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apprendimento e cambiamento che si riflettono sulla prassi quotidiana, su ciò
che l’organizzazione fa, su come si struttura, su come i membri la percepiscono.
Nella prima parte del mio lavoro ho voluto presentare brevemente i paradigmi
teorici che ho utilizzato come riferimenti interpretativi dei dati raccolti nel corso
della ricerca empirica. Ho esposto e riassunto i concetti che stanno alla base
della qualità totale e dei sistemi di qualità aziendali ed ho richiamato alcuni
assunti e parole chiave della teoria della costruzione sociale della tecnologia
quali gruppi sociali rilevanti, controversie, flessibilità interpretativa, meccanismi
di chiusura, cercando di trasferire e applicare gli stessi concetti
all’interpretazione del sistema qualità considerato come artefatto tecnologico.
Analogamente ho introdotto i temi dell’apprendimento e del cambiamento
organizzativo, per poi effettuare una ricerca bibliografica sugli sviluppi più
recenti degli studi che si sono occupati di identificare i punti di collegamento tra
apprendimento e cambiamento organizzativo e applicazione di sistemi di
gestione della qualità a realtà aziendali. Si tratta di studi a carattere ibrido
manageriale e sociologico, effettuati con metodi misti, qualitativi e quantitativi
su gruppi di aziende statunitensi, australiane, inglesi. Sono state esaminate
quindi realtà culturali diverse da quella presa in considerazione per la mia
ricerca, anche se accomunate dalla caratteristica di aver realizzato un sistema di
gestione della qualità al loro interno.
La seconda parte del mio lavoro è consistita nell’esposizione della ricerca
empirica che ho effettuato presso la Tumedei S.p.A., azienda manifatturiera
con sede e stabilimento produttivo in provincia di Trento che opera nella
produzione di articoli tecnici in gomma, della quale sono dipendente dal 1998 e
dove mi occupo della gestione dell’ufficio acquisti e dove faccio parte del
gruppo dei valutatori interni del sistema qualità. L’azienda possiede un sistema
qualità certificato secondo le norme ISO 9001 e data la mia appartenenza
all’organizzazione ho potuto avere un agevole accesso alle informazioni e una
conoscenza diretta, dall’interno, della realtà studiata.
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La ricerca vera e propria è stata condotta lungo un arco di tempo di circa 10
mesi, mentre il periodo di osservazione complessivo al quale riferisco le mie
considerazioni coincide in pratica con la durata della mia permanenza in
azienda.
La metodologia che ho scelto è stata di tipo qualitativo ed in particolare mi
sono ispirata alla grounded theory, anche se non ho seguito in maniera rigida la
procedura di analisi dei dati che essa prevede. Analogamente al protocollo della
grounded theory sono partita con ipotesi teoriche minime, costruendole e
verificandole nel corso della ricerca stessa, mano a mano che i dati emergenti
evidenziavano possibili correlazioni tra i processi, ed inoltre ho utilizzato gli
strumenti caratteristici del metodo, quali le interviste in profondità, i questionari
semi-strutturati, l’analisi dei documenti organizzativi, l’osservazione
partecipante.
Raccolti i dati ho cercato di rintracciare in essi delle possibili categorie
interpretative, che ho utilizzato come base per formulare delle ipotesi e delle
possibili conclusioni, cercando in particolar modo di fare riferimento ai
paradigmi teorici che sono stati alla base dell’ideazione iniziale della ricerca,
ovvero costruzione sociale della tecnologia, apprendimento e cambiamento
organizzativi.
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PARTE PRIMA
DEFINIZIONI E PARADIGMI INTERPRATIVI
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CAP. I
IL SIGNIFICATO DI QUALITA’
I.1 Le definizioni
A.Galgano (1990) considera la qualità come “un concetto globale e unificatore
che ingloba tutto quanto riguarda l’obiettivo di “eccellenza” al quale deve
tendere l’azienda”. In esso vi vede confluire dunque più elementi, riguardanti i
prodotti, i processi produttivi, i servizi, l’organizzazione, la “profittabilità”
dell’azienda. Galgano delinea ulteriormente un significato operativo di qualità
su due piani: qualità come soddisfazione del cliente (è il cliente che stabilisce se
c’è o meno qualità, dall’esterno, e non una serie di caratteristiche
interne/intrinseche) e qualità come output, inteso come risultato del lavoro, sia
esso identificabile in un oggetto materiale o in una serie di compiti e
valutazioni.
Secondo Crosby (1979) e Feigenbaum (1951), due “guru” della qualità totale, la
qualità è definita come conformità a dei requisiti o come assenza di variazioni;
altri ancora (Garvin 1988, Juran 1979) completano la definizione puntando
l’attenzione sulla soddisfazione del cliente. Nel corso degli anni, comunque, e
per i diversi autori, la definizione di qualità ha sotteso teorie manageriali che
hanno enfatizzato aspetti diversi della gestione aziendale e vicendevolmente
queste ultime hanno dato luogo a definizioni di qualità diverse. Da qualità del
prodotto, a controllo di qualità, assenza di difetti, qualità totale, al total quality
management. Da una dimensione “locale” ad una diffusa, omnicomprensiva di
tutta la struttura organizzativa.
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I.2 Qualità totale e qualità definita da norme
Nel contesto dell’industria militare americana avere forniture “soddisfacenti”
significava averle sempre rispondenti a delle caratteristiche ben precise, uguali e
riproducibili nel tempo. Esse dovevano perciò essere conformi ad uno standard
definito ovvero a delle norme che stabiliscono tutte le caratteristiche
fondamentali delle forniture. E’ da questo contesto che nascono le norme che
regolano i sistemi della qualità introdotti nelle aziende, a partire dalle
britanniche BS5750 del 1979, alle americane US ANSI/ASQC Q-90, fino alle
ISO 9000 che costituiscono un insieme di standards mondiali che forniscono
una cornice universale per i sistemi qualità (Barad, 1996). Qualità in questo
caso vuol dire mettere in atto processi e/o fabbricare prodotti in osservanza a
tali norme.
Inoltre le aziende che adottano un sistema di qualità secondo le ISO 9000
possono ottenere la “certificazione di qualità” da un ente che è terzo ed
estraneo rispetto alla stessa e ai clienti. Questo ente certificatore si fa garante del
rispetto delle norme da parte dell’azienda ed effettua periodiche visite ispettive
di controllo.
Si ha in questo caso una concezione ristretta di qualità, burocratica, fatta di
carta, controlli, certificati, firme, manuali. Ottenere l’agognata certificazione di
qualità per un’azienda può costituire un obiettivo impegnativo, ma comunque
raggiungibile con una serie di adempimenti formali ed eventualmente qualche
aggiustamento di carattere organizzativo.
Certificare il processo produttivo non vuol dire tuttavia necessariamente mettere
in atto un sistema di qualità totale. “La traduzione dei concetti di base della
Qualità Totale in cultura e comportamenti aziendali passa infatti attraverso
caratteristiche dell’azienda in gran parte intangibili e quindi non valutabili in
termini oggettivi. Si può creare un modello di riferimento, ma non si può
pensare di congelare il modello in una norma, il cui livello di implementazione
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si misuri con check list, con un risultato della valutazione che dia sufficiente
confidenza riguardo ai risultati” (Conti, 1992). T. Conti parla di qualità totale
come di qualità dinamica, e di qualità definita da norme come qualità statica.
Da una parte cioè la ricerca del miglioramento continuo (il “kaizen”
giapponese) da parte dell’organizzazione al di là e oltre la rispondenza a delle
specifiche, dall’altra la sicurezza data al cliente (in senso proprio e in senso lato
– cliente esterno/interno/utente/membro dell’organizzazione etc.) dalla
conformità alle norme che determinano le caratteristiche “standard” dei
processi produttivi, dei prodotti, dei servizi etc. Queste due visioni della qualità
non sono opposte tra loro, bensì complementari: le norme sono una base di
certezza, una sorta di “garanzia” verso l’esterno, le politiche di qualità totale
sono gli strumenti di crescita , miglioramento e competitività
dell’organizzazione.
Ma esiste ancora una distanza tra le norme e la certificazione di qualità.
Ottenere l’agognato certificato può o meno riflettere una reale rispondenza alle
procedure e ai metodi indicati dalle norme. Le verifiche ispettive da parte
dell’ente certificatore possono rivelarsi teatro di abili “make up” ed espedienti
volti a creare una rispondenza di facciata, di “carta”, magari creata apposta per
l’occasione, ma che si discosta dalla pratica lavorativa quotidiana e da una reale
condivisione dei principi contenuti nelle norme. Ecco allora che tutta la serie di
artefatti che il sistema di qualità porta con sé (il manuale della qualità, i moduli,
gli strumenti di misura) assumono significati diversi da quelli originariamente
intenzionati. L’evento dell’auditing diventa una sorta di rappresentazione
teatrale nella quale si mette in scena il copione delle norme, sotto forma del
manuale della qualità aziendale, e che evidenzia la scollatura tra ciò che si fa e
ciò che si dice di fare.
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I.3 Un discorso sulla qualità
Se è difficile definire cosa sia la qualità e dare una descrizione univoca della sua
essenza è possibile però avvicinarsi ad essa attraverso connessioni discorsive,
ovvero ricostruendo il percorso che ha portato alla costruzione di un discorso
sulla qualità (Xi, 2000). Così è Feigenbaum (1951) che costruisce il primo
“spazio discorsivo” sulla qualità ponendovi al suo interno le variabili, i concetti
base che verranno variamente combinati tra loro dagli autori successivi che
parteciperanno al gioco della “trasformazione” del discorso sulla qualità. Per
esempio si passerà dal controllo di qualità (QC) al total quality management
(TQM), passando attraverso lo zero quality control. Collegamenti tra i vari
concetti vengono posti o tagliati, dando origine a cambiamenti nel discorso. Da
quest’ottica dunque la qualità appare come un insieme fluido di concetti in
continua evoluzione, uno spazio immateriale che trova la sua essenza nei
collegamenti tra gli elementi. Per questo considerare la qualità come
adeguamento a degli standards è limitante, dal momento che il processo di
come e dove la qualità appare e scompare non può essere colto dalle mere
attività volte ad ottenere la conformità alle norme. Queste non possono essere
concepite come qualcosa di indipendente e dato, calato dall’alto, ma si
costituiscono sotto forma di discorso quando e dove ha luogo la qualità, per la
quale sono centrali le percezioni dei partecipanti e le azioni intraprese in suo
nome.
E’ possibile ritrovare i concetti elaborati da Feigenbaum (1951) negli autori che
lo hanno seguito e che li hanno modellati nelle loro teorie proprio come
venissero fatte delle palle di neve: ognuno aggiunge qualcosa ad un concetto per
dargli la forma voluta.
1) Palla di neve I: è l’approccio sistemico introdotto da Feigenbaum che
estende gli strumenti per la gestione della qualità oltre le tecniche
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statistiche (statistical quality control – SQC) e punta l’attenzione sul
centrale ruolo di coordinazione del management.
2) Palla di neve II: è formata dai principi del Modern Quality Control
(MQC) enunciati da Feigenbaum
3) Palla di neve III: è il controllo attraverso gli standards, cioè la certezza di
non scendere mai sotto un livello qualitativo definito accettabile.
Feigenbaum considera centrale la prevenzione, cioè creare a monte le
condizioni per cui non si verifichino non conformità a valle.
4) Palla di neve IV: la produzione industriale. In questo scenario i
dipendenti sono uno dei fattori di produzione e quindi anch’essi soggetti
a controllo, ma in quanto persone essi fanno entrare in gioco aspetti non
strettamente tecnici della produzione, quali il soddisfacimento delle loro
aspirazioni, i loro bisogni di sicurezza, fiducia, apprendimento.
Feigenbaum tratta le relazioni umane come un discorso separato,
marginale.
5) Palla di neve V: partecipazione e comunicazione. Il QC è visto come
“canale di comunicazione” in grado di far superare le divisioni dovute ad
un’eccessiva specializzazione e come mezzo di partecipazione per i
dipendenti, che non sentendosi esclusi diventano desiderosi di dare il loro
contributo al sistema qualità. Il management secondo Feigenbaum deve
avere un ruolo di coordinazione delegando autorità e responsabilità, che
devono essere “diffuse”.
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CAP. II
LA COSTRUZIONE SOCIALE DEL SISTEMA QUALITA’
Ho riportato nel capitolo precedente le definizioni base del concetto di qualità
così come proposte da alcuni degli autori classici della letteratura
sull’argomento.
Si è parlato di norme, di strumenti, di processi: per essere operativi essi devono
passare attraverso l’azione delle persone che li mettono in atto, li manipolano,
trasformano e interpretano. L’organizzazione che si dota di un sistema della
qualità lo fa coinvolgendo i suoi membri, apprende norme, pratiche, principi
che via via si sedimentano diventando parte del patrimonio della cultura
organizzativa. Il significato di qualità può allora estendersi o ridursi, tradursi in
una sequenza di operazioni, nell’uso di oggetti, nella compilazione di
documenti o in una diversa visione del proprio ruolo. Possiamo considerare il
sistema qualità come un artefatto, come una tecnologia che viene plasmata e
interpretata attraverso un processo di costruzione sociale.
II.1 La costruzione sociale della tecnologia: fine del determinismo e centralità
dell’uomo
Secondo il paradigma della costruzione sociale della tecnologia questa finisce di
seguire un percorso di sviluppo predeterminato e autonomo e diventa fatto
socialmente costruito, in un processo a più variabili nel quale l’uomo acquista
un ruolo attivo e ne influenza il corso e le forme. La tecnologia viene vista dai
vari approcci afferenti a questo filone di ricerca come fattore tra i tanti che
incidono sul mutamento della società e delle organizzazioni, come prodotto
dell’interazione di soggetti diversi portatori di interessi a loro volta differenziati,
come frutto dell’interpretazione che i soggetti danno delle forme tecnologiche o
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ancora come portatrice di determinate relazioni sociali ed organizzative
(Masiero, 1997).
In tutti i casi comunque il ruolo e l’azione dell’uomo rivestono un’importanza
centrale nel processo di sviluppo della tecnologia, nella sua creazione,
modellazione, interpretazione. La tecnologia non è il meccanico risultato del
dispiegarsi delle leggi della natura ma è un prodotto generato da un insieme di
fattori umani e sociali, di conseguenza non è possibile riconoscere un percorso
evolutivo di tipo deterministico e lineare, bensì un intreccio disomogeneo di
attori e circostanze che si combinano in modi e forme non prestabiliti. Il ruolo
attivo dell’uomo, che si realizza nella creazione e nell’interpretazione delle
forme tecnologiche, fa perno sul linguaggio, che partecipa al gioco della
negoziazione dei significati. Alla contrapposizione tra visione pessimistica ed
ottimistica del paradigma della tecnologia autopropulsiva fa eco una prospettiva
meno dicotomica sugli esiti della tecnologia. Essi infatti non sono di per sé
negativi o positivi ma, dato il ruolo attivo dell’uomo e la sua capacità di
intervento, possono essere diversi in circostanze diverse. L’uomo può cercare di
limitare o evitare gli effetti non desiderati ed enfatizzare e guidare quelli
auspicati.
Un altro punto comune ai diversi approcci riscontrabili all’interno del
paradigma della costruzione sociale della tecnologia è infine il ruolo di
interprete che l’uomo assume nella sua relazione con la macchina, con
l’artefatto tecnologico. Egli infatti non subisce passivamente, non è mero
esecutore come sostenuto dai teorici della tecnologia autopropulsiva, bensì
opera un processo di assimilazione autonoma e personale dei significati e degli
utilizzi della forma tecnologica, attraverso processi che non hanno a che vedere
solo con l’attività di pensiero razionale propria della scienza, ma anche con
quegli aspetti che afferiscono alla dimensione intuitiva, emotiva, sociale e
pratica dell’agire umano. Interpretazione dunque come apprendimento
“situato” all’interno di un insieme complesso di fattori e di relazioni.
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II.2 Flessibilità interpretativa, gruppi sociali rilevanti, controversie e
meccanismi di chiusura.
Un esempio di come la particolare forma assunta da una tecnologia sia il
risultato dell’interazione tra attori portatori di interessi differenti e spesso in
contrasto tra loro è offerto dalla storia della nascita di materiali ed oggetti che
sono divenuti di uso comune: l’acciaio, la lampadina fluorescente, la bakelite e
la bicicletta. Gli autori che se ne sono occupati hanno sottolineato come in tutti
i casi si sia assistito ad una evoluzione degli artefatti che ha condotto alla loro
versione finale attraverso una serie di conflitti, negoziazioni, lotte di potere
avvenuti tra i gruppi sociali rilevanti ovvero i gruppi detentori di specifici
interessi e ruoli preminenti nello sviluppo di tali forme tecnologiche, in quanto
ideatori, produttori o consumatori.
Pinch e Bijker (1984) hanno elaborato due modelli per spiegare la costruzione
sociale del sapere scientifico e della tecnologia : EPOR (Programma Empirico
del Relativismo) e SCOT (Costruzione Sociale della Tecnologia). Il primo si
focalizza sullo studio delle controversie scientifiche e sui meccanismi di
chiusura che pongono fine alle stesse. I concetti chiave di questo approccio sono
la flessibilità interpretativa, ovvero la possibilità di dare diverse interpretazioni
di una stessa scoperta scientifica, i meccanismi sociali che limitano la flessibilità
interpretativa “solidificando” una sua versione e terminando la controversia e
infine l’influenza dell’ambiente socio-culturale più vasto sui meccanismi di
chiusura. Il modello SCOT si propone di dar conto dello sviluppo delle forme
tecnologiche come un processo in cui si alternano variazione e selezione
all’interno di un contesto multidirezionale. Utilizzando questo modello gli
autori spiegano la storia dell’evoluzione della bicicletta. Nel passare dai modelli
delle origini (con due ruote di dimensioni differenti) alla forma che conosciamo
attualmente la bicicletta ha avuto prototipi intermedi nel plasmare i quali hanno
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avuto un ruolo determinante i gruppi sociali rilevanti per quel determinato
artefatto tecnologico.
Nel caso dell’implementazione del sistema qualità in un’organizzazione
possiamo individuare diversi gruppi sociali che partecipano alla negoziazione
dell’artefatto “sistema qualità”: la direzione aziendale, che con ogni probabilità
ha preso la decisione iniziale di certificarsi (per motivi strategici, di marketing,
di immagine), le figure responsabili dell’assicurazione qualità (a volte un
dipartimento ad essa dedicato, a volte figure che occupano altri ruoli aziendali),
il management intermedio, il gruppo eterogeneo dei dipendenti senza particolari
responsabilità (impiegati, operai), i clienti esterni. Il sistema qualità, pur
inizialmente calato dall’alto, frutto di una decisione della direzione aziendale,
assume poi forme e caratteristiche che dipendono da una moltitudine di
variabili, tra le quali quelle costituite dal lavoro di “plasmazione”,
interpretazione, pratica operativa dei gruppi sociali che vi partecipano. Per la
direzione può succedere che il sistema qualità sia l’attestato di conformità
rilasciato dall’ente certificatore, un foglio di carta, un timbro che manifesta la
sua esistenza secondo le scadenze delle visite periodiche di verifica; può essere
una voce del bilancio (i costi della gestione della qualità), un lasciapassare
indispensabile da mostrare ai clienti. Per questi ultimi la certificazione di qualità
può essere una condicio sine qua non per acquistare i prodotti. Per i
responsabili dell’assicurazione qualità può essere un lavoro a tempo pieno, la
ragione della loro permanenza nell’organizzazione, oppure essere
un’incombenza in più che si somma al resto dei compiti, un insieme di
responsabilità, di decisioni da prendere, di compiti da assegnare, verifiche da
attuare. Il management intermedio è a sua volta portatore di interessi specifici:
risponde alla direzione dell’andamento dell’azienda in termini di costi, di
efficienza, di produzione. Il sistema qualità in questo caso può essere visto
come uno strumento di gestione utile oppure come un intralcio, un’inutile e
dispendiosa serie di adempimenti. Il gruppo dei dipendenti che hanno mansioni
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e ruoli differenti vivono sulla loro pelle il sistema qualità in termini di compiti,
operazioni, prove, registrazioni, compilazione di moduli, utilizzo di strumenti ,
di software. L’interesse può essere quello di riuscire ad eseguire bene il proprio
lavoro, così come quello di svolgerlo nello stesso tempo, o con più facilità, o
ancora quello di elevare la propria professionalità ampliando la gamma delle
operazioni svolte, avendo più responsabilità. Da una parte abbiamo dunque
diverse interpretazioni del sistema qualità nel senso di ciò che esso rappresenta
per il gruppo sociale in questione, dall’altra abbiamo la forma che esso prende
nello specifico caso aziendale come frutto della negoziazione che avviene tra i
gruppi sociali rilevanti portatori di interessi specifici calati nella pratica
lavorativa quotidiana. Quello che oserei chiamare “scheletro” dell’artefatto
sono le norme cui il sistema implementato si deve confare: come già detto esse
costituiscono un insieme di standards di validità generale. Il sistema qualità che
ne risulta è invece costruito nel contesto specifico dell’organizzazione. Un caso
analogo può essere ritrovato nell’esempio citato da Trevor Pinch (1994) dell’uso
“alternativo” dell’automobile nell’America rurale di inizio novecento, laddove
il motore della famosa Ford modello T viene utilizzato come forza motrice per
far funzionare una rudimentale lavatrice, un’imballatrice per il fieno, una
pompa per l’acqua, un aratro. Analogamente dunque il sistema qualità di
un’azienda e il certificato di conformità alle norme vengono interpretati in
maniera diversa dai differenti “utenti”, che ne hanno un “uso” diverso a
seconda dei casi. Mentre nel caso della direzione il sistema qualità può
identificarsi con il certificato di conformità alle norme o costituire un metodo
manageriale ritenuto idoneo a migliorare l’efficienza aziendale, per i lavoratori
che si trovano ad occupare i posti identificati dalla mappa dei ruoli prevista dal
manuale si tratta di un metodo di lavoro che può venire messo in pratica o
anche solo simulato all’occorrenza.
Si potrebbe dire di essere un po’ distanti dalle visioni totalizzanti formulate dai
“guru” della qualità totale, secondo le quali, in vari modi, l’applicazione dei
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metodi e dei principi della qualità totale avrebbero portato all’efficienza
dell’azienda e alla partecipazione dei dipendenti nella convinzione unificatrice
di un novello “one best way”.
Nel caso delle vicende che hanno accompagnato la nascita dell’acciaio la
contesa è avvenuta su due piani diversi: in primo luogo la rivendicazione della
paternità dell’invenzione del metodo produttivo del materiale chiamato acciaio
da parte di un imprenditore statunitense, Kelly, e di un inventore inglese,
Bessemer . In secondo luogo essa riguardò i metodi di classificazione utilizzati
per distinguere l’acciaio dal meno nobile ferro. La disputa sulla paternità
dell’acciaio ebbe numerosi strascichi legali riguardanti la proprietà del brevetto.
Bessemer e Kelly lavorarono sul medesimo progetto circa nello stesso periodo,
anche se con mezzi e conoscenze differenti. “Gli esperimenti che condussero si
assomigliavano solo superficialmente. Quindi non furono le invenzioni in sé
stesse ma gli attori storici, a causa della loro percezione della rivalità
commerciale e del conflitto, che fecero precipitare la controversia.” (Misa, 1992)
Questa si chiuse con un accordo tra le parti fuori dalle aule giudiziarie: le
licenze e i relativi proventi sarebbero stati condivisi e fu creato un organismo
comune per amministrarne la distribuzione. Questa forma di chiusura
attraverso il cambiamento organizzativo modellò anche lo sviluppo successivo
della produzione dell’acciaio; l’organismo creato limitò il numero delle licenze
da assegnare e strinse accordi con le compagnie ferroviarie per controllare il
mercato.
La controversia sui metodi di classificazione dell’acciaio aveva fortissime
implicazioni commerciali. Definire che cos’era l’acciaio e distinguerlo dal meno
pregiato ferro voleva dire poter accedere ad un mercato ricco ed in espansione,
con conseguenti prospettive di profitto. La chiusura della controversia ebbe
luogo attraverso un processo sociale che coinvolgeva fattori economici,
tecnologici e sociologici. Dunque “…la conclusione della disputa riflesse
l’intricato gioco di interessi, aspirazioni e potere.