5
Introduzione
Il progressivo processo di “europeizzazione” del diritto ha assunto, oggi,
una capacità espansiva tale da abbracciare inesorabilmente ed inevitabilmente
anche le maglie della materia penale, da sempre considerata saldamente
legata a doppio filo al solo dialogo democratico interno. Nel concetto
sopradetto confluiscono tanto il diritto dell’Unione Europea, che con Lisbona
ha lasciato cadere anche l’ultimo tabù terminologico inserendo un esplicito
riferimento alle “pene” e ai “reati” nei Trattati istitutivi dell’Unione (artt. 83
e 86 TFUE), quanto il sistema convenzionale nato dal Consiglio d’Europa, la
cui Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) ha svelato
ormai, nell’ultimo decennio, tutte le sue potenzialità di incidenza
nell’ordinamento interno.
Il dialogo sempre più incessante che si è venuto a creare, specie tra Corti e
Carte dei diritti, in forza di questa caratura “europea” del diritto penale, ha
fornito l’humus favorevole all’accendersi di ampi dibattiti in dottrina circa
l’opportunità di una maggiore coesione del nostro sistema con tutte quelle
istanze garantistiche extranazionali, le quali permetterebbero, a detta di
alcuni, sia di innalzare la tutela dei diritti individuali sia di definire standard
minimi inviolabili che prescindano dalle tutele concesse nel singolo contesto
interno. E’ in queste coordinate che si inserisce il punto focale della nostra
ricerca, ovvero la discussione sul valore del precedente in materia penale,
aperta nella comunità dei penalisti soprattutto grazie alle ricerche e agli studi
del lungimirante Alberto Cadoppi risalenti alla fine del secolo scorso. La più
ampia prospettiva della legalità convenzionale che verrà analizzata al
Capitolo I dell’elaborato e, in particolar modo, la celebre vicenda del caso
Contrada (definita da Massimo Donini come «la prima vera “messa in mora”
del sistema giuridico italiano rispetto all’irresponsabilità dell’interprete in
6
materia penale») hanno permesso il diffondersi di un dibattito relativo al fin
troppo trascurato tema del diritto penale giurisprudenziale o, in altre parole,
della law in action.
Il nullum crimen sine lege di matrice illuministica riletto alla luce della
giurisprudenza di Strasburgo non può più rimanere insofferente di fronte a
tutte quelle situazioni di incertezza interpretativa (e applicativa) di una norma
penale che, specie in un contesto caotico come quello italiano, finiscono per
inficiare tanto la “conoscibilità” del precetto quanto la “calcolabilità”
dell’esito giudiziario: due obiettivi che il principio in esame vorrebbe, al
contrario, salvaguardare.
La certezza delle situazioni giuridiche, specialmente in una materia
sensibile come il diritto penale, è un ingrediente imprescindibile che non può
mancare in uno Stato di diritto e che porta inevitabilmente la dottrina
penalistica ad avere un occhio di riguardo per quella famiglia giuridica con
cui da sempre conviviamo nello spazio europeo. Il modello di common law,
infatti, analizzato infra nel Capitolo II, sembra oggi più che mai un
indiscutibile punto di riferimento per i sistemi di stampo romanistico che, in
forza del richiamo alla “responsabilità ermeneutica” lanciato dalla Corte
EDU, si stanno interessando sempre più alle istanze garantistiche offerte dal
sistema del binding precedent. Invero, l’attribuzione da parte della Corte di
Strasburgo del ruolo di fonte al diritto giurisprudenziale spinge
inesorabilmente il diritto penale continentale verso il case law anglosassone,
per assimilarne gli istituti e la «cultura del precedente», i soli capaci di
“svecchiare” il nostro ordinamento dalle formule rigide della legalità classica,
troppo fiduciosa dell’astratta previsione legislativa e poco interessata invece
al momento applicativo della norma di legge.
La presente riflessione muove, quindi, dalla convinzione che non sia più
sufficiente (come lo era per Montesquieu e per Beccaria) l’astratta previsione
legale del “tipo” per assicurare un esito processuale del tutto precedibile e
certo, ma che, come sostenuto chiaramente dai giudici di Strasburgo, sia di
7
fondamentale importanza garantire l’«accessibility» e la «predictability» del
precetto, con una serie di meccanismi interni capaci di rendere certo,
uniforme e conoscibile il «diritto vivente» instauratosi intorno alla norma di
legge: i due diritti del resto (della legge e del giudice) non sono che le facce
della medesima medaglia posto che, per usare le parole di Gustavo
Zagrebelsky, «un giudice senza diritto non sarebbe un giudice, così come un
diritto senza giudice non sarebbe diritto».
Lo spostamento dalla prospettiva in the books ad una dimensione in action
della legalità penale ci ha portato quindi, nel capitolo III, ad affrontare le
patologie che da troppo tempo indeboliscono il nostro assetto ordinamentale,
basti in questa sede citare la confusione legislativa della legislazione penale
licenziata negli ultimi anni, l’esorbitante numero di ricorsi decisi annualmente
dalla Corte di Cassazione, nonché l’anarchia delle interpretazioni dei giudici
comuni troppo spesso “creativi” di fattispecie penali: tutte concause che non
permettono al cittadino di prevedere in anticipo le conseguenze giuridiche dei
propri comportamenti. Rendere effettiva la legalià penale significa prima di
tutto ristabilire la funzione di orientamento, di composizione e di
stabilizzazione della giurisprudenza, compito affidato dall’art. 65
dell’Ordinamento giudiziario alla nostra Corte di Cassazione. Un tale
obiettivo esige, a sua volta, oltre a profonde riforme a livello ordinario, anche
profondi cambiamenti “di sistema”, di tipo costituzionale, istituzionale,
organizzativo e soprattutto culturale, capaci di ripristinare l’annichilita
funzione nomofilattica della Corte, le cui (troppe) decisioni sono spesso
lasciate in balia del “buon senso” dei giudici comuni nonché diffuse per il
tramite di «massime mutilate» completamente inidonee ad assurgere il ruolo
di “precedente”, nel senso anglosassone del termine, che molto spesso si
vuole assegnare loro.
Nell’ottica di ristabilire il potere-dovere nomofilattico della Corte si è
mossa recentemente la l. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. “Riforma Orlando”)
8
che ha provato ad instillare nel processo penale alcune riforme conosciute dai
processualcivilisti già da una decina d’anni.
Le riforme ai codici di procedura civile e penale, insieme ad alcune proposte
(futuribili ed auspicabili) de lege ferenda, verranno analizzate in chiusura
dell’elaborato, nella speranza che possano contribuire a risanare la legalità
penale troppo spesso tradita dalla law in action italiana.
La presente ricerca, mi preme sottolinearlo, si giova del contributo e
dall’apporto di un periodo di studi effettuato alla Napier University di
Edimburgo che mi ha consentito, grazie anche ad alcuni seminari in criminal
law seguiti dal professor Duncan A. Spiers e dalla stimolante conferenza dal
titolo “The law, democracy and fundamental rights” tenuta in facoltà da
James Wolffe, attualmente Lord Advocate della Scozia, di conoscere più da
vicino gli affascinanti modelli giuridici d’oltremanica, dotandomi parimenti
di un “bagaglio culturale” idoneo ad affrontare la vasta tematica del
precedente giudiziale.
Hanno infine arricchito ed integrato il presente lavoro le interessanti
osservazioni e riflessioni scaturite da un doppio ordine di colloqui che ho
avuto la fortuna di sostenere a Roma nella fase finale di stesura dello scritto:
mi riferisco agli entusiasmanti incontri con il Professor Sabino Cassese e con
il Consigliere Giorgio Fidelbo, per le cui autorevoli parole rimando
all’appendice dell’elaborato.
Senza presunzione di completezza, abbiamo svolto lo studio e la trattazione
del tema ben consapevoli della “spaccatura” interna alla dottrina penalistica
(e non solo) circa l’opportunità di dotare o meno di vincolatività il precedente
giudiziale nel nostro ordinamento di civil law. Siamo tuttavia speranzosi che
le tematiche trattate ed i dati riportati, lungi dall’essere esaustivi o
inconfutabili, possano aver contribuito costruttivamente al dibattito sul tema,
nonché fornito al lettore qualche spunto utile per l’approfondimento di tale
affascinante argomento.
9
CAPITOLO I
Evoluzione storica del principio di legalità penale e sua rilettura
alla luce della giurisprudenza di Strasburgo
SOMMARIO: 1. Nullum crimen sine lege: principio cardine del diritto penale.
Dall’illuminismo giuridico alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. 1.1 (Segue)
tassatività e il divieto di interpretazione analogica. 1.2 (Segue) irretroattività della norma
penale. 1.3 (Segue) riserva di legge. 2. La legalità convenzionale alla luce della
giurisprudenza della Corte EDU tra «accessibility» e «predictability». 3. L’irretroattività del
revirement contra reum secondo la Corte europea. Uno sguardo al caso Contrada. 4.
Riflessioni conclusive.
1. Nullum crimen sine lege: principio cardine del diritto penale.
Dall’Illuminismo giuridico alla Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo.
Il terreno su cui il diritto penale moderno affonda le sue radici politico-
culturali è senza ombra di dubbio l’Illuminismo giuridico del 1700
1
.
Durante tale periodo si assistette ad una vera e propria rottura con il passato,
una svolta storica rispetto alla penalistica dell’ancien Règime che ha dato il
via ad una «razionalizzazione» ed «umanizzazione» di tale branca del diritto,
la quale è divenuta capace, solo da allora, di conciliare l’efficienza repressiva
alla garanzia dei diritti individuali.
Durante la monarchia assoluta dei Valois e dei Borbone, nella Francia
prerivoluzionaria, il diritto penale era connotato, infatti, da elementi ambigui
1
Cfr., fra i tanti, G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, VII ed.,
Bologna, 2014, p. XIII; MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, VI ed., Padova, 2009,
p. 4.
10
e confusi, inidonei a garantire quelle garanzie minime a cui oggi parrebbe
impossibile rinunciare.
Da una parte l’ambito dei fatti punibili era reso incerto dall’assenza di un
codice scritto (perlomeno concepito in senso moderno) e, dall’altra, si
assistiva a frequenti interferenze del potere esecutivo all’interno di quello
giudiziario (si pensi alle famose lettres de cachet con la quale il sovrano
poteva infliggere direttamente la pena al suddito).
Se a questo si aggiunge la giustizia penale concepita come il braccio
secolare della religione e del potere ecclesiastico (tanto da rendere quasi
superflua la distinzione tra «crimine» e «peccato»
2
), la spettacolarizzazione
delle sanzioni punitive (il c.d. «splendore dei supplizi»
3
per dirla con le parole
di Foucault, si pensi alla condanna a morte per squartamento) nonchè
l’eccessiva segretezza e barbaricità che caratterizzava i processi penali del
tempo, ecco che risulta chiara e perfettamente condivisibile la
stigmatizzazione del trattatista francese Faustin Helie:
«la legislazione (…), armata di strumenti di inaudita severità, non
aveva neppure l'idea di un diritto di difesa e dell'equità di proporzione
tra delitti e pene. Essa trattava l'accusato come un nemico, […] lo
colpiva già prima che venisse condannato. Il suo unico principio era la
pubblica vendetta, il suo scopo unico l’intimidazione»
4
.
A rompere con questo passato, come si diceva, fu la corrente illuminista del
‘700 che iniziò a instaurare un processo di modernizzazione del diritto penale,
proseguendo sulla scia di secolarizzazione e laicizzazione dello Stato
2
In virtù di questa “concezione sacrale del diritto penale” (così la definisce G. Fiandaca)
non stupisce se, a quei tempi, assurgevano a crimini gravi le offese rivolte alla divinità (come
la bestemmia) o le pratiche alternative alla morale sessuale della maggioranza (la sodomia,
l’adulterio, ecc.). Cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. XIII.
3
M. FOUCAULT, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Gallimard, 1976, Parte Prima,
pp. 5 e ss.
4
F. HELIE, Introduction au Traité des délits et des peines, Parigi, 1870, IX.
11
introdotta già nel corso del ‘600 dalle teorie rivoluzionarie di Grozio,
Putendorf e Locke (c.d. “giusnaturalismo laico”)
5
.
Ad operare come «politici del diritto», più che come giuristi in senso
tecnico, furono pensatori appartenenti a Paesi e culture diverse: da Bentham
in Inghilterra a Montesquieu e Voltaire in Francia, da Feuerbach in Germania
fino a Beccaria e Filangieri in Italia.
La comune premessa di partenza fu quella di voler rendere il diritto penale
non più uno strumento di terrore per reprimere il dissenso, ma un mezzo utile,
capace in un unico tempo di prevenire i reati, combattere l’arbitrio dei poteri
dello Stato, rendere le pene proporzionate ai delitti nonchè proteggere i diritti
individuali di ogni essere umano.
Non a caso le riflessioni illuministe affondano le proprie radici nel
«contrattualismo», il modello teorico del liberalismo classico secondo cui le
istituzioni statali traggono la loro legittimazione da un «contratto» stipulato
dai cittadini e, per questo, sono tenute al rispetto delle sue “clausole” (la
salvaguardia dei diritti in esso sanciti, cioè i diritti innati dell’uomo,
precedenti ad ogni istituzione positiva).
In questi anni cominciano, così, ad affermarsi alcuni dei principi cardine del
diritto penale moderno: a titolo di esempio si ricorda la mitigazione delle
pene, il loro attributo di necessarietà (extrema ratio) e la loro funzione di
deterrenza, il parametro di proporzionalità tra delitto e sanzione, l’opportunità
di una dettagliata tipizzazione dei reati o, ancora, il criterio del «danno
sociale» come discrimen tra fatti penalmente rilevanti e non (con conseguente
perdita di valore della religione e della morale).
5
Ugo Grozio fu uno dei primi a teorizzare la necessità di separare il diritto dalla morale e di
bandire quella commistione tra delitto e peccato che aveva tanto caratterizzato l’ancien
Regime. Si veda in proposito S. MOCCIA, Carpzov e Grozio. Dalla concezione teocratica
alla concezione laica del diritto penale, Ed. Scientifica, Napoli, 1979, passim.
12
Com’è noto, ad essere considerato una sorta di «manifesto»
dell’Illuminismo giuridico è stato la celebre opera “Dei delitti e delle pene”
di Cesare Beccaria, fonte di ispirazione per molti sovrani del tempo
6
.
Ma quello che qui preme maggiormente puntualizzare è la formulazione, in
piena collisione con il passato, del c.d. “principio di legalità”, secondo il quale
nessun potere dello Stato può sfuggire al comando della legge, conseguenza
per la quale il «governo delle leggi» è l’unica medicina possibile contro ogni
arbitraria ingerenza del potere statale.
Tale principio caratterizza oggi, in particolare, il diritto penale così
peculiarmente da essere considerato decisamente irrinunciabile non solo dalla
maggior parte dei codici e delle Costituzioni nazionali, ma anche delle
Dichiarazioni moderne e dai Trattati internazionali.
La necessità di un sistema legalitario di organizzazione del potere (di una
Rule of law e non più di un governo degli uomini), in realtà, è stata avvertita
in modo chiaro sin dai tempi della Magna Carta libertatum di Re Giovanni
d’Inghilterra (1215), la quale si poneva in piena antitesi rispetto alla struttura
ordinamentale medievale di tipo verticale, basata sulla figura di un sovrano
scelto da Dio con illimitati e illimitabili poteri
7
.
Tuttavia, come si diceva, una compiuta formulazione del principio di
legalità è avvenuta solamente sul finire del XVIII secolo.
Sullo spunto offerto dalle teorie contrattualistiche di Locke (e più avanti di
Rousseau), ispirate dalla necessità di predisporre, da un lato, strumenti idonei
a limitare lo strapotere regio e, dall’altro, garanzie giuridiche per la libertà dei
singoli, il principio di legalità viene enunciato come corollario della c.d. teoria
6
Caterina II di Russia, Giuseppe II imperatore d’Austria e Pietro Leopoldo granduca di
Toscana decisero di assumere i principi illuministi come criteri-guida per le proprie riforme
legislative penali.
7
Tuttavia, come segnalato in G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale,
cit., p. 47 nt. 1, il «nucleo duro» del principio non sarà mai sostanzialmente definito prima
dell’illuminismo giuridico. E’ bene ricordare, tuttavia, che un ideale simile non era
sconosciuto neppure in età classica, tant’è che l’origine prima del principio viene solitamente
fatta risalire alla celebre contrapposizione platonico-aristotelica fra «governo delle leggi» e
«governo degli uomini».
13
della separazione dei poteri nell’opera “Lo spirito delle Leggi” di
Montesquieu (1748).
Per il filosofo francese la separazione dei poteri si doveva tradurre nella
totale supremazia della legge sul potere esecutivo e su quello giudiziario.
Ma è in criminalibus che il principio assumerà la sua massima portata
garantista, traducibile nell’antico brocardo latino paradigmatico tanto del
positivismo giuridico quanto del garantismo penale: nullum crimen, nulla
poena, sine lege. Questa massima, riportata alla luce dal criminalista tedesco
Feuerbach
8
, raccorda la previa conoscibilità della pena alla sua funzione
generalpreventiva: il giurista di Hainichen ritiene, infatti, che l’effetto di
deterrenza sui consociati si ottenga solamente se la minaccia legale preesiste
alla commissione dei fatti ed è agevolmente conoscibile.
Le esigenze di razionalizzazione del pensiero illuminista diedero vita,
dunque, ad una visione fortemente liberale del diritto penale, che doveva
basarsi sulla possibilità per il cittadino di prevedere anticipatamente e tramite
una lex scripta certa, espressiva della volontà popolare, appositamente
promulgata e pubblicata, ogni fatto costituente reato.
Veniva posta totale e cieca fiducia nella legge, vista come strumento ex se
sufficiente a garantire la prevedibilità della decisione giudiziaria e, di
conseguenza, la certezza del diritto.
Lo stesso Cesare Beccaria nel 1764 scriveva che solamente «un codice fisso
di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra
incombenza che di esaminare le azioni de’ cittadini e giudicarle conformi o
difformi alla legge scritta»
9
.
Il codice penale diviene, quindi, nella mentalità degli illuministi, esigenza
irrununciabile per sfuggire all’arbitrarietà dei poteri dello Stato («allora i
8
La sua traduzione in termini giuridico-penali è dovuta, infatti, al giurista tedesco Paul
Johann Anselm Ritter von Feuerbach. Cfr. P. FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinen in
Deutschland gültigen peinlichen Rechts, Heyer, Giessen, 1847, pp. 14 e ss.
9
C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, a cura di Renato Fabietti, Mursia, Milano, 1973,
pp. 13 e ss.
14
sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti»
10
) e, di conseguenza,
per ottenere la massima certezza del diritto («perché non v’ha dubbio che
l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni»
11
).
Sotteso principalmente alla logica della separazione dei poteri, il principio
di legalità assumeva però una sfumatura non poco stridente alle orecchie del
giurista contemporaneo. Il giudice altro non è, per il Nostro, come già lo era
per Montesquieu, una mera «bouche de la loi»
12
, un burocrate che deve
limitarsi ad applicare la legge perché «nemmeno l’autorità di interpretare le
leggi penali può risiedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che
non sono legislatori»
13
.
Ma, al di là di questa visione estremista del giudice automa, quello che conta
è che il principio di legalità, specialmente nel diritto penale, comincia a
modellarsi nella mente dei giuristi e che, lentamente, prende vita una visione
di legge intesa come strumento necessario al perseguimento, in primis, di
quella certezza del diritto che è, a sua volta, presupposto della tranquillità e
della sicurezza dei consociati
14
.
Il cittadino deve poter sapere in anticipo quali sono le leggi che reggono le
sue azioni e quali i criteri che distinguono il lecito dall’illecito («la norma del
giusto e dell’ingiusto»
15
), poiché sarebbe intollerabile una diminuizione della
libertà di chiunque, se questi, al momento dell’azione, non avesse potuto
prevedere la reazione dello Stato.
In altre parole, non è punibile l’azione, sia pur socialmente pericolosa, che
non sia inquadrabile in un espresso «tipo» legale predeterminato a valle dal
10
Ibid.
11
Ibid.
12
C.L. MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, XI, 1748, 6.
13
C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, cit., p. 12.
14
Secondo il Nostro, i cittadini cederebbero una porzione della loro libertà in virtù di un
«contratto sociale» per ottenere quella protezione che solamente lo Stato, con un fisso codice
di leggi, può garantire loro. E’ chiara, qui, la forte influenza della “teoria contrattualistica”
rousseauviana.
15
C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, cit., p. 13.