questo tipo
particolare di immagini consenta l’opportunità di integrare e organizzare
insieme il materiale da ricordare che in fase di recupero risulta
maggiormente reperibile. Infatti se questo tipo di immagine nella fase di
codifica permette a due item distinti di essere meglio organizzati, nella
fase di recupero ha il vantaggio che i due item, elaborati come un’unica
immagine, vengano attivati come unità e che ogni loro parte risulti
facilitante al recupero delle altre (Bower, 1972).
Immagini generali e immagini specifiche, personali e impersonali
Secondo alcuni autori è possibile effettuare un’utile classificazione
distinguendo le immagini mentali secondo la dimensione generalità
\specificità.
Una immagine generale rappresenta un concetto senza nessun
riferimento a un particolare esemplare cioè, come propone Kosslyn
(1994) in un’analoga categorizzazione che vede distinte immagini
prototipiche da quelle esemplari, si intende per generale un’immagine
che si riferisce ad un prototipo senza che vengano generate ulteriori
specificazioni.