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INTRODUZIONE
Dal dicembre 2010 sono iniziate, partendo dalla Tunisia, una serie di
manifestazioni di piazza contro i governi centrali di tutti gli Stati che si
affacciano sul Mar Mediterraneo. Via via queste proteste popolari si sono diffuse
a macchia d’olio anche nei Paesi limitrofi a questi, dando luogo così a delle vere
e proprie rivolte armate cittadine, che hanno coinvolto tutto il mondo arabo. I
protagonisti principali della cosiddetta Primavera araba sono stati soprattutto
migliaia di cittadini, oramai stanchi di una politica corrotta e troppo distaccata
dai problemi reali di questi Paesi, e le nuove generazioni, ovvero i giovani.
Grazie all’aiuto fornito loro dalla tecnologia, in particolare Internet e i vari social
network (Facebook, Internet, Google +), questi nuovi protagonisti delle rivolte
urbane hanno potuto informare il mondo degli eventi che stavano accadendo e
denunciare tutti i soprusi subiti dalle forze armate militari delle istituzioni
governative. Il successo della cacciata e della vittoria della guerriglia contro il
colonnello Muammar Gheddafi in Libia, lo si deve non solo al coraggio di
scendere in piazza a volto scoperto di migliaia di giovani speranzosi di ottenere
più diritti e meno povertà, ma anzitutto alle operazioni militari condotte dalla
NATO, ove si sono distinti maggiormente i commilitoni militari e i caccia
bombardieri francesi e statunitensi. Sembra quasi assurdo pensare che fino al
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giorno precedente dell’inizio delle ondate di rivolte popolari contro le proprie
classi di governo e i propri rais, la situazione apparisse calma e tranquilla, tanto
che nessun analista e nessun storico aveva previsto nulla di quanto è accaduto,
specie un evento di una così grande portata, sia in termini di risultati effettivi che
di diffusione territoriale. La Primavera araba nel bene o nel male è stata una vera
rivoluzione, mai avvenuta prima nel mondo arabo. La religione, come si può
capire, ha giocato un ruolo fondamentale in questa circostanza, specie perché è
stata incarnata da alcuni gruppi di fondamentalisti come vessillo per la cacciata
dei rais e dell’affermazione di valori democratici e laici, chiesti a gran voce dalla
popolazione araba. Per capire quello che si cela dietro questo incredibile
avvenimento, si deve spiegare tutto il contorno sul quale si basano e fanno
riferimento, non casuale, gli eventi accaduti durante il corso delle rivolte arabe.
Queste delucidazioni mi hanno spinto a dividere il mio elaborato scritto, o meglio
la mia tesi di laurea, principalmente in tre capitoli, suddivisi a loro volta in
sottocapitoli. Il primo capitolo tratta il tema della democrazia, esplicita il vero
significato di questa, propone le diverse concezioni, sviluppatesi nel tempo da
parte di diversi pensatori liberali, ed infine viene analizzata la relazione che vede
implicata la democrazia, in particolare quella affermatasi nei paesi del mondo
occidentale, con il pensiero vigente nel mondo arabo, che vede come riferimento
primario la religione propinata dal testo sacro del Corano, ovvero l’Islam. Il
secondo capitolo, invece, è incentrato sull'identità culturale dell’Islam e il
conseguente scontro di civiltà, che si viene a creare quando realtà, o meglio in
questo caso potremmo dire anche civiltà ed identità diverse, si scontrano,
prendendo come auctoritas gli studi dell’illustre politologo statunitense Samuel
P. Huntington. Inoltre, cercherò di spiegare che cos'è, come si sviluppa e su cosa
si basa concretamente il Credo islamico, analizzando in particolare la cultura
politica che riesce ad instaurare nella società civile ove è presente. In più, tratterò
con attenzione le richieste provenienti dalla riforma islamica, che afferma il
dovere di imporre la legge coranica come legge di stato in tutti gli stati islamici
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(con riferimento all’ambigua realtà dello Stato turco, che si trova ad essere un
Paese ponte tra la democrazia occidentale e il fondamentalismo di matrice
islamica). L’ultimo capitolo, il terzo, affronterà tutta la recente questione delle
rivolte della Primavera araba, la relativa complessità odierna, il caso della guerra
civile che sta logorando la Siria della famiglia Al-Assad, le prime elezioni
democratiche avvenute in Tunisia e in Egitto, dopo la cacciata dei rispettivi rais,
Ben Ali e Mubarak, ed infine la caduta e la perdita di potere in Libia di Gheddafi,
grazie soprattutto al sostegno offerto dai paesi occidentali, che sicuramente non
sono intervenuti in questo Paese solo per scopi benefici ed umanitari, ma anche
per controllare direttamente il mercato ed il commercio dei pozzi petroliferi.
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CAPITOLO 1
DEMOCRAZIA E ISLAM
1. 1 Il significato di democrazia
Prima di iniziare ad inoltrarsi nella lettura di questo elaborato è necessario fin da
subito definire e precisare il significato dei termini democrazia e
democratizzazione, poiché oltre ad essere utilizzati in questa mia tesi,
costituiscono i concetti chiave per comprendere appieno il seguente capitolo. Il
concetto di democrazia ha origine dalla filosofia dell’antica Grecia, ad esempio
già Aristotele, antico filosofo greco, affermava in una delle sue opere, la Politica,
che «nelle democrazie … è sovrano il popolo» (Aristotele, 1925). Nell’uso
moderno si può ricondurre il concetto di democrazia ai tumulti rivoluzionari
risalenti verso la fine del Settecento. Anche Charles-Louis de Secondat, barone
de La Brède et de Montesquieu, meglio noto unicamente come Montesquieu,
filosofo e grande pensatore politico del XVIII secolo, riprese il concetto di
democrazia aristotelica, sottolineando che si ha veramente democrazia quando
nella Repubblica, è il popolo intero che gode del potere supremo e sovrano. Nella
sua opera Lo spirito delle Leggi, Montesquieu scrive:
Nelle democrazie il popolo è, sotto certi aspetti, il monarca; invece sotto
certi altri punti, si trova ad essere suddito. Esso può essere monarca
solamente grazie ai suoi suffragi, i quali non sono altro che l’esplicitazione
delle sue volontà. (Montesquieu, 2005)
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Questa visione del governo del popolo, elaborata da Montesquieu, si accosta
molto ed assomiglia alla concezione procedurale della democrazia che circa due
secoli più tardi avrebbe formulato Joseph Schumpeter. Nel periodo intercorso tra
il XVIII e il XIX secolo si sono distinti tre approcci generali nel dibattito sul
significato di democrazia. La democrazia può essere definita come fonte di
autorità per i governi, come fine ultimo perseguito dagli stessi governi e come
procedura di base per l’istituzione dei governi. Le prime due denotazioni del
concetto di democrazia fanno emergere una qualche equivocità ed incertezza,
mentre l’ultima definizione corrisponde perfettamente alla denotazione che si
vuole dare al suo utilizzo nel contesto di codesta tesi. In alcuni sistemi di
governo, non certamente democratici, le persone conquistano il comando imperii
mediante, e grazie, la propria estrazione familiare, la propria ricchezza, l’utilizzo
della violenza, la cooptazione, la nomina diretta o diversi altri modi che non
prevedono un’elezione derivante da una volonté général. La procedura
democratica, invece, si basa sulla “selezione dei leader attraverso elezioni
competitive”, prospettiva concettuale che si ritrova nel libro Capitalism,
Socialism and Democracy del 1942 di Joseph Alois Schumpeter, uno dei
maggiori economisti del XX secolo. Samuel Phillips Huntington, illustre e noto
politologo statunitense, analizza molto bene la procedura democratica di
Schumpeter, nel suo libro La terza ondata, applicando a quest’ultima la visione
della democrazia del politologo americano Robert Alan Dahl.
Schumpeter ha visto chiaramente i limiti di ciò che identificava come la
“teoria classica della democrazia”, tutta tesa a definire questo fenomeno
come “volontà popolare” (valore originario) e come “bene comune” (fine
ultimo). Demolendo queste definizioni, Schumpeter ha proposto una “teoria
alternativa della democrazia”, in cui il metodo democratico consiste in una
configurazione istituzionale tesa al conseguimento di decisioni politiche,
nella quale gli individui acquisiscono il potere di decidere attraverso una
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lotta competitiva per il voto popolare. Seguendo la tradizione
schumpeteriana, nel ventesimo secolo un sistema politico può essere
definito democratico, quando le posizioni più importanti del decision
making vengono ricoperte grazie a elezioni regolari, corrette e periodiche,
nelle quali i candidati possano competere liberamente e tutta la popolazione
adulta detenga il diritto di voto. Definita in questo modo, la democrazia
coinvolge due dimensioni, quella del contraddittorio e quella della
partecipazione, che Robert Dahl ha visto come cruciali per i sistemi
democratici e poliarchici. Inoltre tale definizione implica anche libertà civili
e politiche quali la libertà di espressione, di stampa, di riunione e di
associazione, diritti che sono necessari per il dibattito politico e per lo
svolgimento della campagna elettorale. La definizione di tipo procedurale
offre numerosi parametri di valutazione, per lo più raggruppabili nelle due
dimensioni suggerite da Dahl, che permettono di giudicare fino a che punto
i sistemi politici sono democratici, di compararli e di analizzarne la loro
evoluzione. In questo modo, ad esempio, i sistemi politici che negano il
voto ad una parte della popolazione possono essere sicuramente definiti non
democratici. Ugualmente un sistema risulta non democratico, se
l’opposizione non può partecipare alle elezioni, se viene limitata la sua
libertà di manovra attraverso la censura e la chiusura dei suoi quotidiani o
se vengono manipolate le elezioni. In ogni società, se le maggiori forze
dell’opposizione continuano a perdere le elezioni, sorgono inevitabilmente
dubbi sul reale grado di competitività permesso dal sistema. L’approccio
procedurale alla democrazia si accorda perfettamente con l’utilizzo comune
che si fa del termine. E’ noto che eventi come i colpi di stato militari, la
censura, le elezioni truccate, la repressione e l’incarcerazione
dell’opposizione, la proibizione dei raduni politici, sono incompatibili con
la democrazia. E’ altrettanto evidente che gli osservatori politici sono in
grado di applicare le condizioni procedurali della democrazia ai vari paesi e
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di stilare, seguendo canoni precisi, le liste degli stati non democratici, di
quelli democratici ed infine di quelli che si collocano in una posizione
intermedia, e che a parte eccezioni secondarie, osservatori diversi
comporranno liste identiche. Inoltre è possibile giudicare i modi in cui i
governi mutano nel corso del tempo. Ovviamente i regimi politici non si
incasellano mai del tutto in categorie definite intellettualmente ed ogni
sistema di classificazione ammette l’esistenza di casi ambigui, misti o di
confine. In aggiunta, governi che hanno origini democratiche possono
diventare democrazie limitate o addirittura dittature. A prescindere da tutti
questi problemi, la classificazione dei regimi in base al loro grado di
democrazia rimane un’impresa abbastanza facile. Se l’elezione popolare dei
vertici dello stato incarna l’essenza stessa della democrazia, allora il punto
critico del processo di democratizzazione risiede nel momento in cui i
vertici autoritari vengono sostituiti attraverso elezioni libere e corrette.
Tuttavia l’intero processo di democratizzazione precedente e successivo al
momento elettorale appare solitamente lungo e complesso, dal momento
che coinvolge la fine di un regime antidemocratico, l’inizio di un regime
democratico e il suo consolidamento. Al contrario, si ha un processo di
liberalizzazione, quando un regime autoritario procede ad un’apertura
parziale senza però arrivare ad indire libere elezioni. Solitamente la
liberalizzazione di un regime autoritario passa attraverso fasi precise, come
il rilascio di prigionieri politici, l’apertura di alcuni dibattiti pubblici,
l’affievolimento della censura, l’elezione popolare di alcune cariche di
importanza limitata, il rinnovamento di parte della società civile ed altre
misure di limitata apertura democratica, senza però sottoporre al giudizio
elettorale i veri centri del decision making. In altre parole la liberalizzazione
non conduce necessariamente alla democratizzazione. (Huntington, 1995)
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A questo punto però, la definizione del concetto di democrazia non può essere
completamente esaustiva se non si tengono in considerazione alcuni elementi
salienti di quest’ultima. Innanzitutto la definizione di democrazia in base al
parametro elettorale potrebbe risultare un po’ troppo limitante, e forse troppo
poco idealistica. Molte persone considerano la democrazia in termini di liberté,
egalité, e fraternité, ovvero un controllo effettivo dei cittadini sulla politica, un
governo responsabile, un valore diffuso di onestà, un sistema deliberativo
trasparente e legale, inclusività ed ammissione del dissenso. Inoltre, I governi
democratici vengono fuori da elezioni democratiche, ma non sempre governi nati
da elezioni democratiche rispettano i principi democratici. Infatti non sempre chi
viene eletto democraticamente usa le procedure in modo democratico, ad
esempio le dittature totalitarie instaurate negli anni Venti e Trenta del Novecento
da Benito Mussolini in Italia e da Adolf Hitler in Germania. Non c’è la garanzia
che chi viene eletto democraticamente, poi si comporti così. Questo è il problema
dell’accountability, fondamento della scienza politica, che implica il far rendere
conto chi governa ai propri governati. Un altro aspetto secondo Samuel
Huntington concerne la stabilità o la fragilità di un sistema politico democratico,
e nella sua monografia descrive altri due punti che sono essenziali per una
definizione approfondita e completa del concetto di democrazia.
Si potrebbe incorporare nella definizione di democrazia anche il concetto di
stabilità, o istituzionalizzazione, ovvero quanto un sistema politico può
rimanere in vita. La stabilità è infatti una questione centrale in ogni analisi
politica. Ciononostante un sistema politico può essere più o meno
democratico e più o meno stabile e sistemi classificabili come democratici
possono differire molto in quanto al grado di stabilità. Si può dunque
concludere affermando che i sistemi democratici possono essere creati,
senza riuscire talora a durare nel tempo, e che la stabilità di un sistema
differisce dalla natura di quest’ultimo. Esiste inoltre un’altra questione: se
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considerare la democrazia e la non democrazia come variabili dicotomiche
o continue. Molti analisti hanno scelto la seconda soluzione e sono in grado
di tracciare il grado di democrazia attraverso alcuni indicatori come la
correttezza delle elezioni, le restrizioni imposte ai partiti politici, la libertà
di stampa e così via. Questo approccio risulta utile nello studio dei vari
livelli di democrazia all’interno dei paesi normalmente considerati
democratici o, al contrario, del grado di autoritarismo nei paesi non
democratici. Infine l’ultimo punto concerne il fatto che i regimi non
democratici non hanno competizioni elettorali e una diffusa partecipazione
al voto. Se escludiamo questa caratteristica negativa, tali sistemi politici
sono accomunati da ben poco, in quanto rientrano in questa categoria le
monarchie assolute, gli imperi burocratici, le oligarchie, le aristocrazie, i
regimi costituzionali a suffragio limitato, i dispotismi incentrati su una sola
persona, i regimi fascisti, quelli comunisti, le dittature militari e altre forme
di dominio. Alcuni tipi risalgono al passato, non tanto remoto, mentre altri
sono relativamente più moderni e recenti. In particolare i regimi totalitari
sono emersi nel ventunesimo secolo in seguito all’inizio della
democratizzazione e tentano la mobilitazione massiccia dei loro cittadini al
servizio delle finalità di regime. Gli scienziati sociali hanno tracciato una
ben marcata distinzione fra i totalitarismi e i sistemi autoritari non
democratici tradizionali. I primi sono contraddistinti sai seguenti elementi:
presenza di un unico partito guidato solitamente da un solo uomo; una
polizia segreta potente e capillare; un’ideologia forte e tesa a disegnare una
società ideale, scopo finale del regime totalitario; penetrazione e controllo
governativo sui mezzi di comunicazione e su gran parte delle
organizzazioni sociale ed economiche. Un sistema autoritario tradizionale
invece si basa sulla presenza di un unico leader o di una oligarchia ristretta,
sull’assenza di partiti o su partiti deboli, sulla mancanza di mobilitazione di
massa, opta per una “mentalità” piuttosto che per una vera e propria
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ideologia, si affida ai poteri costituzionali deboli, a un pluralismo limitato e
senza alcuna responsabilità politica, e non effettua alcun tentativo per
riformare la società o la natura umana. Questa distinzione fra regimi
totalitari e autoritari è cruciale per la comprensione della politica del
ventesimo secolo. (Huntington, 1995)
1. 2 La qualità della democrazia
Il topic della qualità della democrazia è diventato oggi il principale tema della
ricerca della scienza politica. La definizione di democrazia, come base per la
ricerca empirica, ha due presupposti essenziali:
1. L’ammissione del dissenso, si ha democrazia quando di fronte a un
governo può esistere un’opposizione libera;
2. L’inclusività, la possibilità di partecipare a chi deve essere al governo e
chi all’opposizione da parte dei cittadini.
Non c’è democrazia senza la possibilità che i cittadini possano votare, e senza
questi due presupposti basilari di garanzia è difficile parlare di vera democrazia.
Leonardo Morlino, illustre docente di Scienza Politica all’Università Luiss di
Roma, individua cinque dimensioni di variazione della qualità della democrazia.
Le prime due sono inerenti alla procedura:
1. Rule of Law, il rispetto della legge e dello Stato di diritto;
2. Accountability, la responsabilità politica;
La terza dimensione riguarda il risultato:
3. Responsiveness, la capacità da parte delle istituzioni di fornire risposte
soddisfacenti alle richieste dei cittadini e della società civile;
Infine ci sono due dimensioni riguardanti il contenuto:
4. Libertà, rispetto dei diritti politici, civili e sociali;
5. Uguaglianza, sia formale che sostanziale.