Capitolo I
Le intese verticali e l’integrazione verticale: come e perché.
1.1 Le intese verticali ed il mercato.
Le intese verticali possono essere definite come accordi che
intervengono tra soggetti posizionati a livelli diversi della catena del
valore (produttore – grossista, grossista – dettagliante). Mediante
questi accordi si prevede una disciplina del prezzo, ovvero di altre
condizioni inerenti all’acquisto o alla vendita e, più in generale, un
vincolo reciproco dei comportamenti delle parti nella fase
dell’approvvigionamento o della distribuzione.
Gli accordi verticali si distinguono da quelli orizzontali poiché
regolano rapporti tra soggetti che sono portatori d’interessi
contrapposti (acquirente – venditore). Gli accordi orizzontali, al
contrario, intervengono tra soggetti che svolgono attività omogenee
(produttore – produttore; distributore – distributore) e che, pertanto,
sono portatori di interessi potenzialmente convergenti.
Da un punto di vista economico, le intese verticali
rappresentano un modo di organizzare gli scambi alternativo
all’impresa e alla contrattazione istantanea e occasionale sui mercati
intermedi.
L’economia neoclassica considera l’impresa come una funzione
di produzione, articolata in divisioni e livelli, attraverso i quali è
gestita l’attività produttiva. Tuttavia, nell’impresa esiste altresì un
centro decisionale, il management, preposto a individuare l’attività
d’impresa e a organizzare i fattori produttivi.
Le strategie competitive che orientano le decisioni dei
managers dipendono dall’ambiente nel quale l’impresa svolge la sua
attività.
Le imprese, a prescindere dal settore d’appartenenza, devono
attualmente confrontarsi con mercati molto competitivi. La
concorrenza è favorita dalla globalizzazione e dai numerosi
cambiamenti, di carattere storico e politico, che sono intervenuti negli
ultimi anni. La transizione verso un’economia di mercato, da parte dei
Paesi ad economia pianificata, e la costituzione di varie forme di
collaborazione economica e politica (come il NAFTA – North
American Free Trade Agreement, o l’Unione Europea) hanno favorito
la mobilità delle imprese, la circolazione del know-how
imprenditoriale e lo sviluppo della tecnologia dell’informazione.
L’adozione di sistemi di scambio elettronico dei dati ha
permesso l’elaborazione di un sistema di logistica a risposta rapida,
cui è stato dato il nome di Just in Time. Questo processo è
caratterizzato dal fatto che a guidare le politiche commerciali è la
domanda dei consumatori. Mediante l’accesso immediato ai punti di
informazione, i rivenditori sono in grado di stimare con buona
precisione gli stock di cui hanno bisogno, riducendo al minimo le
giacenze di magazzino. Di tal maniera, nel corso del tempo, si è
assistito al progressivo passaggio dal tradizionale rapporto di mercato
tra produttori, grossisti e dettaglianti non necessariamente cooperativo
ad un rapporto di cooperazione.
È questo rapporto che è interessato dagli accordi verticali.
Dal punto di vista del produttore, la commercializzazione del
prodotto sul mercato finale assume valenza strategica ai fini della
massimizzazione dei profitti.
Le strade che si possono perseguire per realizzare la
distribuzione dell’output sono tre:
1. Affidarsi a distributori indipendenti, cui si venderà il prodotto
mediante un tradizionale contratto di compravendita. I grossisti
ed i dettaglianti rivenderanno i prodotti in nome e per conto
proprio, agendo in piena autonomia. Il produttore si troverà, in
questo caso, privato di ogni possibilità di indirizzo strategico della
commercializzazione dell’output in maniera unitaria.
2. Realizzare la cosiddetta integrazione verticale, attraverso la quale
il produttore internalizza la gestione dell’attività di distribuzione,
svolgendola in proprio.
3. Ricorrere ad intese verticali, con distributori indipendenti,
intrattenendovi rapporti contrattuali di carattere continuativo. I
distributori sono legati al produttore da contratti a medio e lungo
termine: ciò incide sulla libertà di azione dei distributori e,
conseguentemente sulla situazione dei relativi concorrenti. Questi
ultimi, infatti, sono privati della possibilità di influenzare, con le
loro offerte, il comportamento dell’impresa distributrice, vincolata
dall’accordo verticale.
1
Le tre alternative menzionate prendono il nome di strutture di
governo. Il ricorso all’una o all’altra forma di organizzazione dei
rapporti tra produzione e distribuzione è il frutto di una decisione
strategica da parte del management. L’obiettivo perseguito dal
management può sintetizzarsi come cost economizing policy: lo scopo
dell’impresa deve essere, infatti, quello di realizzare delle economie in
termini di spese di distribuzione e di costi transattivi.
La problematica dei costi transattivi ha carattere relativamente
recente. I primi studi sull’argomento si devono a Ronald Coase, negli
anni trenta, ma essi non hanno preso piede fino all’inizio degli anni
sessanta.
1
F. Denozza, Antitrust – leggi antimonopolistiche e tutela dei consumatori nella CEE e negli USA,
Società Editrice il Mulino, 1988, pag. 127.
1.2 La problematica dei costi transattivi: dalla teoria neoclassica a
Coase.
Secondo la teoria economica neoclassica, un’economia di
mercato provvede automaticamente ad allocare i fattori produttivi in
maniera tale da soddisfare efficientemente la dimensione quantitativa
e qualitativa della domanda, senza necessità di intervento esterno.
A guidare il mercato è il meccanismo dei prezzi.
Soltanto con la pubblicazione dell’articolo “La natura
dell’impresa”, da parte di R. Coase, nel 1937, si comincia a introdurre
il problema dei costi transattivi.
2
Coase osservò che l’utilizzo del mercato da parte degli
operatori presenta dei costi: come dire che la funzione distributiva non
è un’attività a costo zero. Di conseguenza, gli operatori devono
preventivamente valutare, al margine, se sia meno costoso acquistare
una determinata risorsa sul mercato o se non sia, piuttosto, più
conveniente produrre la stessa risorsa all’interno dell’impresa.
La teoria di Coase offre una giustificazione all’esistenza
dell’impresa in quanto organizzazione economica e non più solo come
una “scatola nera”, come la vedevano invece gli economisti
neoclassici.
2
R.H. Coase, The nature of the Firm, Economica 4, 386-405 (1937).
Tuttavia, per circa un trentennio, Coase fu quasi totalmente
ignorato.
Le cause erano molteplici. Il pensiero economico, alla fine
degli anni trenta risentiva ancora dell’esperienza della Grande Crisi
che aveva sconvolto l’economia americana e mondiale nel 1929.
L’interesse degli economisti era ancora profondamente
assorbito dall’argomento; mentre il pensiero di Coase aveva ad
oggetto tutt’altro genere di problematiche.
Inoltre, l’attenzione degli economisti era per lo più
concentrata sugli studi di J.M. Keynes, il quale aveva pubblicato
l’anno precedente la “Teoria Generale dell’Occupazione,
dell’Interesse e della Moneta”.
3
Per quanto riguarda la teoria microeconomica, più
direttamente incisa dal contributo scientifico di Coase, era a quel
tempo sostanzialmente dominata dalla scuola di Losanna.
La scuola di Losanna realizzò una formalizzazione della teoria
dei prezzi, che muoveva dagli studi sull’equilibrio economico
3
J.M. Keynes, Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta, prima edizione
del 1936.
generale di Leon Walras.
4
Essa presentò una teoria fondata su ipotesi semplificatrici,
ritenute necessarie per realizzare l’obiettivo prefissato dagli studi di
Walras. Le ipotesi semplificatrici più importanti erano la perfetta
informazione nonchè la massimizzazione del profitto, da un lato, e
dell’utilità, dall’altro.
In un tale contesto ideologico, l’impresa come organizzazione
non aveva alcuna ragione di esistere; essa era, piuttosto una “scatola
nera”, gestita da un imprenditore. Quest’ultimo era un soggetto visto
4
Tra gli studiosi dell’equilibrio economico generale, oltre a Leon Walras, è possibile ricordare
anche l’economista italiano Vilfredo Pareto e, in certa misura, Alfred Marshall. Quest’ultimo,
tuttavia, concentrava la sua attenzione sull’equilibrio economico parziale.
L. Walras analizzò il fenomeno dell’equilibrio dei mercati con riferimento a un solo periodo di
tempo (analisi uniperiodale) e a un sistema sistemi economico chiuso. Gli operatori economici
considerati sono i consumatori e le imprese, mentre le variabili economiche rappresentano le
quantità di beni utilizzate da ogni consumatore, oppure prodotte da ogni impresa durante il periodo
di tempo esaminato. Ad entrambi gli operatori economici Walras associa una funzione: la funzione
di utilità per i consumatori, e la funzione di produzione per le imprese. Le quantità dei beni
comperate sul mercato sono determinate in modo da rendere massima la funzione di utilità dei
consumatori. Questa operazione conduce alla determinazione delle quantità domandate di ogni
bene in funzione di tutti i prezzi, ossia alla determinazione delle funzioni di domanda, le quali in
realtà dipendono dai prezzi relativi (ossia dai rapporti tra prezzi e non dai prezzi assoluti).
Sull’altro fronte c’è invece l’impresa. Un processo produttivo è rappresentato mediante le quantità
di ogni fattore produttivo impiegato e di ciascun prodotto ottenuto. Quando l’impresa opera in
condizioni di concorrenza perfetta, la decisione di realizzare uno tra i vari processi produttivi a
essa noti viene presa in modo tale da rendere massimo il profitto totale conseguibile, definito come
differenza tra ricavo totale ottenuto dalla vendita dei prodotti ed il costo totale sostenuto per
acquistare i fattori produttivi necessari. Questa operazione permette di determinare le funzioni di
domanda dei fattori produttivi e le funzioni di offerta dei prodotti; anche queste funzioni
dipendono dai prezzi relativi. Per Walras, una configurazione di equilibrio sussiste quando i prezzi
sono tali che la quantità totale domandata di ciascun bene è uguale alla corrispondente quantità
totale offerta. Quando domanda e offerta di ogni bene sono tra loro uguali, è possibile
effettivamente realizzare le decisioni volute da tutti i consumatori e da tutte le imprese. Non si
manifesta dunque alcuna forza che induca qualche operatore economico a modificare le sue
decisioni. Marshall a differenza di Walras, si è occupato di analizzare in dettaglio il mercato di un
solo prodotto, dando origine alla scuola degli equilibri parziali. In ultima istanza è possibile dire
che gli equilibri parziali rappresentano un caso particolare di equilibrio economico generale. Ossia
il caso in cui le funzioni di domanda e offerta di ciascun bene sono indipendenti dai prezzi di tutti
gli altri beni. Infine, bisogna considerare Pareto, il quale ha introdotto, accanto alle imprese che
operano in regime di concorrenza, anche le imprese che operano in regime di monopolio. Egli ha
inoltre contribuito con la definizione di ottimo paretiano. Quest’ultimo è soddisfatto sotto
opportune condizioni, dalle soluzioni di equilibrio generale concorrenziale. In assenza, si ha una
soluzione di ottimo paretiano quando non è possibile aumentare l’utilità di almeno uno dei
consumatori senza contemporaneamente diminuire l’utilità di un altro consumatore, rispettando,
allo stesso tempo il vincolo dell’uguaglianza tra quantità totale consumata e quantità totale
disponibile. (Enciclopedia dell’Economia Garzanti, Garzanti Editore, 1997, pg. 457-458).
semplicisticamente come homo economicus, senza altro scopo o
interesse che non una meccanicistica massimizzazione del profitto.
5
Il fatto che la crescente formalizzazione della teoria
economica allontanasse quest’ultima dalla realtà del mercato non era
percepito come un fattore di preoccupazione. L’idea degli aderenti alla
scuola di Losanna, e dei loro successori, era che le ipotesi del modello
non diminuivano l’efficacia esplicativa della teoria rispetto alla realtà.
Coase, al contrario, si rifiutava di accettare la visione riduttiva
dell’impresa Marshalliana. Trovava ingiustificata l’esistenza di
un’impresa, intesa come organizzazione guidata da un imprenditore,
in un sistema di mercato caratterizzato da concorrenza perfetta.
6
Coase ritiene che l’impresa abbia ragione di esistere soltanto
in un mercato imperfetto. Egli assume che nel mercato ci siano
asimmetrie informative. Queste ultime sono rilevanti ai fini della
scelta dell’organizzazione secondo cui operare.
L’assenza di perfetta informazione non permette al produttore
(principal) di osservare adeguatamente il comportamento della
controparte con cui interagisce sul mercato (il distributore-agent). Il
5
Bisogna comunque considerare che tra le teorie sull’impresa ci sono, però, anche contributi
ideologici come quello di Schumpeter per il quale l’attività dell’imprenditore mira a superare le
condizioni necessarie perché la concorrenza, assumendo il carattere di competizione tra offerenti
atomistici, possa garantire la migliore allocazione delle risorse. Per Schumpeter, in forza della
convinzione che ad assicurare un alto tasso di crescita (più della tendenza, pure operante, a un più
efficiente impiego delle risorse) concorra l’innovazione, ciò che conta non è la concorrenza come è
analizzata dagli economisti marginalisti, ma la concorrenza di tipo darwiniano che garantisce una
continua selezione delle imprese più efficienti. (Enciclopedia dell’Economia Garzanti, pag. 550).
6
B.D. Elzas, “The nature of the firm” after sixty years, Maggio 1998, Vrije Universiteit
Amsterdam, pagg. 12-16.
produttore non è, pertanto, in grado di pianificare esattamente i
comportamenti futuri né, tanto meno, di prevedere la correlazione tra
l’azione dei distributori ed i risultati economici.
L’opacità del contesto informativo determina la perdita di
numerose opportunità di conseguire miglioramenti dell’efficienza in
senso paretiano.
7
La decisione del produttore in ordine al problema della
distribuzione si risolve allora nella selezione della soluzione ottimale
lungo uno spettro caratterizzato da due estremi: da un lato il mercato,
caratterizzato da incertezza, asimmetrie informative e dai conseguenti
costi di transazione; dall’altro l’impresa. Coase considerò l’impresa
come una struttura organizzativa cui si fa ricorso quando non sia più
conveniente sostenere gli elevati costi di transazione necessari per
servirsi direttamente sul mercato. Coase ritiene che l’alternativa
dell’impresa sarà ogni qualvolta i costi di gestione del processo
produttivo all’interno siano inferiori ai costi di transazione imposti dal
mercato; sicché, rispetto a quest’ultimo, l’impresa è più efficiente.
Nel 1960, con “Il problema del costo sociale” Coase allargò il
discorso alla problematica delle esternalità, sostenendo che in assenza
di costi transattivi, l’approccio di Pigou al problema dei fallimenti di
mercato si basava si presupposti erronei.
8
In un mercato perfetto e
7
Per una definizione di “ottimo paretiano”, si faccia riferimento supra, alla nota n. 4.
8
R.H. Coase, The problem of social cost, 3 J. L. & Econ. 2. (1960)
concorrenziale, non c’è bisogno, infatti, di norme giuridiche e
dell’intervento dello Stato. L’ipotesi di assenza di costi transattivi,
implicita nel modello della concorrenza perfetta, fa sì che le
esternalità rappresentino un falso problema.
“Il problema del costo sociale” fu pubblicato sul Journal of
Law and Economics, diretto da Aaron Director. Quest’ultimo, su
invito dello stesso Coase, riunì venti dei più importanti economisti
dell’epoca, tra cui Stigler, Milton Friedman, McGee e Kessel. In
appena due ore di discussione, Coase riuscì a vincere tutte le
resistenze espresse da ciascuno degli economisti presenti. Li convinse
che, in un mondo privo di costi transattivi, a chiunque fosse imputata
la responsabilità per danni, o qualunque fosse l’attribuzione dei diritti
di proprietà, ciò non avrebbe avuto alcun effetto nell’allocazione
finale delle risorse.
Da quel momento in poi, le teorie di Coase presero
rapidamente piede tra gli economisti. Dall’inizio degli anni sessanta si
cominciò a formare una teoria moderna dell’impresa. Tra i maggiori
contributi dati agli studi sull’argomento, si possono ricordare Alchian
e Demsetz nel 1972, Jensen e Mackling nel 1976 (elaborarono
l’“Agency Theory”), Chandler nel 1977, Winter nel 1982 e tutta
l’opera di Williamson, lungo un arco temporale di circa trent’anni.
9
9
O.E. Williamson, Transaction cost economics: the governance of contractual relations, 22 J.
Law and Econ., 233-261 (1979).
1.3 L’importanza dei costi transattivi nelle strutture
organizzative.
Diversi sono i fattori che determinano la scelta del modello
organizzativo dei rapporti tra funzione produttiva e funzione
distributiva.
Williamson individua tre elementi cruciali:
1) Tipologia di investimento
2) Frequenza dell’investimento
3) Incertezza.
Williamson riprende in considerazione l’argomento delle
asimmetrie informative. L’economista ritiene che esse si devono alla
volatilità dei mercati e al fatto che la razionalità degli operatori
economici è limitata.
Tuttavia, egli focalizza la sua attenzione sulla specificità degli
investimenti. Quest’ultima è considerata come il fattore preponderante
nella scelta del management circa la strategia più conveniente
nell’alternativa mercato – impresa.
Per definizione, un’impresa, a qualunque titolo essa operi,
rivolge la sua attività all’esterno. L’imprenditore coordina i fattori
produttivi al fine di realizzare un output che poi sarà collocato sul
mercato.
La tipologia dell’investimento effettuato può essere di vario
genere: in alcuni casi può trattarsi di beni di carattere generico, non
specificamente dedicati all’attività produttiva, ma suscettibili di
utilizzazione alternativa.
In altri casi, invece, si può trattare di investimenti ad hoc,
effettuati solo ed unicamente per una particolare iniziativa economica:
questi beni sono “dedicati”, nel senso che la mancata realizzazione
dell’iniziativa vanifica i potenziali benefici dell’investimento e ne
rende irrecuperabili i costi (sunk costs). Investimenti di questo tipo
prendono il nome di “investimenti idiosincratici”.
Tutti gli investimenti che vengono realizzati mediante ricorso al
mercato, possono essere quindi classificati in relazione alla frequenza
con la quale gli scambi (e, conseguentemente, le contrattazioni) si
verificano. Si distinguono, al riguardo, contrattazioni una tantum,
contrattazioni occasionali e contrattazioni ricorrenti.
Le contrattazioni del primo tipo, quelle che si verificano una
tantum, prendono anche il nome di contrattazioni spot. Con esse, chi
opera nel settore della produzione vende i propri prodotti, di volta in
volta, a chi opera a valle della catena del valore. I grossisti ed i
rivenditori, a loro volta, commercializzeranno in proprio il prodotto
acquistato.
Da un punto di vista di analisi economica, una contrattazione
spot è conveniente nel momento in cui gli investimenti che sono stati
effettuati hanno carattere generico. In questo caso, infatti, l’identità
delle parti non ha importanza, nell’assunto che il mercato è
caratterizzato da una forte concorrenza tanto a monte, quanto a valle
del processo produttivo; cosicché è lo stesso mercato a determinare
l’efficienza dello scambio, senza a necessita di ricorrere a correttivi
esterni.
La contrattazione spot corrisponde all’affidamento dei rapporti
tra produttori e distributori ad un’organizzazione di mercato. Questo
tipo di contrattazione, però, diventa altamente disincentivante nel
momento in cui si ha a che fare con soggetti che effettuano
investimenti idiosincratici. In questo caso, infatti, le parti vincolano al
rapporto contrattuale risorse irrecuperabili in caso di ripensamento,
con evidenti, notevoli conseguenze in termini di rischio e di costo
opportunità.
Per evitare che, in caso di fallimento della relazione
commerciale, ciascuna delle parti coinvolte si trovi a dover
fronteggiare dei costi irrecuperabili, è necessario che tra produttori e
distributori si instauri un rapporto di carattere continuativo.
Va da sé che, per il management, la scelta non può che cadere o
sull’integrazione verticale oppure su una struttura di carattere
bilaterale, quale quella rappresentata dalle intese.
A differenza dell’integrazione verticale, dove si verifica
un’internalizzazione nell’impresa della gestione delle risorse
produttive, l’intesa verticale consente il mantenimento della natura
contrattuale del rapporto tra due soggetti distinti.
Il produttore che decide di fare affidamento su un distributore
esterno per la commercializzazione del proprio prodotto, anziché
operare “in autonomia”, deve tuttavia considerare la problematica del
controllo del servizio di distribuzione.
È possibile, infatti, che una delle parti ponga in essere dei
comportamenti che danneggiano la controparte. Ad esempio, si prenda
il caso di un produttore, il quale opera contemporaneamente su
mercati diversi. Supponendo che questi abbia a cuore la reputazione
del suo prodotto, si ipotizzi che egli ritenga opportuno che gli outlets
che commercializzano il suo prodotto si attengano a determinati
standards nell’erogazione del proprio servizio. Qualcuno dei
distributori potrebbe scegliere opportunisticamente di depauperare la
qualità del servizio, al fine di aumentare il suo profitto per ciascuna
unità di prodotto venduta.