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La scelta di analizzare la Croazia e la Serbia-Montenegro, tra i cinque stati indipendenti formatisi
dalla disciolta Iugoslavia, avviene per vari ordini di motivi. Innanzitutto, per un dato demografico
evidente, in quanto gli abitanti croati (4,5 milioni) e serbo-montenegrini (10,7 milioni)
rappresentano oltre il 65% dell’intera popolazione della ex Iugoslavia, e perciò più significativo
anche a livello politologico. In secondo luogo, il processo di democratizzazione che ha coinvolto
questi due paesi rappresenta una sorta di “media” tra il repentino sviluppo democratico sloveno
(dove, il numero contenuto di abitanti, 1,9 milioni, l’assenza di fratture etniche ed un trend
economico da paese occidentale ha reso tutto più semplice) e quello insufficiente di Bosnia-
Ezegovina (dove, scontri etnico-religiosi ed uno stato dell’economia critico, rendono, di fatto,
ancora impossibile una stabilizzazione). Infine, seppure con alcune differenze e sentieri di sviluppo
democratico diversificati, la Croazia e la Serbia-Montenegro presentano, comunque, degli aspetti
compatibili con un approccio comparativo dei loro sistemi politici sia in una prospettiva diacronica
che sincronica.
Nella prima parte si è ritenuto opportuno esporre i concetti teorici che caratterizzano i processi di
democratizzazione, mettendone in evidenza quelli più rilevanti per il caso croato e per quello serbo-
montenegrino. Di conseguenza, dopo una definizione di democrazia e la descrizione delle fasi di un
processo di democratizzazione, si analizzano quei fattori interni che possono aver avuto un ruolo
decisivo, o comunque importante, nell’instaurazione democratica prima, e nel processo di
consolidamento dopo, in tutti quei paesi coinvolti da tale fenomeno. Le caratteristiche storiche-
culturali, le fratture etniche, le elite politiche, i partiti politici presenti nel panorama politico interno
ed i vari sistemi elettorali adottati, nonché le caratteristiche del sistema economico, rappresentano
alcuni degli aspetti più rilevanti ed influenti per i futuri tratti caratteristici del nuovo regime
politico.
L’analisi delle influenze delle dimensioni internazionali su un processo di democratizzazione,
spesso secondarie in altri casi, trovano qui una trattazione approfondita per la peculiarità dei due
casi empirici considerati. Infatti, le pressioni internazionali, più evidenti in Serbia ma rilevanti
anche in Croazia, hanno caratterizzato il cammino verso la democrazia di entrambi i paesi,
rendendo quindi necessaria un’analisi dettagliata degli strumenti in mano alla comunità
internazionale per condizionare le scelte interne di uno stato, capire quali di questi strumenti hanno
avuto un ruolo decisivo nei processi di democratizzazione di Croazia e di Serbia-Montenegro e,
soprattutto, qual è stata la ricezione interna a questo tipo di pressioni.
Lo studio di questi due casi, come già detto, avviene con un approccio comparativo e, di
conseguenza, si fanno proprie alcune precisazioni metodologiche riguardanti i vantaggi e i limiti e
di questo metodo. Lo scopo di questo lavoro è chiaramente esplicativo ed inizia con
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l’individuazione del quesito della ricerca, l’esposizione dei concetti teorici attualmente validi per la
letteratura politica inerenti al campo d’indagine analizzato e, solo successivamente, si passa alla
scelta e allo studio dei casi empirici più significativi in riferimento al suddetto quesito.
Tra i vantaggi di un approccio comparativo vi è la possibilità di giungere a degli studi allargati per
corroborare, smentire o raffinare dei costrutti teorici generalizzanti precedentemente effettuati,
mentre uno dei limiti di questo tipo di ricerca sta nel pericolo di comparare l’incomparabile e
rendere, di conseguenza, lo studio comparativo inutile ed, anzi, controproducente. Per evitare
quest’ultimo pericolo, quindi, in questo lavoro sono state fatte proprie alcune raccomandazioni
metodologiche per far sì che l’analisi comparativa possa raggiungere il vantaggio sopra menzionato.
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PARTE I - ANALISI TEORICA DEI PROCESSI DI DEMOCRATIZZAZIONE
7
CAPITOLO 1
DEFINIZIONE DI DEMOCRAZIA E FASI DI UNA DEMOCRATIZZAZIONE
1- Cos’è una democrazia-
Con il termine democrazia si intende, letteralmente, il potere del popolo. Tuttavia, ripercorrendo le
numerose definizioni succedutesi nel tempo per inquadrare tale concetto sia in termini prescrittivi
che in termini reali, si può giungere ad attualizzare la nozione di democrazia. In termini generali,
quelli che qui interessano, riprenderemo le analisi svolte da Dahl e da Sartori che hanno studiato in
maniera esaustiva le caratteristiche di un regime democratico(o poliarchico, per riprendere la
terminologia dello stesso Dahl), fondendo i lineamenti normativi con quelli reali. Il politologo
americano definisce una poliarchia “quel particolare regime in cui l’inclusività (o la partecipazione)
raggiunga il più alto numero di individui possibili e dove la contestazione pubblica (e quindi la
liberalizzazione) sia la più ampia possibile”(Dahl 1970). Questa definizione appare la più
appropriata, poiché rimarca le caratteristiche empiriche di tutti i regimi democratici, evidenziando,
quindi i due tratti salienti che sono, in sostanza, la partecipazione ed il dissenso. Sartori, nel definire
la democrazia in termini descrittivi, riprende la teoria competitiva di Schumpeter. Alla base di
questa teoria c’è la procedura democratica dalla quale “scaturiscono effetti secondari e composti
dipendenti dall’adozione di quel metodo”. Così, Sartori definisce una democrazia descrittiva “una
poliarchia aperta la cui competizione nel mercato elettorale attribuisce potere al popolo e
specificamente impone la responsività degli eletti nei confronti dei loro elettori”(Sartori 1993). Lo
stesso Sartori considera questa una definizione minima, la quale “stabilisce la condizione
necessaria e sufficiente ai fini della messa in opera di un sistema che può a ben diritto essere
dichiarato democratico”. E’ necessario, a questo punto, definire la responsività, la quale
rappresenta, a grosse linee, la capacità dei governanti di rispondere alle richieste provenienti dai
governati.
Le definizioni di Dahl e di Sartori( ma anche di Schumpeter) possono esser considerate
compatibili. Anche il politologo americano, come quello italiano, giunge all’individuazione dei
concetti di competizione e responsività. Infatti, si possono considerare tali termini nella
partecipazione e nel dissenso; a questo proposito, in ogni moderno regime democratico la
partecipazione non è mai fine a se stessa, ma implica necessariamente una contesa elettorale aperta
dove, chi vince (nel rispetto delle regole di elezioni democratiche), ha il diritto-dovere di accedere
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alle cariche pubbliche elettive( in primis governo e maggioranza dell’assemblea rappresentativa) e
di governare.
1
Anche il concetto di responsività si può far discernere indirettamente dalla definizione di Dahl; in
tutti i regimi anche appena democratici, è necessaria una qualche forma di controllo sugli eletti che
si manifesta nella ricorrenza delle tornate elettorali, dove gli elettori, sostanzialmente, decidono il
destino politico della classe politica al potere in quel determinato momento. Dal momento che Dahl
esplicita che uno dei requisiti minimi necessari alla democrazia è rappresentato dalla
partecipazione, il cui fine è l’attività di controllo esercitata dai governati sui governanti, ecco che le
due definizioni convergono. Così, riprendendo la definizione di Dahl (ma anche quella di Sartori)
possiamo individuare le sette condizioni minime necessarie per dichiarare un paese democratico: 1)
il controllo delle politiche di governo è affidato costituzionalmente a persone soggette al giudizio
popolare 2) i membri eletti sono scelti attraverso elezioni frequenti, corrette e competitive, condotte
in un contesto non violento 3)tutta la popolazione adulta deve avere diritto di voto per l’elezione
delle cariche pubbliche 4) tutta la popolazione adulta deve avere diritto di competere per l’elezione
delle cariche pubbliche 5) i cittadini devono avere libertà di espressione senza pericoli reali di
essere perseguiti arbitrariamente 6) i cittadini devono avere il diritto di giungere a diverse e
alternative fonti di informazione 7) i cittadini hanno anche diritto di formare associazioni od
organizzazioni indipendenti, inclusi partiti politici.
Analizzando sinteticamente i sette requisiti individuati dal politologo americano, nel primo si
evidenzia la necessità, gia sottolineata da Sartori, del controllo dei governanti da parte dei
governati, mentre nel secondo si analizzano le caratteristiche dello strumento di controllo più
importante, le elezioni , le quali devono essere libere, corrette e ricorrenti, a dimostrazione, con
quest’ultimo termine, che la democrazia è un esercizio continuo nel tempo. Nel terzo e quarto punto
Karl e Schmitter mettono in risalto il diritto di tutta la popolazione ( maschile e femminile,
naturalmente) di partecipare alle elezioni sia come votante semplice che come competitore diretto.
Il quinto requisito riguarda la garanzia per ogni cittadino della libertà d’espressione, senza la quale
un regime non può affatto definirsi democratico. Successivamente i due politologi sottolineano
l’importanza ed il ruolo fondamentale che ricopre l’informazione. Riguardo proprio al sesto punto,
E’ noto che ogni regime autoritario o totalitario monopolizza l’informazione, non permettendo in
alcun modo la fuoriuscita di notizie che non siano passate precedentemente al proprio vaglio.
1
Lo stesso Dahl, a proposito del passaggio da un autoritarismo ad una democrazia, descrive tre possibili strade: nel
primo caso la competizione precede la partecipazione, nel secondo la partecipazione precede la competizione, mentre
nel terzo i due concetti si sviluppano contemporaneamente. Il politologo americano, pur privilegiando il primo caso,
considera una democrazia compiuta soltanto quel paese che abbia raggiunto entrambi gli obiettivi. A tal riguardo si
rinvia a Poliarchy (1970), ma anche a tutta la letteratura politica che riprende tale opera.
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Pertanto, nessun regime può definirsi democratico qualora non siano presenti fonti diverse di
informazioni, in grado di poter diffondere notizie in maniera indipendente dal potere politico.
L’ultimo requisito necessario alla democrazia, individuato da Karl e Schmitter, riguarda la libertà
d’associazione compresa, ovviamente e soprattutto, quella politica.
Se uno stato manchi anche soltanto di uno dei sette punti precedentemente delineati, esso non può
definirsi democratico in quanto, quella appena data, si rifà ad una definizione minima e descrittiva
di democrazia, sotto la quale si aprono assetti istituzionali diversi come, per esempio,
l’autoritarismo.
Vale la pena ribadire che una definizione generale e minima di democrazia sono più che mai
necessarie per analizzare empiricamente tutti quei paesi o quelle aree uscite di recente da regimi
autoritari prolungati (centro e sud America, Europa orientale ed area balcanica, etc.), in cui lo
sviluppo della democrazia è proceduto a rilento e dove, obiettivamente, non possono utilizzarsi
termini più impegnativi per descrivere il processo politico di democratizzazione. Pertanto si può
dire che le definizioni di democrazia possano e debbano variare secondo l’ambito empirico cui si
guarda; se si analizza, per esempio l’attuale stato della democrazia dell’Europa occidentale o del
nord-America, è evidente che i parametri siano diversi da quelli stabiliti nella definizione minima e
si rendano, quindi, necessarie definizioni diverse come quella genetica o anche ideale. Questa
“elasticità” del concetto di democrazia è utile per far sì che le descrizioni del quadro generale delle
democrazie reali possano descrivere sia i cambiamenti di quei sistemi politici già democratici da
molto tempo, sia quelli che si trovano in uno stato democratico iniziale Di conseguenza la
definizione minima è necessaria poiché rappresenta lo spartiacque tra i regimi non democratici e
quelli che invece rientrano in questo genere. Tuttavia, è bene chiarire che il raggiungimento dei
requisiti minimi, rappresenta una sfida difficile per tutti quei paesi che per lungo tempo sono stati
governati da poteri autoritari, e che quindi si trovano ad affrontare riforme radicali, affinché si
affermino quei principi fondamentali per far entrare quel determinato paese nell’orbita democratica.
Tale processo, come vedremo più avanti, ha dei tempi che variano secondo le aree e gli stati
interessati, e può anche non essere graduale, visto e considerato che molti paesi hanno subito delle
crisi o delle accelerazioni improvvise a democratizzazione in corso. Questa precisazione testimonia
una volta di più l’opportunità di non caricare di troppi significati prescrittivi il termine democrazia
per riuscire ad inquadrare lo sviluppo di quei paesi alle prese con i cambiamenti appena delineati.
Analizzare empiricamente, per esempio, l’attuale sistema di Serbia-Montenegro, prendendo a
riferimento la definizione di democrazia genetica, che implica, in sostanza, un accordo tra gli attori
sociali (e quindi tra i partiti) sul rispetto delle c.d. “regole del gioco”, porta automaticamente a
collocare questo paese al di fuori del genere democratico, poiché vi sono ancora partiti con un forte
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appoggio popolare che respingono, o comunque esitano ad accettare, le principali regole di
convivenza democratica. Tuttavia se si accettasse questa prospettiva, si perderebbero di vista i
progressi fatti da tale paese, negli ultimi anni, verso la democrazia.
Di conseguenza, poiché i concetti teorici sviluppati in questa parte sono per lo più funzionali
all’analisi empirica svolta nella seconda, quando si parlerà di democrazia, si intenderà la definizione
minima (con i conseguenti sette punti di Karl e Schmitter sviluppati precedentemente), la più adatta
a descrivere i processi di democratizzazione che più avanti saranno analizzati.
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2- Le fasi di un processo di democratizzazione
Un processo di democratizzazione implica dei cambiamenti radicali nell’assetto istituzionale di un
paese, e di conseguenza anche i tempi possono essere mediamente lunghi. Proprio a causa della
durata più o meno prolungata, è utile scindere l’intero processo individuando le diverse fasi con le
relative caratteristiche per poter meglio capire, in seguito, i diversi esiti possibili di una
democratizzazione.
Tuttavia questa divisione è sì utile per studiare il fenomeno dettagliatamente, ma è bene precisare
che l’intero processo avviene in maniera dinamica e i limiti tra la fine di una fase e l’inizio della
successiva sono stabiliti in base ad episodi importanti, i quali, però, assumono rilevanza solo se
connessi a quelli precedenti e a quelli successivi.
Seguendo, quindi, la tripartizione classica ripresa nei maggiori studi empirici riguardanti le
democratizzazioni, esse sono formate da tre micro-processi: Transizione, instaurazione e
consolidamento.
2.1 - Transizione
La fase più significativa di un processo di democratizzazione è rappresentata dalla transizione da un
regime non democratico ad uno poliarchico. Riprendendo Morlino, si definisce transizione quel
“periodo ambiguo ed intermedio in cui il regime ha abbandonato alcuni caratteri determinanti del
precedente assetto istituzionale senza aver acquisito tutti i caratteri del nuovo regime che sarà
instaurato”(Morlino 2003).
La scelta di abbandonare il precedente regime per avviare una democratizzazione può avvenire,
sostanzialmente, per quattro motivazioni.
Innanzitutto, essa può essere il risultato di un’evoluzione graduale del sistema politico. La prima
ondata di democratizzazione(Huntington 1991) avvenuta tra il 1828 ed il 1926, per esempio, fu
caratterizzata dalla graduale apertura del sistema, senza rotture apparenti dove, la competizione
oligarchica prima, e la competizione con una partecipazione allargata a gran parte della popolazione
dopo, hanno caratterizzato la storia di quei paesi che oggi posseggono le istituzioni democratiche
più sviluppate (Usa, Inghilterra, Francia).
Un secondo percorso verso la democrazia può avvenire in conseguenza di una sconfitta militare di
un regime autoritario, che gli fa perdere legittimazione. Ciò è avvenuto diffusamente all’indomani
della seconda guerra mondiale, quando la vittoria alleata promosse le istituzioni democratiche in
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Germania, Italia, Giappone ed Austria , ovvero in quei paesi sconfitti che non rientravano affatto
nell’orbita democratica.
Una terza via di passaggio da un autoritarismo ad una democrazia può avvenire a causa di proteste
interne riguardanti i risultati insoddisfacenti( in genere quasi sempre economici) del regime. Questo
elemento ha caratterizzato in parte i processi di democratizzazione del centro e del sud America
(Ecuador, Brasile, Uruguay, Honduras etc.), dove, gli scarsi risultati economici, le libertà politico-
civili negate o congelate, nonché l’apparente benessere prodotto dalle democrazie estere, ha
prodotto una serie di manifestazioni a favore dell’instaurazione di una democrazia.
Un’ulteriore spinta verso la democratizzazione riguarda l’influenza dell’assetto internazionale sul
sistema politico interno. Tale causa ha contribuito a provocare numerosi cambiamenti di regime nel
corso degli anni, e data proprio la sua rilevanza, sarà oggetto di studio nel successivo capitolo.
Nell’analisi di un processo di democratizzazione è fondamentale individuare gli attori sociali e
politici protagonisti del cambiamento, i quali svolgono un ruolo decisivo nelle scelte normative ed
istituzionali che portano il paese da un autoritarismo ad una democrazia.
Prima di tutto, si definisce liberalizzazione “quel processo, che ha luogo durante la transizione e di
solito la caratterizza, di concessione dall’alto di maggiori diritti politici e civili, mai ampi e
completi, tali da consentire l’organizzazione controllata della società civile a livello sia di elitè sia
di massa”( Morlino, 2003).
Dalla definizione di cui sopra, si può ben capire che gli attori politici protagonisti di questo tipo di
transizione sono gli stessi che formavano l’elite del regime non democratico precedente.
I motivi per cui un regime decide di mutare pelle possono essere molteplici: in primo luogo un’elite
autoritaria può decidere una qualche apertura democratica in risposta alle pressanti spinte che
giungono dalla società civile. Oppure può esserci una liberalizzazione a causa di un contesto
internazionale largamente democratico, che suggerisce una politica più moderata per prevenire un
eventuale moto rivoluzionario. Può accadere anche che una liberalizzazione avvenga come un
processo interno all’elite governativa, dove, magari immediatamente dopo la morte di un leader
carismatico( si vedrà nella seconda parte, per esempio, come la morte di Tudjman in Croazia abbia
agevolato la completa democratizzazione del paese), va a prevalere una linea favorevole ad una
concessione di alcune libertà politico-civili e di conseguenza prevalgono anche gli elementi più
moderati della coalizione dominante.
Le caratteristiche del precedente regime non democratico influenzano in maniera importante una
transizione alla democrazia. A tal proposito, viene utile la classificazione effettuata da Linz e
Stepan, dove si distingue tra autoritarismo, totalitarismo, post-totalitarismo e sultanismo. Di questa
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classificazione si considererà soltanto il primo ideal-tipo, tralasciando gli altri, poiché non rientrano
nell’analisi comparata che sarà svolta nella seconda parte
2
.
Riprendendo sempre la definizione data da Linz e Stepan, si definisce un autoritarismo quel
“sistema politico caratterizzato da pluralismo politico limitato e non responsabile(…) privo di
un’ideologia guida articolata e di un’estesa mobilitazione politica(…), dove la leadership esercita il
potere entro vincoli normativi indefiniti ma prevedibili(…)(Linz e Stepan, 1996). Da questa
definizione si capisce il motivo per cui un processo di democratizzazione che parta da un
autoritarismo ha ampie possibilità di successo; infatti, generalmente, il sistema partitico è congelato
ma quasi mai distrutto, tanto che, generalmente, i partiti che si sviluppano dopo la caduta del regime
autoritario sono gli stessi di quelli già esistenti precedentemente all’instaurazione autoritaria.
Inoltre, la nomenclatura del regime precedente è, spesso, ammessa e quindi partecipa alla
competizione elettorale democratica, questo a dimostrazione del fatto che non è necessaria una
rottura traumatica con il passato governo.
Tuttavia, il rischio di una transizione guidata dall’alto riguarda la concreta possibilità che a tale
liberalizzazione non facciano seguito altre aperture in senso democratico, e che, di conseguenza, il
processo di democratizzazione non abbia in realtà neanche inizio o, comunque, sia sospeso a metà.
Una democratizzazione può essere guidata anche da un’opposizione, la quale riesce a prendere il
potere a scapito del precedente regime. Ciò può avvenire qualora abbia successo una rivoluzione
oppure grazie ad un intervento esterno in appoggio dell’opposizione. Le caratteristiche di questo
traghettamento possono essere diverse, poiché molto dipende dalle qualità, più o meno
democratiche, dell’opposizione. Questo tipo di transizione è stata poco analizzata negli anni, poiché
è accaduto raramente che un processo di democratizzazione fosse guidato esclusivamente da una
coalizione di opposizione, col conseguente allontanamento immediato dell’intera elitè governativa
precedente. Tuttavia, per esempio, nel complesso cambiamento politico serbo, la caduta di
Milosevic avvenne anche a seguito di continue manifestazioni di piazza, che permisero
sostanzialmente la presa del potere da parte di gran parte dell’opposizione. Tale tipo di
cambiamento è stato comunque analizzato da Huntington(1991) sotto il nome di sostituzione. In
genere una sostituzione avviene grazie ad un’alleanza( esplicita od implicita) tra uno o più gruppi
sociali( in genere studenti) e l’ambiente militare o di sicurezza, l’unico in grado di poter causare
2
Lo stesso Linz, negli scritti precedenti a transizione e consolidamento democratico (1996), considera il post-
totalitarismo come un sotto-tipo del regime autoritario ( su tutti si cfr. Toilitarian and authoritarian regimes, 1975). In
questa analisi non si porrà troppa attenzione alla distinzione effettuata da Linz e Stepan, in transizione e consolidamento
democratico, ma a quella effettuata dallo stesso Linz nel ’75. Questa scelta è suggerita soprattutto dai casi empirici
analizzati nella seconda parte. Infatti, il precedente regime non democratico di Serbia-Montenegro e Croazia (la
repubblica federale iugoslava), presenta aspetti peculiari rispetto agli altri regimi comunisti dell’area dell’Europa
orientale controllati dall’Unione sovietica, così che la categoria del post-totalitarismo, non rispecchia le caratteristiche
del vecchio regime slavo guidato da Tito.
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direttamente la caduta di un regime autoritario. Il politologo americano indica otto punti che
favoriscono una sostituzione che possono essere riassunti come segue: 1) rimarcare l’illegittimità
del regime 2) far perdere il sostegno di alcuni gruppi alla causa autoritaria 3) cercare l’appoggio dei
militari 4) rifiutare la violenza per ottenere l’appoggio delle forze di sicurezza 5) cogliere tutte le
occasioni per opporsi al regime 6) sviluppare contatti con i media e le organizzazioni internazionali
7)formare le cosiddette organizzazioni-ombrello 8)riempire subito il vuoto, qualora cada il regime.
Si vedrà come gran parte degli otto punti (eccezion fatta per il settimo) sviluppati da Huntington,
siano stati rispettati nel caso della caduta del regime di Milosevic in Serbia-Montenegro.
Il tipo di transizione più comune, comunque, avviene con la formazione di un governo ad interim,
formato in genere sia da membri del precedente regime, sia dai membri dell’opposizione.
Ovviamente, per rendere tale governo credibile ed efficiente, devono essere esclusi i membri più
esposti del precedente regime, in quanto una loro eventuale presenza renderebbe, anche,
difficilmente evidenziabile una discontinuità.
I compiti del governo ad interim sono, in realtà, pochi e chiari, ma, allo stesso tempo sono anche di
vitale importanza. Il primo e più importante compito è quello di stabilire una data precisa per le
elezioni da tenersi entro un tempo né eccessivamente breve ma nemmeno troppo lungo. Il motivo
per cui sarebbe necessario non accelerare troppo i tempi per le prime elezioni democratiche riguarda
la possibilità che tutte le forze politiche rilevanti abbiano il tempo per riorganizzarsi, dato che,
generalmente, sotto un regime autoritario, tali partiti non hanno possibilità d’espressione o hanno
comunque un ruolo irresponsabile. E’ altresì necessario che la data di elezione non sia neanche
troppo lontana dalla formazione del governo ad interim, poiché, in tal caso, si correrebbe il pericolo
che quest’ultimo si appropri di poteri tipici di un governo eletto con la possibilità di un continuo
rinvio del voto ed il conseguente arresto del processo di transizione. In termini pratici, quindi, il
duplice compito del governo ad interim riguarda la gestione dell’ordinaria amministrazione,
ineliminabile in un moderno regime politico, e, soprattutto, quello di traghettare il paese, in
maniera neutrale, alle elezioni, per far sì che si possa affermare un esecutivo ed una maggioranza
assembleare legittimi.
Qualora però( e l’eventualità non è poi così rara), il governo di transizione accentri su di sé poteri
che nessuna elezione popolare in realtà gli ha conferito, le problematiche di democratizzazione
aumentano, in quanto tale situazione rischia di congelarsi, con la concreta possibilità di rinvio delle
elezioni competitive o il cambiamento delle stesse con un plebiscito o un referendum.
Entrando, però nel merito delle scelte dei governi di transizione(che sia un governo erede del
precedente regime, un governo rivoluzionario od un governo ad interim non cambiano comunque le
questioni da affrontare), è necessario analizzare l’importanza di tre scelte, che in tale periodo vanno
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effettuate: le prime due, correlate tra loro, riguardano il sistema elettorale in genere da adottare alle
prime elezioni democratiche e la delicata questione se ammettere o meno quei partiti cosiddetti
“anti-sistema”, che non accettano le regole del gioco democratico, e la conseguente instaurazione
iniziale di una democrazia protetta( Finer 1970), mentre la terza riguarda le scelte preliminari per la
formazione di una futura assemblea costituente.
Per quanto riguarda la prima questione, il compito, inizialmente, è quello di consultare le forze
politiche intenzionate a presentarsi alle prime elezioni democratiche per far in modo che il sistema
elettorale adottato sia il più possibile condiviso. Generalmente, nelle prime fasi di un processo
democratico è auspicabile introdurre un sistema proporzionale ad uno maggioritario, in quanto
garantisce una rappresentatività maggiore, necessaria inizialmente a far sì che tutte o gran parte
delle forze politiche abbiano visibilità e conseguentemente crescente fiducia nella competizione
elettorale democratica. Tale sistema elettorale, inoltre, è particolarmente adeguato per quei paesi in
cui vi sono forti cleavages etnico-religiose e che conseguentemente necessitano di maggiore
rappresentatività, affinché tutte le minoranze abbiano possibilità d’espressione all’interno di regole
democratiche e a discapito di possibili iniziative anti-domocratiche di alcuni partiti. A tal proposito
si può notare come le scelte riguardanti il sistema elettorale siano andate in questa direzione in quasi
tutti quei paesi dell’est-Europa dove appunto, forti differenze etniche, i numerosi partiti presenti nel
panorama politico ed altre concause hanno suggerito prudenza attraverso l’adozione di un sistema
proporzionale( generalmente con soglie d’esclusione per garantire un minimo di governabilità), che
ha favorito un processo di democratizzazione graduale e continuo, senza strappi o interruzioni
eclatanti. A tal riguardo è significativo che l’unico paese dell’area ad aver adottato un sistema
uninominale a due turni è l’Ucraina, dove la democrazia continua ad avere notevoli difficoltà ad
affermarsi, le spinte secessioniste sono quanto mai forti, e dove la leadership affermatasi negli
ultimi anni, ha avuto poco riguardo per l’affermazione dei principi democratici.
3
Per quanto concerne la seconda importante scelta del governo ad interim riguardo all’ammissione di
quelle forze politiche rifacentesi al vecchio partito unico protagonista del precedente regime non
democratico, c’è subito da dire che difficilmente tali forze si ripresenteranno alle nuove elezioni
accettando tout court le caratteristiche proprie del vecchio partito dominante. In genere tali forze
cercheranno di esautorare autonomamente gli elementi più compromessi e di facilitare
l’affermazione di un’elite nuova, in grado di competere all’interno delle nuove regole democratiche.
Tuttavia il problema è stato ricorrente ed ha interessato soprattutto le ultime due ondate di
democratizzazione. Nella seconda ondata, all’indomani della seconda guerra mondiale, è prevalsa
3
A conferma di quanto detto a proposito della scelta del sistema elettorale, in uno stato sulla via della
democratizzazione e con la presenza di fratture etniche, la letteratura politica è concorde nel preferire un sistema
proporzionale ad uno maggioritario.
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la scelta di bandire esplicitamente alcune forze politiche che si ispiravano ai principi dei vecchi
partiti unici, protagonisti del lungo buio democratico (Germania, Italia, Giappone), mentre nella
terza, le scelte sono state diverse tra area ed area. Prendendo spunto da alcuni casi empirici,
l’Europa dell’est, per esempio, non ha posto dei limiti alla competizione elettorale, accettando
anche quei partiti che non avevano preso in maniera chiara le distanze dal precedente regime
(Romania, Russia, Slovacchia ed alcune delle ex repubbliche sovietiche, per citarne soltanto alcuni).
Questa scelta da un lato ha fatto allungare i tempi di transizione, ma dall’altro ha contribuito a far
democratizzare i partiti stessi, in quanto la loro partecipazione ed in molti casi la loro conseguente
vittoria elettorale ha permesso l’apertura di dibattiti interni alla forza politica stessa,
sull’opportunità( o meglio l’inopportunità) di un ritorno al passato. A distanza di quindici anni,
quindi, tale scelta sembra stata alquanto adeguata, poiché quelle forze che ancora appaiono ambigue
sono state isolate o comunque hanno perso molti consensi con il trascorrere del tempo.
La terza fondamentale scelta riguarda il progetto di formazione di un’assemblea costituente che
elabori una carta costituzionale democratica cui tutti gli attori sociali si rifanno. C’è da precisare che
la nascita di una costituente attraversa sia la fase di transizione che quella dell’instaurazione, in
quanto i tempi per l’approvazione della costituzione sono mediamente lunghi; inoltre, poiché nella
carta costituzionale si prescrive l’assetto istituzionale del paese, e quindi le cosiddette regole del
gioco democratico, è bene che essa abbia valore di legge rinforzata, per la cui modifica sia
necessaria una procedura complessa e largamente condivisa.
In ultima analisi è necessario citare quali sono ed il ruolo che hanno i principali attori del
cambiamento di regime: si è già parlato della leadership del precedente regime e dei diversi ruoli
che può ricoprire nel processo di transizione. Un’ altra elitè di stato che ricopre un ruolo importante
all’interno delle strutture istituzionali è rappresentata dai militari. Nella transizione alla democrazia
dei paesi sudamericani il loro ruolo è stato di gran lunga il più influente tra tutti gli attori presenti,
tanto che possono essere considerati gli artefici di avvii di democratizzazioni( a dir la verità molto
raramente), di crisi democratiche, e di mancati consolidamenti. Più defilato, invece è stato il loro
ruolo per quanto riguarda l’Europa dell’est ed i balcani. Soprattutto in quest’ultima area pur
essendosi resi protagonisti di crimini ed abusi, in ultima analisi sembra che il loro ruolo fosse,
comunque, sempre subordinato a quello di alcuni leader politici di primo piano o che comunque
avessero un avallo da parte di questi ultimi poiché, come si noterà nella seconda parte, le autorità
civili hanno, sostanzialmente, sempre controllato il potere militare già all’indomani della seconda
guerra mondiale.
In definitiva, la transizione rappresenta la fase più delicata e, di conseguenza, più importante per il
futuro successo dell’ intero processo di democratizzazione, in quanto da qui si comincia a dare
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fisionomia a quelle norme e a quelle istituzioni che caratterizzeranno il futuro regime democratico;
per addivenire a questo fondamentale obiettivo è, quindi, necessario che le scelte effettuate dagli
attori sociali e politici protagonisti del cambiamento siano inizialmente il più possibile condivise ed
efficaci per una futura convivenza civile.
2.2- L’instaurazione democratica
Un processo di transizione democratica ha, in genere, il suo inizio nel momento in cui l’evento
principale per il quale il governo di transizione è stato formato, ha luogo. E’ lapalissiano che
l’avvenimento simbolo di una instaurazione democratica è rappresentato dalle prime elezioni
competitive. Tuttavia, è bene fare una precisazione proprio riguardo a questa particolare fase del
processo di democratizzazione: infatti, pur sottolineando l’importanza dell’evento elettorale, è
necessario che esso sia connesso agli eventi precedenti e soprattutto a quelli seguenti, in quanto è in
questo periodo che si dovrà formare la “spina dorsale” del sistema democratico, ovvero quelle
norme e quelle istituzioni che caratterizzeranno la vita politica( e non solo) del paese interessato
dalla democratizzazione. Pertanto si intende per instaurazione democratica “quel processo che
comporta un allargamento completo e un riconoscimento reale dei diritti civili e politici(…)”
(Morlino 2003). Nel momento successivo alla riuscita delle elezioni, quindi, si dovranno scrivere le
norme istituzionali; esse, in genere, vengono formate in un’assemblea costituente composta da
membri della maggioranza e dell’opposizione appena eletti.
Ma prima di passare in rassegna le scelte da farsi circa l’assetto istituzionale, va evidenziata una
delle differenze tra transizione ed instaurazione, che consiste nel parziale cambiamento degli attori
protagonisti. Infatti, a questo proposito, le prime elezioni competitive possono provocare subito
l’alternanza (tra chi ha guidato la transizione ed il primo governo democraticamente eletto),
elemento caratterizzante la quasi totalità dei paesi con una democrazia consolidata
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. Tuttavia , si
noterà nell’analisi empirica svolta nella seconda parte, come, soprattutto in Croazia, per molti anni,
i partiti( o addirittura il partito) al governo siano rimasti sempre gli stessi, denotando quindi una
difficoltà evidente per quanto riguarda l’alternanza (soltanto nel 2000, dopo la morte di Tudjman,
l’HDZ lascia il governo)
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Huntington introduce il test del doppio ricambio, per misurare il livello di democraticità raggiunto da un paese sulla
via della democratizzazione: secondo questo test “una democrazia può essere considerata consolidata quando il partito
che ha vinto le prime elezioni della transizione, viene sconfitto nella seconda tornata elettorale e sostituito da una
formazione alternativa, e quest’ultima cede a sua volta il potere in modo pacifico ai vincitori di una successiva
elezione” ( Huntington, 1991). Questo criterio, pur presentando aspetti interessanti, non risulta avere una grande
aderenza empirica, in quanto molti stati sono stati considerati come delle democrazie consolidate ben prima di aver
sperimentato il test del doppio ricambio( su tutti i paesi Spagna, Grecia e Portogallo).