3
dell’imprenditore, la cui maggiore o minore propensione verso determinate
tematiche risulta funzione della cultura del contesto di riferimento.
Nella seconda parte si analizzano la struttura e le modalità operative della
filiera alternativa, della quale si presentano le problematiche della definizione
equitativa delle grandezze profitto e prezzo.
L’intera trattazione sottende un quesito di fondo, che è alla base della
verosimiglianza dell’ipotesi di ricercare un diverso e più giusto equilibrio socio-
economico generale: la conciliabilità tra economia ed etica, tra profitto e giustizia
sociale.
Tale tematica è stata a lungo sviluppata in chiave politico-filosofica, senza
riuscire a raggiungere, però, una composizione tout-court dei relativi obiettivi.
A siffatta conciliazione sembrerebbe essere pervenuta, invece, la letteratura
aziendalista attraverso la combinazione di una prospettiva soggettiva e di una
organizzativa. Come esplicitato nel pensiero di molti studiosi, l’esistenza di
un’intera gamma di finalità imprenditoriali fa sì che l’imprenditore, come
soggetto, tenda anche ad aspirazioni diverse dalla semplice massimizzazione del
profitto; l’equità può anche essere raggiunta, a livello organizzativo, in chiave
redistributiva, attraverso l’applicazione dell’antico adagio “suum quiqe tribuere”.
In entrambe le parti di cui si compone, il presente lavoro rimanda
costantemente alle evidenze empiriche fornite dalle moderne realtà aziendali,
onde suffragare le argomentazioni fornite dalla letteratura economico-aziendale.
4
CAPITOLO PRIMO
Etica e responsabilità sociale delle imprese
1.1. Etica e responsabilità sociale: la base assiomatica di
riferimento
La Corporate Social Responsability (CSR) può rappresentare un concetto
utile per descrivere concretamente il modo in cui l’impresa influenza lo sviluppo
equilibrato del territorio e delle persone (Reich, 1991)
1
.
In linea generale, la CSR indica la tensione dell’impresa al raggiungimento di
un equilibrio tra l’obiettivo di sviluppo economico-competitivo e gli effetti sociali
delle azioni intraprese (Caroli, 2000). Il richiamato principio di equilibrio si
fonda su di una visione etica
2
che pone lo sviluppo di ogni essere umano
all’origine di qualsiasi decisione ed orientamento d’impresa.
1
Citato in Calvelli (1998).
2
Prima ancora che come categoria del diritto, la responsabilità si presenta come categoria etica e
morale. Il termine “responsabilità”, infatti, indica “la congruenza ad un impegno assunto o ad un
comportamento e sottintende l’accettazione di ogni conseguenza, specialmente dal punto di vista
della sanzione morale e giuridica” (Devoto-Oli, 1971).
5
L’etica e la morale
3
sono formulazioni teoriche nate in ambito filosofico-
religioso e che solo in un secondo momento, hanno trovato applicazione in campo
economico, con lo sviluppo della ricerca sulla Business ethics
4
, intesa come
applicazione di valori morali a problemi complessi (Sciarelli, 1996) oppure,
secondo una diversa ottica, come studio sistematico della prospettiva morale del
business (Tilley, 2000)
5
.
Sono sempre più numerose le ricerche sul tema, svolte presso centri
universitari, organizzazioni culturali
6
(Pearson, 2000) e business schools, i cui
risultati sono spesso pubblicati su riviste specialistiche
7
(Panzarani, 1991).
Phillips (2003)
8
ha sottolineato l’importanza della sua nascita come branca
3
Per quanto, in questo lavoro, i due termini saranno considerati come sinonimi, la completezza
dell’indagine richiede che venga palesata la distinzione operatane in ambito filosofico: Hegel
(1820) indica il movente soggettivo della condotta con il termine moralità, riservando quello di
eticità all’identificazione di quell’insieme di valori morali effettivamente realizzati nella storia
(Rusconi, 1997). A testimonianza della pluralità di posizioni in merito, si riporta anche il pensiero
di McCoy (1985), il quale concepisce l’etica come l’adesione ad un determinato sistema di valori
e la moralità come la priorità secondo cui tali valori vengono perseguiti. La moralità di un gruppo
definisce il quantum, ossia il peso attribuito ai singoli valori rispetto agli altri complementari che
compongono l’etica del gruppo medesimo.
4
Ad opinione di Pearson (2000), il movimento della Business Ethics deriva la sua forza
dall’interessamento dimostrato dalla comunità accademica e potrebbe essere in qualche misura
motivata da ideali di stampo filosofico o, addirittura, religioso.
5
L’autrice espone le due posizioni contrastanti di quanti, come Tombs e Smith (1995),
approcciano questo campo d’indagine in modo molto “pragmatico”, tentando di concettualizzarlo
immediatamente nei termini aziendali di strategia e vantaggio competitivo e di quanti, come
Buchholz (1991) e più vicini al suo pensiero personale, ritengono opportuno procedere ad una
preliminare definizione dei fondamenti teorici della materia, per evitare che l’assenza di una
sottostante base teorica forte produca un amorfismo dei contenuti della responsabilità sociale, della
business ethics e dello sviluppo sostenibile.
6
Si ricordano, al riguardo, EconomEtica, International Society of Business, Economics and Ethics,
Society for Business Ethics, Insitute of Business Ethics e European Business Ethics Network.
7
Si ricordano: Journal of Business Ethics, Quarterly Journnal of Business Ethics, Business
Ethics: A European Review e Business and Professional Ethics Journal.
8
Citato in Kaler (2004).
6
autonoma e specifica, evidenziando l’assoluta inadeguatezza dell’applicazione
della morale tradizionale ai contesti aziendali
9
.
L’etica e la sua evoluzione nel tempo
L’etica, nell’accezione moderna post-hegeliana, è concepita come scienza speculativa riferita alla
molteplicità dei rapporti umani e, quindi, alla socialità, riempiendosi così di un contenuto di
concretezza. Per raggiungere tale prospettiva il tema dell’etica ha subito una profonda evoluzione
nel tempo: in Platone è una prerogativa della politica, rappresentando, in quanto giustizia, la
finalità cui deve tendere lo Stato perfetto; con Aristotele il suo dominio si amplia ed il relativo
concetto assume la valenza di “equilibrio” (la c.d. “morale del giusto mezzo”). Con il
Cristianesimo, prima, ed i Padri della Chiesa, poi, la questione assurge ad una valenza universale
incentrata sulla figura dell’uomo, attraverso principi categorici aprioristicamente determinati per
fungere da guida alla condotta umana. Con San Tommaso si assiste alla fondazione ontologica
dell’etica: il dibattito, cioè, si incentra sull’essere dell’uomo in quanto creatura di Dio, la quale non
può che comportarsi a modo della divinità.
Con l’età moderna viene messo in discussione il carattere religioso della morale, iniziando quel
lungo processo di laicizzazione culturale la cui manifestazione più significativa è data dal “sapere
aude” illuministico: con la proclamazione dell’autonomia della ragione, la morale viene rifondata
quale libertà dell’uomo di autoregolamentarsi. L’idealismo ottocentesco matura la storicizzazione
della morale, identificandola con l’esaltazione della tensione dell’uomo verso l’infinito: lo
“stressen” romantico. L’opposizione alla cultura romantica produce reazioni diverse, di cui la più
estrema è rappresentata dal pensiero di Nietzche, la cui “Genealogia della morale” distrugge tutte
le certezze ottocentesche: considera la morale tradizionale come la morale degli schiavi, generante
passività, inerzia e sottomissione e propone una morale nuova, quella dell’oltre-uomo, eroica
perché consente all’uomo, all’ oltre-uomo, di vivere istante per istante e di scegliere, senza
condizionamenti di sorta ed in assoluta libertà, l’azione che lo conduce alla piena accettazione
della sua condizione di essere. La cultura contemporanea ha visto molti orientamenti contrapposti,
che hanno diversamente affrontato i temi della morale: i più significativi sono stati quelli
dell’esistenzialismo tedesco, del marxismo contemporaneo e dello storicismo. Negli ultimi decenni
del secolo il dibattito si è fatto più acceso in seguito alla crisi dei fondamenti, che ha rivelato tutta
la complessità della post-modernità. Con Scarpelli è stata legittimata la messa in discussione dei
principi universali. Engelhardt propone di accantonare l’astrazione per porre cura e rigore alle
distinzioni concettuali concrete al fine di stabilire, di volta in volta, cosa sia etico e cosa no. Da
tale dinamismo scientifico scaturisce l’accettazione del pluralismo etico. E’ così tramontato il
sogno galileiano di leggi assolute, generali ed esatte; il determinismo baconiano e l’universalismo
newtoniano sono ormai considerati riduttivi ed ogni intento definitorio è divenuto sterile, in
quanto inadeguato alle sfide moderne. Si assiste, in breve, al passaggio dalla meta-etica all’etica-
pratica. Se, da un lato, un’etica universalistica, fondata su principi aprioristicamente determinati,
non è più attuale, dall’altro, neanche un’etica individualistica è più accettata: MacIntyre (1981)
critica aspramente la moralità soggettiva indotta dalla ragione illuminista ed Apel (1922) sottolinea
la necessità di una morale più generale, che vada oltre il relativismo ed il nichilismo. Dette
posizioni confluiscono nel più organico pensiero di Jonas. Questi, nel riconoscere i progressi della
tecnologia, ne evidenzia anche l’ineluttabilità del relativo sviluppo. Nel suo continuo procedere, la
tecnologia supera sempre nuove barriere ed avanza senza conoscere limiti. A detta
inarrendevolezza l’umanità reagisce con la costante paura che venga infranto anche il limite del
9
Ad opinione dell’autore, il fondamento teorico della nuova dottrina risiederebbe nella teoria degli
stakeholder.
7
rispetto della stessa essenza umana. Stante tale scenario inedito ed inquietante, Jonas rinviene la
necessità e l’urgenza della riscoperta di una morale, che non sia solo nelle intenzioni, alla Voltaire,
che non si limiti ad essere un credo, né religioso, né filantropico, né marxista, ma una profonda
coscienza collettiva che si alimenta nell’urgenza della salvezza.Viene introdotta una nuova sfera di
soggettività: l’agire collettivo deve sostituire l’etica tradizionale, impostata come guida al
comportamento del singolo.
In ambito filosofico, l’etica sta quindi attraversando un processo di rifondazione, non di semplice
rinnovamento e testimonianza di tale capovolgimento è l’opera di Jonas (1979), intitolata Etica
della responsabilità: l’etica per una società tecnologica, che ricorda: “fiat justitia quam peret
mundum”.
Fonte: Abbagnano (1993), Massaro e Fornero (1999), Moore (2003).
La letteratura economico-aziendale sembra riconoscere le origini
anglosassoni delle ricerche
10
(Robertson, 2002; Sciarelli, 1998; Baccarani e
Giaretta, 2004), anche se non vanno trascurati i contributi italiani delle Scuole di
Masini e di Coda
11
.
Dall’esame delle riviste specialistiche, si riscontra una relativa carenza di
articoli sulle questioni internazionali e risulta, quindi, evidente come l’analisi sia,
ad oggi, ancora in fase di implementazione. Una delle poche certezze al riguardo
è di natura metodologica: l’approfondimento della tematica della Business ethics
da un punto di vista internazionale va affrontato in chiave comparativa,
confrontando i principi etici dominanti nei diversi Paesi.
10
La traduzione della dizione originale di Business ethics ha comportato l’insorgenza di
imprecisioni terminologiche: il concetto di etica degli affari non è strettamente equivalente a
quello di etica d’impresa, come alcuni invece pretendono. Nel primo caso, l’oggetto del
contendere è circoscritto al breve periodo, per cui è verosimile il riscontro di una contraddizione
in termini tra il successo del singolo atto economico e la sua presunta eticità sottostante. Nel
secondo caso, invece, il riferimento è all’impresa quale istituto destinato a perdurare nel tempo ed
è dunque appropriato considerarne l’eticità, quale condizione imprescindibile per la continuità
dell’organismo aziendale (Baccarani e Giaretta, 2004).
11
L’importanza dei valori morali nel governo dell’impresa era stata rilevata, nella scuola
aziendale italiana, già da Zappa, nel 1956. Fonte: Caroli (2000).
8
Non mancano, nell’ambito degli studi sulla Business ethics, approcci che
sembrano richiamare, a tratti in maniera molto forte, la matrice filosofico-religiosa
dell’argomento attraverso l’esplicitazione della connessione tra uomo-
imprenditore ed uomo-coscienza. Sembra collocarsi in quest’ottica il filone di
studi sulla teologia dell’imprenditorialità, nell’ambito del quale Panati (1998)
propone tre grandi aree di riflessione teologico-morale:
• il rapporto dell’uomo con la ricchezza,
• il significato del lavoro,
• la nozione di autorità.
Negli studi, anche se si enfatizza l’errato rapporto che l’uomo ha con la
ricchezza, si conferma, di converso, la legittimità della componente appropriativa
dell’attività imprenditoriale; ma l’imprenditore deve servirsi della ricchezza per
farla servire, non per servirla (Panati, 1998).
Il lavoro è concepito come strumento di auto-realizzazione dell’uomo, anche
quando si tratti di lavoro imprenditoriale e dirigenziale: proprio poiché non è la
ricchezza in sé a condannare l’uomo, non è configurabile la condizione di
“peccatore per causa professionale” (Panati, 1998; p. 33).
Lo spessore autoritativo, implicito nel lavoro imprenditoriale e dirigenziale,
non deve essere avvertito come forma di prevaricazione dell’uomo sull’uomo,
poiché la prevaricazione non sta nell’esistenza dell’autorità, bensì nelle modalità
con le quali la stessa è esercitata. Viene introdotto in questo modo un distinguo tra
autorità ed autoritarismo, in virtù del quale la prima è assolutamente legittima, in
9
quanto funzionale alla crescita dell’individuo, della collettività e del benessere
(Panati, 1998).
La ricerca in questo campo segue, alternativamente, un filone “normativo” ed
uno “descrittivo”: il primo indaga su ciò che dovrebbe essere in principio, mentre
il secondo mira a rappresentare ciò che è nella realtà (Robertson, 2002). La ricerca
normativa ha la valenza di identificare “imperativi ipotetici” per la condotta
imprenditoriale, stimolare la consapevolezza manageriale della responsabilità
internazionale, scalfire la validità del relativismo etico quale metodo per risolvere
le questioni “morali” all’estero e coadiuvare le imprese nella definizione dei
principi di condotta.
La ricerca empirico-descrittiva tenta, invece, di fornire un contributo
conoscitivo su come viene trattato l’argomento “etica” in altre culture
12
. Oltre
queste tipologie di contributi, l’international business ethics non si spinge: la
complessità delle situazioni concrete impedisce la fattibilità di un guidebook che
regoli il comportamento imprenditoriale all’estero in ogni circostanza (De George,
2000)
13
.
12
E’ stata rilevata l’urgenza di un’integrazione tra i due filoni di studio (Kahn, 1990; Frederick,
1994; Jones e Wicks, 1999; Swanson, 1999), perché l’uno da solo è “filosofia irreale” e l’altro, da
solo, è “scienza sociale amorale” (Victor e Stephens, 1994). Fonte: Robertson (2002).
13
Le generiche guidelines identificate dal De George suggeriscono di non provocare
intenzionalmente danni diretti, di produrre più vantaggi che danni per il Paese ospitante, di
rispettare i diritti dei dipendenti e di tutti coloro che risultino coinvolti nelle proprie azioni o
politiche, di rispettare la cultura locale onde poter lavorare con essa e non contro di essa, di pagare
la propria quota parte di tasse e cooperare con i governi locali in vista dello sviluppo di un equo
substrato normativo e di un adeguato impiantito istituzionale. Data la molteplicità dei possibili
scenari concretamente verificabili, non avrebbe senso un corpo di regole maggiormente dettagliate,
ma si rinvia alla “razionalità etica” ed all’”immaginazione morale” per trovare soluzione ai
problemi pratici.
10
La valenza della ricerca nella busines ethics risiederebbe, dunque, nel fornire
strumenti per l’analisi e l’applicazione di principi etici senza fornire formule che
possano intendersi risolutive (Robertson, 2002).
Si rileva (Sciarelli, 1996, 1998; Robertson, 2002) la connotazione fortemente
interdisciplinare degli studi in questione, condotti, oltre che da economisti
aziendali, anche da filosofi, sociologi, psicologi ed antropologi, a testimonianza di
come l’economia sia una “scienza sociale” (Ferraris Franceschi, 1998; 2002).
La comprensione delle interrelazioni esistenti tra le questioni etiche aziendali
e le principali caratteristiche di una data cultura sviluppa, nel manager
internazionale, la capacità di esplorare lo spazio etico di altri contesti (Robertson,
2002). Per questo motivo, studiosi come Caselli e Sciarelli hanno applicato alla
sfera aziendale i risultati delle ricerche condotte nel campo della cultura
(Robertson, 2002). Tali applicazioni devono essere inquadrate in una prospettiva
ben identificata: quella secondo la quale l’etica è funzione della cultura.
Di diversa prospettiva è , invece, altra parte della letteratura, che sostiene e
supporta l’assoluta indipendenza dell’etica dalla cultura del contesto.
La delineata contrapposizione teorica
14
si connette alla diversa impostazione
disciplinare di universalisti
15
e particolaristi, sostenitori, rispettivamente,
14
Trompenaars afferma che la propensione all’universalismo o al relativismo è essa stessa
funzione della cultura d’appartenenza: l’interesse verso principi universali all’interno della
Business ethics è culturalmente dipendente perché solo le culture universaliste riconoscono il
valore dei principi etici universali. Fonte: Robertson (2002).
15
Concretizzando il discorso, alcuni autori (Carroll e Gannon, 1997) sostengono la realizzabilità di
codici etici aziendali uniformi, mentre altri (Desai e Rittenburg, 1997) la negano. Fonte:
Robertson (2002).
11
dell’esistenza di principi etici universalmente validi
16
e dell’impossibilità di
definire regole astratte valide in qualsiasi contesto l’impresa operi, senza
considerare i credi ed i valori in esso radicati (Robertson, 2002).
Alla dicotomia universalismo-relativismo se ne affiancano altre e,
nell’insieme, queste rappresentano i “quesiti di fondo”, denominati dilemmi etici,
dalle cui soluzioni scaturiscono i vari orientamenti del pensiero etico
contemporaneo (Rusconi, 1997). Si dibatte, in particolare, sul carattere razionale
o meno dell’agire umano: secondo i non-cognitivisti, gli emotivisti ed i neo-
empiristi, il comportamento dell’uomo è impulsivo, mentre altri ne sostengono la
piena logicità. Costoro spianano la strada ad un altro dilemma: quello relativo al
fondamento soggettivo od oggettivo dell’etica. Nel primo caso si avallerebbe il
relativismo, individuale e culturale, mentre nel secondo caso sembra configurarsi
l’ipotesi, sostenuta dagli assolutisti, dell’esistenza di principi universalmente
validi al di là dei condizionamenti “locali”. Da tale prospettiva si dischiude un
altro dubbio: l’etica contenutistica ha matrice utilitaristica o deontologica
17
? La
prima porta a ritenere equo ogni atto che innalza il benessere sociale complessivo
della collettività, anche a scapito dell’interesse di un singolo
18
, mentre la seconda
confida in una coscienza morale che detta doveri assoluti, che prescindono dalle
16
Donaldson critica l’”etica del consenso”, sostenendo che la legittimazione di un comportamento
all’interno di un contesto circoscritto non necessariamente ne garantisce l’eticità. Donaldson e
Dunfee, nel proporre la teoria integrativa del contratto sociale (ISCT), dichiarano l’esistenza di
ipernorme, la cui funzione consiste nel limitare il libero spazio morale: le ipernorme sono dotate
della forza necessaria per prevalere sulle pratiche operative, in modo tale da stabilire cosa è etico
in situazioni configgenti. Fonte: Robertson (2002).
17
Tale divisione del linguaggio etico in due ambiti approssimativi, ossia il conseguenzialismo e la
deontologia, è stata proposta da Donaldson. Fonte: Rusconi (1997).
18
Questa posizione filosofica è anche chiamata “utilitarismo dell’atto” in quanto sottopone a
giudizio etico ogni singola azione e non principi generali (Rusconi, 1997).
12
conseguenze (dai risultati) di un dato comportamento
19
. L’utilitarista (Smith,
1776; Bentham, 1789; Kaldor e Hicks, 1939; Rawls, 1971; Nozick, 1974)
20
confronta il piacere per molti con il disagio dei pochi, trovandosi a dover risolvere
il problema del confronto tra i vantaggi di una parte con gli svantaggi dell’altra. Il
deontologo, valutando in primis se nella controversia si violino i diritti di
qualcuno, affronta il problema opposto, ovvero quello di estendere oltremodo il
concetto di diritto fondamentale. La contrapposizione di vedute potrebbe
agevolmente trovare una composizione nella soluzione “compromissoria” della
definizione di una gerarchia di diritti (Rusconi, 1997): la distanza tra
conseguenzialismo e deontologia potrebbe essere ridotta dalla concertazione di
una scala di priorità tra i vari diritti umani. Sarebbe, quindi, opportuno identificare
in modo puntuale i diritti umani fondamentali
21
, essenziali ed irrinunciabili, al fine
di disporre un meccanismo idoneo alla loro tutela giuridica di fronte ad ogni
azione utilitaristica strettamente lesiva degli stessi.
19
La dicotomia essenziale è , a ben vedere, sempre quella tra chi attribuisce alla norma un valore
relativo, dando il primato alla massimizzazione dell’utilità e chi guarda al valore assoluto del
rispetto di una regola (Rusconi, 1997).
20
Detti autori hanno formulato quelle che Cosciani (2003a) ha descritto come le “teorie della
giustizia distributiva”.
21
Tale analisi deve poter riscontrare consenso in ogni contesto culturale, dunque non può essere
condotta su base teologica: il problema non risiede, pertanto, nella costruzione del modello, ma
nella definizione dei principi specifici cui ispirarsi (Rusconi, 1997). A tal riguardo, la maggior
parte della letteratura disponibile sull’argomento sembra concorde nell’identificare come principi
etici universali i valori sanciti dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata nel
1948 dall’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
13
1.1.1. CSR e regolamentazione: l’assenza di un quadro giuridico di riferi-
mento
Volendo conferire una tipizzazione al discorso sulla responsabilità sociale
d’impresa, al fine di enuclearne anche i contenuti, è opportuno riconoscerle natura
di dibattito, più che di concetto univocamente ed universalmente definito.
Allo stato attuale, non esiste organismo, nazionale o sopranazionale, giuridico
come economico, dotato dell’habitus giuridico e della competenza necessaria per
conferire alla CSR una valenza istituzionale; ciò perché il tradizionale dibattito tra
Stato e mercato, da tempo, nel mondo occidentale, si è risolto in favore del
secondo.
“Si deve tuttavia constatare che, proprio in concomitanza con la crisi
economica internazionale degli anni Novanta, si è ritornati con maggiore
insistenza a discutere di forme più efficaci di controllo dell’economia, che
consentano di far permanere, accanto a forme di sviluppo spontanee (….), forme
di sviluppo programmabili nell’ottica di un migliore equilibrio socio-economico
generale” (Sciarelli, 1999b; p. 27). Interlocutori di detto discorso sono, da una
parte, le imprese
22
e, dall’altra, le istituzioni
23
.
22
Le imprese sovente manifestano il proprio impegno programmatico attraverso la redazione di
codici etici, da esse ritenuti preferibili ad un intervento regolatore esterno (Browne et al, 2000).
Brinkmann ed Ims (2003) evidenziano come i codici etici aziendali possano, in concreto, assolvere
a diverse funzioni, dunque non necessariamente rispondere all’obiettivo di preservare l’impresa
dal compimento di azioni non etiche. Nell’opinione degli autori, il funzionalismo adombra, anche
solo implicitamente, l’utilitarismo e ciò conduce loro a rilevare lo scarso contenuto etico dei codici
in generale. Tale atteggiamento scettico sulla sincerità dei codici e delle sottostanti intenzioni
aziendali è manifestato anche da Welford (2002), il quale, considerando la moderna diffusione del
fenomeno dell’out sourcing, contesta la validità operativa di uno strumento, che, essendo interno
ad una singola azienda, non ha la forza di monitorare l’intera catena produttiva, composta da
diverse imprese appaltatrici autonome, per le quali l’appaltante non risulta responsabile.
14
Le prime hanno recentemente cominciato su libera iniziativa a promuovere
strategie di responsabilità sociale, in risposta ad una serie di pressioni sociali,
ambientali ed economiche, al duplice scopo di inviare uno specifico segnale agli
stakeholders e di dare spazio a tutta la gamma di finalità imprenditoriali, che
culminano nel raggiungimento del cosiddetto “successo sociale”, ricordando, al
riguardo, la visione dell’impresa quale “istituzione sociale a finalità plurime”
(Carroll, 1993)
24
.
Le seconde annoverano organismi religiosi
25
, gruppi di opinione
(ambientalisti e consumatori), associazioni sindacali, correnti politiche ed ONG
26
.
Doig e Wilson (1998) sottolineano come i codici di condotta, per avere validità effettiva, devono
essere parte di un più vasto processo di apprendimento, che includa sensibilizzazione,
approfondimento, rafforzamento dei valori e strumenti di misurazione.
23
In letteratura (Caroli, 2000) sono state individuate tre “vie” verso la responsabilità sociale: una
prima “volontaria”, percorsa spontaneamente dall’impresa in modo discrezionale, una
seconda”imposta” dalla legge, cui l’azienda è obbligata ad aderire ed una terza, risiedente nei
“codici di comportamento” stabiliti dagli organismi internazionali a cui l’impresa, pur non
essendo vincolata ex lege, è invitata ad uniformarsi. La triplice valenza di detti codici è
individuata da Caroli nel:
• determinare un quadro di riferimento omogeneo per tutti i concorrenti sul mercato
internazionale,
• costituire una forza di moral persuasion che spinge le imprese a cercare di uniformare i
propri comportamenti agli standard voluti,
• rappresentare un trait d’union tra la volontà politica e sociale della regolamentazione
imprenditoriale e l’effettiva traduzione di detta aspirazione in legge.
24
Citato in Sciarelli (1996).
25
Si ricorda l’enciclica papale “Centesimus annus”, attraverso la quale Papa Giovanni Paolo II,
pur riconoscendo il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato e della proprietà
privata, ha negato la preferibilità di un sistema di produzione, nel quale la libertà economica non
sia inquadrata in un solido contesto giuridico, che la metta al servizio della più estesa libertà
umana ed il cui centro non sia etico. Fonte: Sciarelli (1999b).
26
Acronimo per Organizzazioni Non Governative.
15
Sono proprio quest’ultime due istituzioni ad avere contribuito in modo
rilevante, nell’ultimo decennio, a richiamare l’attenzione in merito alla necessità
di ricercare modelli capitalistici di funzionamento socialmente più giusti, stante la
precarietà degli equilibri politici internazionali, causata dalla permanenza di
situazioni di eccessiva sperequazione tra classi sociali e tra Paesi ricchi e poveri.
Su tale substrato poggiano una serie di interventi in ambito europeo:
dall’appello del 1993 del Presidente Delors, che si sostanzia in un invito alle
imprese a lottare contro l’esclusione sociale, alla Carta dei diritti fondamentali
dell’U.E., adottata dal Consiglio di Nizza nel dicembre 2000, dalla sfida alla
realizzazione di “un’ economia della conoscenza competitiva e dinamica”,
lanciata dal Consiglio di Lisbona nel 2000, alla strategia di sviluppo sostenibile,
promossa nel giugno 2001 dal Consiglio a Goteborg, per poi culminare nella
redazione del Libro Verde, presentato dalla Commissione a Bruxelles il 18 Luglio
2001.
L’approccio europeo costituisce parte integrante del più ampio quadro
determinato dalle iniziative intraprese dalle organizzazioni internazionali, quali le
Linee Guida per le imprese multinazionali
27
, la Dichiarazione tripartita di principi
sulle imprese multinazionali e la politica sociale
28
, il Codice sulla restrizione delle
27
Fonte: OCSE, 1976.
28
Fonte: OIL, 1977.
16
pratiche economiche
29
, il Global Compact
30
ed i Principi direttivi destinati
alle imprese multinazionali
31
. Detta attività istituzionale è non-binding (non
vincolante), vuole assolvere ad una funzione di guida e si sostanzia in un insieme
di raccomandazioni rivolte alle imprese. La sua importanza risiede nell’invito
diretto alle imprese, affinché le stesse prendano coscienza della rilevanza del loro
ruolo all’interno dell’economia e focalizzino le responsabilità che ne conseguono,
iniziando a considerarle come componenti della propria identità
32
.
29
Fonte: ONU, 1980.
30
Il Global compact, ad esempio, sprona le imprese a :
1) sostenere e rispettare i diritti umani, nell’ambito delle rispettive sfere di influenza;
2) assicurarsi di non essere, seppur indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani;
3) garantire libertà di associazione dei lavoratori e riconoscere il diritto alla contrattazione
collettiva,
4) assicurarsi di non impiegare lavoro forzato ed obbligatorio,
5) astenersi dall’impiegare lavoro minorile,
6) eliminare ogni forma di discriminazione nelle loro politiche di assunzione e
licenziamento,
7) avere un approccio preventivo rispetto alle sfide ambientali,
8) promuovere iniziative per una maggiore responsabilità ambientale
9) incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che non danneggino l’ambiente.
Ciò significa che le aziende dovrebbero produrre cambiamenti positivi non solo nelle aree
strettamente rilevanti per il proprio business. Presupposto per tali innovazioni è che le imprese ne
riconoscano la necessarietà, scaturente da una diversa, e più evoluta, considerazione della
responsabilità sociale, che non dovrebbe più essere vista come un costo, bensì alla stregua di un
investimento, che presenta ritorni diretti ed indiretti. Fonte: ONU, 1999.
31
Fonte: OCSE, 2000.
32
Burke e Logsdon (1996) ritengono che, per accompagnare l’attività di sensibilizzazione
promossa a livello soprannazionale, sarebbe opportuno disporre di una migliore conoscenza
dell’impatto della CSR sulle prestazioni economiche dell’azienda. Della medesima opinione è
anche Spence (1999), il quale sostiene che analisi quali-quantitative del fenomeno in questione
avrebbero indubbie ripercussioni in termini di persuasività nei confronti delle imprese. In
letteratura è, infatti, già consolidata la consapevolezza che condizioni di sviluppo equilibrato
rispondono anche allo specifico interesse di ogni impresa: quando la presenza di un gruppo
transnazionale in un determinato Paese agisce come fattore di disarmonia, il sistema locale può
entrare in crisi e reagire contro i fattori che sono causa dello squilibrio. In questa prospettiva, il
principio di equilibrio, sebbene sia di matrice etica, trova una corrispondenza con l’obiettivo
prettamente economico di massimizzazione del valore d’impresa, perseguibile, nel lungo termine,
solo avendo cura di non ridurre le opportunità di sviluppo delle zone più deboli e, quindi, di non
accentuare gli squilibri tra le aree geografiche dove hanno sede gli stabilimenti produttivi ed i
mercati di approvvigionamento-vendita dell’impresa internazionalizzata. Bisognerebbe evitare che
l’integrazione economica internazionale contribuisse alla disintegrazione sociale nazionale e
rendere la globalizzazione compatibile con la stabilità sociale e politica a livello locale, altrimenti