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economica, sia politica (nel corso degli anni più o meno recenti) delle
tre regioni che di norma vengono più direttamente associate con l’idea
di Nordest: il Veneto, il Trentino ed il Friuli.
La loro storia politica ed economica, condizionata fortemente
dalla collocazione geografica sul piano nazionale ed internazionale,
oltre che dai caratteri demografici, ne ha segnato senza dubbio i
diversi tratti nel corso di tutto il secondo dopoguerra, ma ancora di più
negli ultimi anni col mutato quadro politico dell’Europa, di qui la
scelta di descrivere ad esempio per quel che concerne il Veneto la
genesi storica di due casi di industrializzazione ormai lontani nel
tempo, quali l’Alto vicentino e Porto Marghera, ossia due modi del
tutto contrapposti in cui è rimasto segnato il territorio della regione
condizionandone anche l’evoluzione successiva fino ai giorni nostri.
Allo stesso modo per il Friuli - Venezia Giulia si è scelto di
approfondire due fatti storici del dopoguerra quali il terremoto e il
Trattato di Osimo per il senso di svolta che hanno segnato nella
coscienza delle persone di quel luogo, mentre per il Trentino – Alto
Adige si è deciso di considerare come punto di passaggio
fondamentale per il suo sviluppo attuale la formazione delle due
province autonome che in questo modo si sono sostanzialmente
distinte tra loro, arrivando a compiere delle scelte politiche spesso
divergenti. Inoltre per ognuna delle tre regioni si è inteso
rappresentare la classe politica attuale in base ad una serie di interviste
effettuate qualche anno fa ai principali esponenti della società e delle
istituzioni del triveneto, che hanno fornito una visione molto
interessante della realtà in cui vivono e lavorano, frutto della loro
posizione di osservatori privilegiati. A tutto questo si collega
direttamente l’esperienza regionalista attuata in Italia, soprattutto in
merito alle aspettative di autonomia rimaste insoddisfatte, che ha
lasciato in Veneto un notevole senso di disagio e nel quale la protesta
verso lo stato centrale è andata crescendo sempre più proprio per il
senso di disparità rispetto alle due Regioni a Statuto Speciale ad esso
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limitrofe. Per questo motivo si è ricostruito un quadro
dell’istituzionalizzazione giuridica del governo regionale e del suo
dilungarsi nel corso degli anni per la sua completa attuazione. Questo
per il fatto che il cambiamento nella forma del territorio stimola la
necessità di poter regolare politicamente questo sviluppo,
evidenziando il bisogno di nuove potestà legislative e delle risorse
materiali per potervi fare fronte.
La spiegazione storica delle radici dello sviluppo, legato alla
piccola e media industria e alla subcultura bianca, soprattutto in
Veneto, permette di ben comprendere il motivo della sua specificità,
esso peraltro non può rappresentarsi come completamente scollegato
con un contesto territoriale più ampio, di cui il Nordest è parte,
caratterizzato dalla medesima complessità, qual è appunto l’intero
nord Italia. In tutto il territorio settentrionale del paese hanno
convissuto zone dove la cultura di fondo fino agli anni Sessanta aveva
un carattere tradizionale legato alla Chiesa cattolica coincidente con il
nord pedemontano, a fronte di altre zone dove il radicamento
maggiore lo aveva avuto la subcultura socialista, le aree rosse del
centro-nord, ed infine altre zone nelle quali esisteva già una società
organizzata principalmente secondo modalità più laiche e progredite,
ossia nei principali centri urbani e metropolitani del triangolo
industriale, ed in tutte quelle città che erano state già segnate dalla
prima industrializzazione.
Da questa prima elaborazione si è partiti per ricostruire nel terzo
capitolo una schematizzazione territoriale delle principali zone del
nord Italia, combinando il contributo di alcuni autori che hanno
analizzato il suo sviluppo, le sue modalità di evoluzione
socioeconomica e politica.
Ciò ci permette di osservare come vi siano degli aspetti
territoriali condivisi dalle varie regioni settentrionali e come certi tratti
una volta che vengono associati al Nordest acquistino una valenza
tutta particolare, carica di significati sul perché della spinta dinamica
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della sua economia a fronte di un certo declino e della
frammentazione della sua classe politica.
Quando si analizza uno spazio dai confini non ben definiti come
il Nordest, vanno sfumandosi tutti i caratteri formali descrivibili a
proposito delle regioni amministrative, ed acquistano invece risalto
tutta una serie di definizioni che disegnano una geografia del territorio
solo in parte fisica, ma perlopiù socio-economica.
Per comprendere a fondo le forme del contesto nordorientale e
le problematiche ad esso connesse si inizia così nella seconda parte di
questo lavoro un percorso in parte empirico ed in parte concettuale
finalizzato alla delineazione dei livelli territoriali più significativi
riscontrabili nella sua realtà socio-economica.
Iniziando dal capitolo sulle differenti definizioni di regione
geografica, si opera una descrizione sui numerosi aspetti assunti dalla
regione geografica nell’ambito italiano, nel contesto dell’economia
globalizzata e nei rapporti con altri livelli di strutturazione territoriale.
Questa prima teorizzazione ci permette di comprendere una prima
differenziazione tra quella che fondamentalmente è una (macro)
regione virtuale come il Nordest, basata su specifici rapporti
economici e sociali senza una delimitazione spaziale precisa, e quelle
che sono le regioni formali, come il Veneto o il Friuli, dai confini
istituzionalmente riconosciuti, ma spesso fissati in maniera artificiosa.
Nel capitolo seguente si attua un’ulteriore descrizione
concettuale di un altro livello territoriale rilevante quando si parla del
Nordest, ossia la città, con una serie di considerazioni sui suoi
caratteri geografici, i fattori che ne condizionano le differenze interne,
le sue modalità di espansione tipiche, con il passaggio dalla città-
diffusa alla città-regione che più di altre pare essere il modello tipico
di strutturazione territoriale dello spazio nordorientale dell’Italia. La
spiegazione del paesaggio urbano così viene vista non in diretta
contrapposizione con quello rurale, ma come dispiegamento graduale
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verso uno spazio non-urbano prima e di campagna poi che si distingue
in base agli stili di vita degli abitanti.
Il settimo capitolo, partendo da tutte queste analisi teoriche
giunge a sviluppare un esame sull’origine dei sistemi locali del lavoro
in Italia, partendo dai dati empirici degli anni Settanta e Ottanta, per
individuare innanzi tutto i sistemi basati sull’industrializzazione
leggera e da quest’ultimi selezionare quelli che hanno favorito la
formazione dei distretti, la concentrazione di quest’ultimi soprattutto
in certe aree centro-settentrionali e nel Nordest in particolare, i settori
produttivi nei quali i sistemi distrettuali si sono prevalentemente
specializzati, fino alla loro definitiva affermazione negli anni Novanta.
In sostanza viene a delinearsi un quadro sull’origine e lo sviluppo
della Terza Italia, come un’entità indistinta, fino alla sua progressiva
disarticolazione territoriale nei vari sistemi produttivi locali.
Infine l’ultimo capitolo, prettamente teorico, scandaglia il
modello di organizzazione produttiva probabilmente più ricorrente nel
Nordest, il distretto industriale, e ciò avviene con il richiamo alle
definizioni marshalliane ed il supporto di autorevoli studiosi nostrani
quali Becattini, Brusco, Anastasia, ecc.. Si analizzano nella fattispecie
i rapporti e le transazioni tra gli operatori coinvolti nel processo
economico, i vantaggi specifici di un’organizzazione della produzione
basata su tante piccole e medie imprese specializzate, in
contrapposizione alla struttura della grande impresa, i tratti sociali che
stimolano la dinamica dei distretti come la concorrenza e la
cooperazione.
La necessità di una sorta di “equilibrio dinamico” all’interno del
distretto ne evidenzia il continuo mutare delle forme, in bilico tra il
rischio di perdere competitività come sistema e la possibilità che una
singola impresa espandendosi assuma una posizione di predominio
modificando le caratteristiche generali del distretto stesso.
Tutto ciò che si detto a proposito dei sistemi produttivi locali e
dei distretti industriali, oltre ai tratti socio-economici che ad essi
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vengono associati, come il localismo, il policentrismo,
l’imprenditorialità diffusa e via dicendo, devono dunque confrontarsi
con una realtà politico-istituzionale che raramente ha saputo garantire
loro le condizioni migliori per funzionare efficacemente e mantenere
elevati il loro livello di competitività.
Ad un sistema territoriale caratterizzato da forte localismo, si è
associato con l’esperienza regionalista italiana un processo decisionale
sempre più parcellizzato fra organi politici e amministrativi
deresponsabilizzati e spesso privi delle risorse adeguate. Perciò si
vuole cercare, mettendo in luce diversi elementi della società e
dell’economia nordorientale, di comprendere quei motivi che rendono
difficile la nascita di un ceto politico autorevole che, magari
beneficiando di una struttura istituzionale rinnovata e funzionale,
sappia guidare quest’area verso le sfide economiche future.
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CAPITOLO PRIMO
EVOLUZIONE SOCIOECONOMICA E POLITICA NELLE
REGIONI NORDORIENTALI
Il Nordest per come è stato descritto fino a oggi, è la
rappresentazione di un soggetto economico corrispondente all’incirca
al territorio nord orientale del paese, la cui inedita evoluzione di questi
ultimi anni ne ha messo in luce, nel bene e nel male, il tessuto sociale,
diventando quasi un oggetto di “culto” per i mass-media che lo hanno
trasformato in quell’entità uniforme che è ben lungi dall’essere.
Infatti, se esso può ben essere visto come uno spazio di riferimento
autonomo delle attività e delle strategie degli attori economici, che
configura una macro regione reale sul piano delle relazioni concrete,
ma virtuale sul piano istituzionale, ancora di più osservandone il
recente passato socio-culturale, oltre che il profilo storico giuridico, se
ne ricaverà l’immagine di un luogo multiforme, ricco d’esperienze
differenti ma anche di contrasti e di contraddizioni.
Per questo motivo si intende innanzi tutto ricostruire un quadro
delle tre regioni interessate dallo studio, in genere elevate a
riferimento della macro area, ma prese separatamente, in modo da
comprenderne a fondo la complessità in vista di una futura
partecipazione ad un sistema federale, nella prospettiva delle
auspicabili riforme istituzionali a lungo attese nel nostro paese.
Un utile ausilio allo scopo di individuare e comprendere le
differenze regionali, ci può derivare dalle opinioni dei “leaders”
politici e non, tratte da un recente lavoro di Diamanti, “Idee del
Nordest”, per capire i propositi della classe dirigente tri-veneta, al fine
di favorire un’evoluzione politica di tale soggetto economico e le
difficoltà che si frappongono ad un simile obiettivo; rimandando alla
parte conclusiva le considerazioni sull’opportunità e la possibilità di
realizzare una riforma istituzionale del paese in senso federale, nella
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quale riesca a trovare riconoscimento un’inedita entità territoriale,
riferita all’area nord orientale dell’Italia.
La descrizione dello sviluppo politico ed economico che si
opererà nelle pagine seguenti intende delineare un quadro storico delle
questioni territoriali del tri-veneto sia a livello regionale sia quanto
alle sue differenziazioni interne.
I sistemi locali del lavoro che verranno definiti più avanti, sono
nel Nordest molto numerosi e variegati, espressione dei diversi
momenti e modi in cui è cresciuta l’economia, delle diverse
caratteristiche culturali e socio-politiche delle diverse aree.
Lo studio storico, politico ed economico di questo capitolo si
basa sulla dimensione territoriale della regione amministrativa che è
stato nel secondo dopoguerra il livello di governo territoriale
probabilmente più discusso e controverso. Se da un lato la dimensione
territoriale regionale ha svolto un ruolo di identificazione per diversi
movimenti politici localistici, dall’altro la sua formalizzazione
nell’ambito del sistema istituzionale italiano ha incarnato nel corso
degli anni uno dei simboli verso cui si è rivolta la protesta e la
tensione sociale soprattutto in Veneto.
Il Veneto
Il Veneto per dinamismo economico produttivo è stata la
regione che, fin dagli anni Ottanta, ma ancor di più negli anni
Novanta, più si è distinta a livello nazionale finendo spesso per essere
considerata come l’idealtipo del Nordest. Contemporaneamente, a
caratterizzare la storia politica di questo ultimo decennio è stato il
tracollo pesante che ha coinvolto le forze politiche tradizionali, ed in
particolare la DC, il cui elevato consenso si è certo eroso a causa dei
conflitti interni e degli scandali esterni, ma anche a causa e a favore
delle forze autonomiste, in primis “la Lega”.
Parlando del Veneto non è quindi difficile ribadire i medesimi
caratteri socioeconomici rappresentabili per il Nordest, gli stessi
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politici regionali e gli studiosi del fenomeno, spesso si richiamano al
Nordest praticamente come sinonimo della regione, la quale se a
prima vista può apparire un’area abbastanza uniforme, ad un esame
più approfondito evidenzierà alcune significative differenze al suo
interno di tipo economico-territoriale oltre che sociale.
Va anche detto che la sua dinamica produttiva molto spinta in
questi anni, se ha trovato alimento nel successo della piccola impresa,
è stato oltremodo il risultato storico di varie condizioni favorevoli che
hanno avuto origine fin dai primi processi d’industrializzazione del
paese alla fine dell’Ottocento, mentre le stesse condizioni sociali sono
state il frutto del sedimentarsi di quella subcultura cattolica che si è
via via consolidata a partire dallo stesso periodo e nella prima metà di
questo secolo.
Evoluzione storica e differenze infra-regionali
Riguardo allo sviluppo del Veneto si è sempre fatto riferimento
all’esistenza di un’economia periferica manifestatasi con una certa
rilevanza a partire dagli anni Settanta e divenuta poi centrale man
mano che si rafforzava il suo peso economico.
In realtà una simile considerazione è poco memore del fatto che
già nel 1911 in relazione al primo censimento ufficiale del Regno
d’Italia, il Veneto appariva la terza regione industrializzata d’Italia,
quanto a forza lavoro impiegata nel settore secondario (l’8,77 % sul
totale degli occupati), sebbene ancora piuttosto distante da Torino e
Milano che formavano, insieme a Genova, i vertici di quel triangolo
protagonista della prima fase di grande modernizzazione del paese.
Questa posizione traeva certamente vantaggio dalla presenza,
nei dati aggregati, della provincia di Udine, fino alla Seconda guerra
mondiale facente parte del Veneto, la quale sotto molti aspetti
rappresentava un’area a forte vocazione industriale rispetto al resto
della regione. E in effetti anche in sua assenza, l’incidenza
dell’industria regionale sul resto del paese rimaneva rilevante.
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In quell’epoca il Veneto e le sue imprese presentavano delle
attività che in buona parte coniugavano modernità ed arretratezza,
formando un tessuto produttivo fragile e frammentato in vaste aree
agricole, che ne sminuiva la reale consistenza.
Al di là delle prime attività proto-industriali, che in alcune
località della fascia pedemontana (nel vicentino e nel trevigiano),
avevano fatto la loro prima apparizione alcuni secoli prima, fu a
partire dalla seconda metà dell’Ottocento che si ebbero i primi casi
d’insediamento industriale, che rappresentano a tutt’oggi dei luoghi
storici non solo dello sviluppo italiano, ma anche europeo e di cui
furono fautori essenzialmente due grandi figure imprenditoriali, quella
di Alessandro Rossi a Schio e quella di Gaetano Marzotto a Valdagno.
In particolare il primo diventò una delle personalità più versatili del
secolo in Italia, unendo agli interessi di espansione del polo laniero di
Schio, la partecipazione a vari progetti industriali e finanziari, oltre a
contribuire da protagonista alla vita politica del paese, come deputato
prima e senatore poi, battendosi per le politiche doganali e fiscali e per
una maggiore liberalizzazione delle attività societarie. Egli fu, assieme
ad altre eminenti personalità di quel periodo, quali Vincenzo Stefano
Breda, Luigi Luzzati e Leone Wollembourg, fautore di un ruolo
spesso sottovalutato del Veneto: quello di terreno sperimentale di
forme capitalistiche e solidaristiche del vivere economico (Roverato,
’96). In effetti, il Rossi oltre a porsi come organizzatore, assieme a
capitalisti agrari e mercantili, delle più svariate iniziative industriali e
finanziarie, si distinse come promotore del primo associazionismo
padronale italiano non meramente tecnico.
La sola industria veneta di un certo rilievo era dunque quella
laniera, concentrata nella zona di Schio e Thiene, dove operavano già
o stavano emergendo piccole ditte artigiane che avrebbero in seguito
lasciato il segno nella storia di questo settore, ma anche a Valdagno
andava sviluppandosi nel tessile un’azienda che fino ai giorni nostri è
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rimasta protagonista del contesto produttivo nazionale ed
internazionale, la Marzotto.
Se tutto ciò non poteva da solo rendere l’economia veneta
ottocentesca del tutto staccata da un ruolo puramente marginale, fu
ancora lo spirito imprenditoriale di Alessandro Rossi a lasciare una
traccia indelebile nel mondo industriale del Veneto, con il suo lucido
perseguimento di un preciso disegno strategico che oltre alle citate
iniziative finanziarie, societarie e politiche, tendeva a recuperare e
valorizzare tendenze artigiane preesistenti nell’Alto vicentino, per
dare l’avvio ad un modello di delocalizzazione aziendale che fu una
delle costanti dello sviluppo veneto nei periodi successivi. Nella sua
filosofia d’impresa vi era il rifiuto del grande impianto accentrato e il
decentramento delle varie attività produttive sul territorio. La grande
Anonima scledense che egli riuscirà a costituire, anche grazie al
finanziamento del grande capitale privato, e alla quale si pose alla
guida, comprendeva tutta una serie di opifici sparsi nella vallata del
Leogra che seppure collegati tra loro si gestivano autonomamente,
quasi una sorta di anticipazione di quella che sarà la “fabbrica per ogni
campanile” che il Veneto conoscerà dalla fine degli anni Sessanta di
questo secolo.
La scelta di Alessandro Rossi, agli esordi
dell’industrializzazione, consistente in una dispersione sul territorio
degli insediamenti produttivi scaturì dapprima da ragioni tecnico-
energetiche (per il funzionamento degli impianti), poi come strumento
di controllo sociale e di mezzo per contenere, tramite la
polverizzazione degli interessi operai, i costi salariali.
Se il lanificio Rossi, dopo la scomparsa del suo fondatore subì
nel corso del Novecento alterne vicende, ciò fu dovuto alla mancanza
di una dinastia familiare in grado di raccogliere l’eredità carismatica
del fondatore e di rilanciare l’impresa nelle successive fasi industriali;
un requisito questo che fu invece ben presente nella storia della
famiglia Marzotto, che pose le basi del suo poderoso successo
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industriale a partire dagli anni Venti, perpetuandolo fino ai giorni
nostri e diventando una delle aziende di punta dell’economia italiana.
Gaetano Marzotto jr, Industriale di terza generazione, trovatosi
molto giovane a capo di un’impresa già piuttosto consolidata,
comprese dalla crisi del tessile del 1921-22 che la manifattura
tradizionale per sopravvivere in un paese in espansione come il nostro
doveva prodigarsi a favorire la modernizzazione degli impianti e il
loro costante aggiornamento tecnologico, l’accrescimento delle
capitalizzazioni aziendali e la realizzazione di economie di scala. Tale
progetto fu la base su cui si costituì il polo tessile della valle
dell’Agno, ma rappresentò anche il modello ispiratore di altri due poli
importanti nello stesso settore a livello nazionale, quello di Prato e il
biellese.
L’intuizione di Marzotto consistette in particolare nell'introdurre
in un settore tradizionale idee e strategie tipiche di settori più dinamici
ed a più alta intensità di capitale, una formula questa che, coniugando
modernità e arretratezza fu il riferimento, in anni più recenti, con
l’intensificarsi dell’attività produttiva del Veneto, per altri comparti
produttivi più o meno tradizionali, basati sulla piccola e media
impresa.
Così facendo la Marzotto divenne, negli anni ’30, il più
importante produttore laniero del paese oltre che il principale
esportatore all’estero di questo lavorato; un primato solo scalfito
dall’incombere delle varie crisi successive del settore, che spinsero
l’azienda a perseguire una nuova strategia basata sulla diversificazione
dell’investimento produttivo e sull’allargamento dei settori
d’intervento economico; una vocazione questa fortemente radicata
nella visione economica di Gaetano Marzotto e che denotava quelle
tendenze oligopolistiche proprie della grande imprenditoria veneta
degli anni Venti, Trenta e Quaranta e che tra l’altro condurrà alla
nascita di quel polo insediativo che fu Porto Marghera.
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L’area veneziana era, nell'Ottocento, quella in cui si riscontrava
il peso più rilevante di addetti alla manifattura di tutto il Veneto, ciò
rispecchiava non tanto il dinamismo di una zona impegnata nella
modernizzazione industriale, quanto il permanere di un’economia di
piccola produzione ancora fondata sul lavoro manuale; ciò nonostante
la presenza di importanti figure imprenditoriali (quali Giovanni
Stucky, Antonio Salviati, Eugenio Cantoni, ecc.) che, come nell’Alto
vicentino, avevano maturato importanti esperienze industriali. Solo
all’inizio del secolo successivo però avvenne quel fatto significativo e
davvero fondamentale nella storia dello sviluppo veneto rappresentato
da Porto Marghera.
Il gruppo finanziario-industriale cui faceva capo Giuseppe
Volpi, volle un simile insediamento produttivo non tanto per ricavarne
un grosso ritorno dalla vendita di energia elettrica (della quale
peraltro, con le sue società, era il maggior produttore della regione),
quanto per accelerare l’inserimento dell’area veneta nel contesto della
crescita economica che stava coinvolgendo l’Italia sulla spinta del
primo conflitto mondiale, in particolare nella siderurgia, nella chimica
e nella meccanica.
Non a caso l’atto di nascita di Porto Marghera risale al febbraio
1917 nel pieno del conflitto bellico, in un’epoca carica di forti
potenzialità espansive e di ricchi profitti. Il progetto era sicuramente
ambizioso e si articolava sul porto, sulla zona industriale e sulla
creazione di un ampio quartiere urbano destinato ad ospitare la
popolazione rurale che sarebbe stata coinvolta nel processo
d’industrializzazione; inoltre nella concezione di Volpi la scelta di
Marghera come polo ad alta intensità di capitale, come terminale di
quell’asse padano, formatosi in decenni di crescita della manifattura
tradizionale, ad elevata manodopera e a bassa produttività,
rappresentava una scelta strategica per la modernizzazione del Veneto,
pur escludendo le zone marginali della bassa pianura, del bellunese e
del Veneto orientale. Esso scaturiva quindi da motivi di convenienza
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economica, in una logica di crescita capitalistica che delegava a
gruppi privati e non allo Stato, i progetti di sviluppo di un’intera
regione.
La Società porto industriale di Venezia, creata da Volpi e
composta da una serie di rappresentanti della finanza veneziana,
ottenne dal governo una convenzione, che consentiva l’esecuzione
delle opere, la gestione dei servizi portuali e alcuni poteri eccezionali,
quali la possibilità di procedere all’esproprio dei terreni interessati.
Negli anni seguenti si costituirono anche le società industriali
che avrebbero operato nell’ambito delle attività previste dal progetto e
che videro la partecipazione del “gotha” della finanza dell’industria
italiana, dando inizio in questo modo al primo grande progetto di
pianificazione industriale del paese, a partire dal 1922.
Nel corso di un decennio, lo sviluppo degli insediamenti a
Marghera fu enorme, tanto che nel 1932 contribuivano a fare del
Veneto la Quarta regione italiana dopo le tre del triangolo industriale,
quanto ad incidenza degli addetti occupati in stabilimenti di grandi
dimensioni (il 7,6 % del totale), mentre le attività preminenti
andavano concentrandosi sempre più sul settore chimico.
D’altra parte, come era prevedibile, viste le modalità con cui è
nato, il polo di Marghera era privo di un retroterra sia fisico che
imprenditoriale (il capitale esauriva in se stesso le energie produttive),
incapace di recepire gli stimoli provenienti dalla concentrazione in
un’area ristretta di produzioni di base adatte ad ulteriori
trasformazioni. Non vi era quindi interscambio sufficiente con la
regione per tutta la produzione chimica, che veniva perciò trasformata
al di fuori di essa, mentre se un certo indotto pure esisteva esso era
comunque del tutto funzionale alla zona industriale e alle sue attività.
La descrizione dei due percorsi storici riguardante
l’industrializzazione nell’Alto vicentino e a Venezia ci permette di
formulare due considerazioni: la prima che, sebbene l’economia
veneta ed il paesaggio che disegnava fossero nel complesso residue e
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marginali, due casi di un certo rilievo avevano mantenuto il Veneto in
una posizione piuttosto avanzata negli indicatori dello sviluppo
nazionale; la seconda considerazione che entrambi i poli nazionali
descritti, quello tessile-laniero di Schio e Valdagno e quello oramai
prevalentemente petrolchimico di Marghera siano giunti ai giorni
nostri e risultano tuttora attivi, salvo che quest’ultimo si è via via
ridimensionato a seguito di svariate vicissitudini (le lotte sociali e
sindacali, il degrado ambientale della Laguna, i procedimenti penali
per le morti di operai occupati nelle lavorazioni più nocive) e si trova
in un’incerta fase di transizione, che non sembra trovare ancora una
prospettiva per il futuro. Viceversa il primo ha rappresentato il fulcro
dello sviluppo dei sistemi produttivi locali della fascia pedemontana
veneta, sotto forma di distretti industriali, sistemi produttivi locali e
aree sistema.
Nel Veneto dunque come in altre realtà produttive centro-
settentrionali del nostro Paese, la molla dello sviluppo industriale è
stata fatta scattare molto spesso dall’insediamento di una o più aziende
di prestigio, all’interno peraltro di un ambiente sociale dov’erano già
sedimentate particolari professionalità artigianali e “saper fare”
diffusi. Questo sono state la Lanerossi a Schio e la Marzotto a
Valdagno, come pure la Ceccato a Montecchio, infatti le aree dove si
sono stabilite hanno osservato nel corso degli anni un progressivo
rafforzamento del tessuto industriale, con la crescita di unità locali di
minori dimensioni che hanno finito per “disperdersi” anche nei
comuni limitrofi, pur mantenendo un legame sia strutturale (a livello
di relazioni produttive) che individuale (a livello di rapporti tra
imprenditori) con il territorio (Corò, ’93). Il vicentino che già a suo
tempo rappresentava la zona a più elevato grado di
industrializzazione, ha mantenuto tale primato fino ad oggi, grazie alla
crescita dei distretti antichi a cui si sono aggiunti altri più recenti,
quasi tutti come evoluzione che la società locale ha elaborato da
specializzazioni tradizionali per rafforzare il vantaggio competitivo