IV
strada non c’era alcuna frattura. Capii, con l’intuizione di un ragazzo, che quel
cinema era il cinema della vita, della realtà, era il cinema che io andando per
strada non ero in grado di vedere. Le cose che vedevo io avevano un significato
superficiale; le stesse immagini le vedeva lui e avevano un significato diverso,
mi rivelavano ciò che la realtà contiene ma che non è rilevabile al primo
impatto: Rossellini le rilevava. Quindi io capii lì come il cinema poteva essere
allontanamento dalla realtà, l’evasione da essa; ma il cinema può e dev’essere
anche quello che mi mostra la realtà che ho sotto gli occhi tutti i giorni
attraverso lo sguardo di uno che ha la specifica qualità di indagare i significati
nascosti della realtà e mostrarli. Questo è un cinema poetico e civile, nel senso
che ci aiuta a convivere, a capirci, a rivelarci l’uno con l’altro, e quindi per me
questa è stata una folgorazione. Rossellini mi diceva: “Guarda la realtà e
scopri, guarda la realtà e riprendi quella realtà che per te ha significato, registra
quello che tu oggi vedi e ti pare interessante da mandare a memoria”.
Rossellini ha fatto una sua postazione per la memoria, ha guardato la realtà e
l’ha rivelata, non gli interessava il cinema. Quando Rossellini fece la sua prima
serie televisiva, L’età del ferro, venne respinto da tutti perché non faceva il
cinema per il cinema. Non capivano che egli faceva il cinema per i cittadini,
per gli uomini. Diceva sempre: “La televisione deve insegnarci la storia per
poter convivere in pace, e non le storie”, e si dedicò tutta la vita a questo»
2
.
Poi ho scoperto il cinema underground che mi ha fatto capire che esistono, o si
possono far coesistere, diverse forme di cinema alternative a quello classico,
ma a cui purtroppo non siamo stati abituati a causa della scarsa visibilità che
certe opere devono subire. Come dice Adriano Aprà in un saggio del 1975
intitolato L’underground: «il cinema sperimentale aiuta a capire che si può fare
cinema al di fuori della finzione narrativa tradizionale; il cinema può essere
didattico, scientifico, pubblicitario, pornografico, militante, può essere
informazione, cinegiornale. Esso ipotizza quindi anche nuovi pubblici, al di
fuori del rituale magico-teatrale della sala cinematografica tradizionale. Il
cinema sperimentale amplia i confini del filmabile oltre il realismo oggettivo,
positivistico. La tecnica trasforma la realtà, produce nuove realtà. […] Si è
dissolta la figura dell’autore-regista tradizionale, punta emergente di una
piramide, “artista” che coordina il lavoro altrui col quale egli si pone in
2
Testimonianza inedita raccolta durante la tavola rotonda del 17° Evento Speciale della 39.
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro dedicato a Ermanno Olmi.
V
posizione gerarchica di comando e controllo: penso alla riqualificazione del
“team” nelle esperienze di Grifi-Sarchielli, del gruppo Lajolo-Leonardi-
Lombardi (Videobase) […] Sono stati sconvolti i tempi tradizionali della
durata dello “spettacolo” tradizionale: si va da film di pochi minuti a opere
della durata di sei ore e più. Sono tempi che la sala tradizionale non contiene
più»
3
. Con il cinema sperimentale ho capito che è possibile fare del cinema a
basso costo, che oggi sembra essere diventato una vera e proprio corrente, con
un loro stile, e che consente a chiunque voglia di potersi esprimere con le
immagini.
Da qui, partendo da questo cinema che si differenzia per aspirazioni, per
linguaggio, per costi, per diffusione, da quello classico, ho avuto la possibilità
di saper scegliere ciò che realmente mi trasmetteva qualcosa.
Le emozioni più forti le ho sempre pescate in quell’oceano immenso che è la
realtà, al cinema mi hanno dato spunto di riflessione più i film documentari che
i film di finzione (tranne qualche rarissima eccezione). Faccio il tifo per un
cinema utile, che sia conoscenza, che non vuole essere spettacolarizzazione: a
quello ci pensa la televisione, quella italiana, sottoposta alla dittatura di certi
padri-padroni che la riempiono di talk show patetici (dove il paragone con un
pollaio sarebbe un lusso) e di reality, con la presunzione di farli passare per
prodotti di buona qualità.
La risposta a questa mia esigenza credo di averla trovata nel cinema di Daniele
Segre. Conosciuto quasi per caso, leggendo una rivista di cinema, mi ha
incuriosito approfondire la conoscenza di questo autore che realizza film di
documentazione sociale. Ma il fattore che mi ha più entusiasmato in questa
ricerca è stata la vastità della sua filmografia e soprattutto la presenza,
all’interno di una ricerca condotta nella realtà, di “intermezzi” di finzione. Mi
sono domandata cosa avesse spinto un autore di cinema della realtà ad
approdare a quello di finzione. Per questo, nella presente “ricerca di laurea” ho
approfondito la descrizione e l’analisi di quei film definiti “di finzione”, anche
se si scoprirà che con Segre la finzione viene messa in discussione. Non per
questo ho tralasciato i film di documentazione sociale, suddivisi in film di lotta
e film di riflessione, che fanno del cinema di Segre un cinema-specchio, in cui
ci possiamo riflettere e ritrovare: sono quei film interpretati da persone vere la
3
Adriano Aprà, L’underground, in Clauer Salizzato (a cura di), prima della rivoluzione.
Schermi italiani 1960-1969, Marsilio, Venezia, 1989, pp. 158-159.
VI
cui sceneggiatura è scritta dalla loro vita, dalle problematiche, dalle gioie, dai
dolori, dalle sconfitte che essa comporta. In questi film, in particolare negli
ultimi dieci anni (Non ti scordar di me, Come prima, più di prima, t’amerò,
1995; Sei minuti all’alba, Quella certa età, 1996; Paréven fumighi, 1997; A
proposito di sentimenti, 1999) Segre porta una proiezione fantastica sul reale,
inserendo degli inserti di finzione interpretati dalle stesse facce che si mettono
in primo piano per raccontare la loro esperienza.
C’è una citazione detta da Tullio Masoni e Paolo Vecchi che più di tutto riesce
a descrivere cos’è il cinema di Daniele Segre: «Crediamo valga ancora oggi
quanto, ormai parecchi anni fa, ha scritto Alberto Barbera a proposito del
metodo Segre: “Consiste… in un passaggio continuo e quasi impercettibile di
campo: dal documentario alla fiction e viceversa. Assunti non già come
momenti successivi per quanto interagenti, ma precisamente come istanze
discorsive simultanee, scivolamenti progressivi da un piano all’altro,
all’interno della medesima sequenza, della medesima inquadratura. Si tratta
insomma per Segre di complicare in continuazione l’evidenza del documento
con lo spessore della rappresentazione, senza peraltro mai sovrapporre
artificialmente la messa in scena alla naturalità reale”. In questa pratica,
coerente nella sua continua evoluzione, il regista è diventato immediatamente
riconoscibile nel panorama cinematografico – e non solo, beninteso, in quello
nazionale – con la caratteristica che è propria solo degli autori di razza:
l’unicità»
4
.
4
Tullio Masoni e Paolo Vecchi, Partiture per volti e voci. La “commedia umana” di Daniele
Segre, in Antioco Floris (a cura di), Daniele Segre. Il cinema con la realtà,Cuec, Cagliari,
1997, p. 26.
1
CHI È DANIELE SEGRE.
Daniele Segre (Alessandria 1952) nasce in una famiglia ebrea di estrazione
proletaria. «L’educazione è impartita secondo i canoni dell’ortodossia ebraica
che Daniele segue in maniera rigorosa fino all’età di 20 anni»
1
. I germi di
questa educazione riaffiorano nel suo secondo lungometraggio di finzione,
Manila Paloma Blanca (1992). Il regista stesso afferma a proposito del film:
«Io sono ebreo e questi elementi mi appartengono del tutto».
Nei primi anni Sessanta si trasferisce con la famiglia a Torino dove pratica
assiduamente attività sportive e contemporaneamente coltiva la passione per la
fotografia. «Sono i primi anni Settanta, un intenso periodo di lotte sociali, che
Segre documenta con interesse e passione»
2
. Diventa fotografo professionista
ed è grazie a questo lavoro che si avvicina al mondo del cinema, esperienza che
va a solidificarsi quando incontra Silvano Agosti nel 1974. Da questa
conoscenza nasce una collaborazione che lo porta a divenire fotografo di scena
per Nessuno o tutti / Matti da slegare (1975) di Agosti, Bellocchio, Rulli,
Petraglia. Questa esperienza lo porta a decidere di passare dietro la macchina
da presa e dirigere il suo primo documentario, Perché droga (1976), in
collaborazione con Franco Barbero e prodotto dalla Unitelefilm, casa di
produzione del PCI. I suoi primi lavori sono focalizzati su problemi delle realtà
giovanili disagiate come Il potere deve essere bianconero (1978), secondo
documentario che entra, indagandolo, nell’ambiente degli ultras juventini e che
continua nel successivo Ragazzi di stadio (1979), quest’ultimo accompagnato
da un suo libro fotografico.
«Il mio approccio con il cinema è stato consequenziale a quello che stavo
facendo: fotografavo e lavoravo per strada, seguivo quello che succedeva, dalle
occupazioni delle case, alle manifestazioni, a cose legate alle persone che
vivevano direttamente le esperienze da me fotografate. Non ho mai pensato,
almeno in quel momento, di fare del cinema di finzione: volevo solamente dare
forza alla mia macchina fotografica. Insomma usare la macchina da presa per
dare voce alle mie fotografie, per raccontare la realtà»
3
.
1
Antioco Floris, Nota biografica, in Antioco Floris (a cura di), Daniele Segre. Il cinema con la
realtà, Cuec, Cagliari 1997, p 195.
2
Ibid.
3
Franco Montini, I novissimi, Nuova Eri, Torino, 1988, p. 42.
2
Da questi lavori ha inizio una prolifica attività che si sviluppa nella
collaborazione con la sede regionale piemontese della Rai con la realizzazione
di numerose inchieste, documentari e servizi giornalistici. Tra i tanti
ricordiamo: Carnevale in quartiere; Torino, mercati generali; Il ciocco è
relativo (1980), Rock, Torino cronaca (Quattro quadri) (1981), Cerco casa;
Torino cronaca. Il matrimonio di Anna e Giuseppe; Torino cronaca. Anna,
Paolo e Francesca (1982), La salute in fabbrica; Droga, un problema da
risolvere; La talassemia, un progetto di ricerca finalizzata; I bambini e gli
incidenti (1983), «quattro filmati, di trenta minuti ciascuno, che analizzano e
sviluppano quattro problematiche sociali: realizzati dalla Rai regionale per
essere immessi nel circuito didattico delle scuole medie superiori piemontesi»
4
.
Sono dell’ 84 una serie di servizi per la trasmissione di Rai1 Droga che fare
(1984-86), e altri servizi per trasmissioni come Italia sera (1985) Unomattina
(1986-87), Notte Rock (1988), e i reportage su Frank Sinatra e Liza Minnelli
(1987).
«Il suo stile è ruvido, diretto e secco, e tende a comunicare attraverso una
sguardo privo di filtri estetizzanti e moralistici. In tal senso, inquietante ed
incisivo è Ritratto di un piccolo spacciatore (1982)»
5
, film prodotto da “I
Cammelli”, società fondata da Segre nel 1981 per difendere un’idea personale
e indipendente di cinema.
Pur continuando a interessarsi alle tematiche sociali, sperimenta le possibilità
d’impiego del video anche nella finzione: realizza Testadura (1983), primo
lungometraggio di finzione, che partecipa alla Mostra di Venezia nella sezione
Venezia De Sica, e in cui si comincia a «intravedere un elemento che segnerà
in maniera indelebile la produzione di Segre – la capacità di creare intorno alla
documentazione sociale uno stile cinematografico che sappia coniugare realtà e
finzione – che raggiunge uno dei massimi risultati l’anno successivo con Vite
di ballatoio»
6
.
Nel 1988 dà vita alla cooperativa “Cammelli Factory”, con cui inizia un ampio
lavoro di informazione e documentazione sul territorio. Tra il 1987 e il 1988
4
Antonio Maraldi (a cura di), Il cinema di Daniele Segre, Cesena: Centro cinema città di
Cesena, 1993, p. 40.
5
Maurizio G. De Bonis, Daniele Segre: «Senza chiedere permesso»,« Cinecritica», n. 38-39,
aprile-settembre 2005, p. 8
6
Antioco Floris, Nota biografica, cit., p. 196
3
sostiene il progetto “Indigena” per conto di Rai3 con Sarabanda e finale,
episodio del film collettivo Provvisorio, quasi d’amore.
Nel 1989 istituisce la Scuola Video di Documentazione Sociale “I Cammelli”,
che negli anni successivi, anche col sostegno di Unione Europea e Ministero
del Lavoro, ha avviato decine di giovani alla delicata e difficile attività di
autore (o altro professionista) audiovisivo nel sociale, con un approccio
opposto a quello, spesso irrispettoso e frettoloso, tipico del reportage
televisivo.
Sempre dell’ ‘89 sono Occhi che videro, realizzato in co-produzione con il
Museo Nazionale del Cinema di Torino, omaggio alla figura di Maria Adriana
Prolo, fondatrice e direttrice del museo, e Non c’era una volta.
Partitura per volti e voci. Viaggio tra i delegati della Cgil (1991) segna l’inizio
di una collaborazione col sindacato che sarà prolifica negli anni successivi. «Il
sindacato sarà infatti per lui occasione di stimolo e contemporaneamente
sostegno per alcune produzioni»
7
tra le quali: Spot immigrazione (1991),
Crotone, Italia (1993), Dinamite (1994), Come prima, più di prima t’amerò
(1995).
Dopo l’esperienza fatta in Rai, nei primi anni Novanta Segre lavora per la TSI
(Televisione della Svizzera Italiana) realizzando, anche qui, reportage e servizi
televisivi per il programma Fax (1994-1995), Profondo nord – Profondo sud
(1992), viaggio tra nord e sud dell’Italia alla scoperta di diversi modi di sentirsi
italiani, e l’omaggio ai figuranti di Cinecittà con Non ti scordar di me (1995).
Contemporaneamente alle collaborazioni con CGIL e TSI realizza, con l’attore
Carlo Colnaghi, Tempo di riposo (1991), video di preparazione per Manila
Paloma Blanca (1992), secondo lungometraggio di finzione che indaga
l’universo esistenziale di un attore emarginato, Colnaghi stesso, e illustra bene
la “poetica” di Segre: il costante scivolamento dalla realtà alla finzione.
Negli anni successivi con i Racconti italiani, serie di cinque film realizzati nel
’96, affronta diversi temi come gli anziani (Quella certa età), gli
extracomunitari (Diritto di cittadinanza), gli incidenti stradali del sabato sera
(Sei minuti all’alba), la sanità (Azienda sanità) e il mondo operaio (Un solo
grido, lavoro).
7
Cit., p.197.
4
Nel 1995 debutta anche come regista teatrale con lo spettacolo Week-end di
Annibale Ruccello.
Sempre dal 1996 Segre insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia di
Roma tenendo lezioni per il corso di Realizzazione audiovisiva.
Del 1997 è Paréven furmìghi dove «è la memoria storica che diventa
protagonista con l’emblematica vicenda del cinema “Teatro Nuovo”, oggi
“Novecento”, a Cavriago quando al termine della seconda guerra mondiale gli
abitanti, quasi un modo per uscire dall’incubo bellico, decidono di costruire un
cinema»
8
.
Sempre del 1997 è “Pa prou!”. Giochi primaverili in territorio
francoprovenzale sulle varietà dialettali presenti nelle Alpi e sul gioco in
quanto particolare aspetto delle tradizioni popolari.
Fra le opere più recenti Sto lavorando? (1998), sull’inserimento lavorativo di
un giovane con gravi problemi psichici, E pensare che eri piccola, realizzato
per la serie televisiva “Alfabeto italiano”, e A proposito di sentimenti (1999),
sull’affettività nei giovani colpiti da sindrome di Down; Protagonisti. I diritti
del Novecento e Via Due Macelli, Italia. La sinistra senza Unità (2000), sulla
chiusura dell’omonimo quotidiano, Asuba de su serbatoiu, sulla chiusura di
una fabbrica in Sardegna e Tempo vero (2001), sui problemi dei malati di
Alzheimer.
Nel 2000 partecipa alla campagna “Puliamo il mondo”, sollecitata da Tele+ e
Legambiente, a cui 17 registi italiani hanno aderito realizzando a titolo gratuito
dei cortometraggi sul tema della “mondezza”. Dei 15 lavori realizzati, 5 sono
stati presentati al Festival di Venezia nella sezione «Nuovi territori» tra cui
quello di Segre, dal titolo Monda Mondo, in cui troviamo immagini di ragazzi
handicappati alle prese con la raccolta di rifiuti. La spazzatura, per Segre,
diventa in questo caso strumento di integrazione poiché offre un’occasione di
lavoro a chi difficilmente riuscirebbe a trovare un'altra collocazione. Nel 2002
Segre torna alla finzione con Vecchie, scritto con le due protagoniste (Barbara
Valmorin e Maria Grazia Grassini), film presentato nella sezione “Nuovi
territori” a Venezia nel 2002, che ha ricevuto vari premi e riconoscimenti e che
è divenuto uno spettacolo teatrale, Vecchie. Vacanze al mare, in scena al
Piccolo Eliseo di Roma
8
Cit., p 198.
5
nel gennaio 2003 e successivamente in altri teatri italiani.
Nel luglio 2003 inizia le riprese della serie di sei documentari Volti - Viaggio
del futuro d’Italia, mandati in onda da Rai3 nel gennaio 2004.
Del 2004 è Mitraglia e il Verme, che insieme a Vecchie forma un dittico di film
costruiti sugli attori, i quali sono portati al massimo dell’esasperazione
recitativa, grazie all’uso della camera fissa. Girato in un ambiente squallido, i
gabinetti pubblici dei Mercati Generali, ancora una volta «Segre fa un cinema
utile. Agli altri ma non ai potenti»
9
.
9
Morando Morandini, «Un cinema della realtà», «Cinecritica», cit., p. 19.
6
1. LA NON FICTION ITALIANA DAGLI ANNI ‘70
1.1. SULLA SCIA DI ZAVATTINI
«Il tipo di cinema che io faccio
è un cinema ruvido,
che si rivolge allo spettatore
in modo forte, non tende
a sollazzare quanto piuttosto
a stimolare nel pubblico
quegli aspetti positivi e utili
per il mantenimento nel tempo
della capacità di intendere e di volere.
Io animo e provoco, non placo»
1
.
Questa dichiarazione porta con sé lo spirito di chi, alla fine degli anni ’60,
capisce che il cinema può essere uno strumento di controinformazione politica
e sociale: «Alla base del mio lavoro c’è un impegno che va oltre lo stesso
cinema: io voglio cambiare la realtà nella quale vivo. Io credo che il regista
oggi debba sempre di più rendersi evidente in una azione di cambiamento, di
forte intervento culturale, di lotta»
2
. E ancora: «Il cinema ha una forza troppo
importante per gli uomini, può rappresentare l’emancipazione, la presa di
coscienza, un qualcosa che va oltre la quotidianità. Di questo sono cosciente ed
è forse il motivo per cui credo molto nel cinema che faccio. Il cinema può
contribuire al cambiamento. […] La macchina da presa è un’arma, può essere
pericolosa. Molti la usano senza comprendere questa pericolosità. Io considero
i miei film dei prodotti di utilità pubblica perché attivano nello spettatore
stimoli ed emozioni grazie alle quali si attiva uno scambio e un confronto a
partire dai quali si fa comunicazione, si fa informazione, ma si fa anche
formazione»
3
.
Daniele Segre muove i suoi primi passi nell’ambito del cinema documentario a
metà degli anni ‘70, in un periodo in cui arrivano i cosiddetti “anni di piombo”
con la controinformazione che diviene attività sovversiva e con la scoperta del
video, di cui Alberto Grifi fu tra i primi cineasti a esplorarne l’uso politico. E
non è un caso che i primi film di Segre Il potere dev’essere bianconero (1978)
e Ragazzi di stadio (1980), siano testimonianza di come una stagione di
1
Antioco Floris, Minima moralia. Daniele Segre visto da Daniele Segre, in Antioco Floris (a
cura di), Daniele Segre. Il cinema con la realtà,Cuec, Cagliari, 1997, p. 98.
2
Id., p. 102.
3
Id., p. 103.
7
contestazioni e di lotte, di comunicazione per slogan politici, confluiscano in
un tifo calcistico portatore di violenze.
«Ma il clima di ripiegamento e riflusso dilagante – ritratto da Segre con
asciuttezza e senza facili moralismi – si intreccia ancora fittamente con un
brulichio di attività cinematografiche (e poi video) vivaci ed estese, spesso
senza titolo e senza autore, tese a documentare, testimoniare, informare o
controinformare, nel solco tracciato dai Cinegiornali Liberi di Cesare
Zavattini»
4
.
1.1.1. Il cinema militante
Verso la fine degli anni ‘60, con il dilagare delle contestazioni studentesche e
operaie, sorgono spontaneamente dei gruppi che si muovono nell’ambito del
cinema e dell’informazione il cui scopo è quello di porsi al di fuori delle
strutture economiche e culturali tradizionali, e orientarsi verso dei rapporti più
diretti con le classi lavoratrici.
Oltre alla controinformazione e alla propaganda politica che contestavano in
toto la classe dominante, con il cinema militante venivano messi in
discussione i metodi tradizionali e standardizzati di produzione, distribuzione e
gestione del mezzo cinematografico, e la funzionalità del cinema nella lotta di
classe, rielaborando la funzionalità del rapporto cinema-politica.
Da questa esigenza nascono già alla fine del 1967 i Cinegiornali Liberi. L’idea,
annunciata e illustrata da Cesare Zavattini nel municipio di Reggio Emilia,
trova subito una larga adesione. Più che di una vera e propria linea d’azione si
tratta di una proposta: stimolare tutti coloro che in Italia posseggono una
cinepresa a filmare, documentare, analizzare i fatti intorno a loro e quindi
organizzare tutti questi materiali in modo da permettere una distribuzione
capillare ed estesa.
«“Cinegiornali”, perché fatti subito, perché legati alla realtà attuale del paese,
testimonianze del presente; “liberi”, perché non sono un genere ma possono
essere qualsiasi cosa e un miscuglio di tutto»
5
. Quindi il cinema militante non
può essere considerato un genere cinematografico specifico, ma viene visto
4
Sandra Lischi, Senza chiedere permesso: il videotape e il cinema militante, in Vito Zagarrio
(a cura di), Storia del cinema italiano 1977-1985, Centro Sperimentale di Cinematografia,
Roma, Marsilio, Ed. Bianco e nero, Venezia, 2005. p. 95.
5
Faliero Rosati (a cura di), 1968-1972 esperienze di cinema militante, estratto da Bianco e
Nero, fascicolo 7/8, Roma, 1973, p. 6.
8
come testimonianza filmica di un periodo storico caratterizzato da un violento
scontro di classe, ed è soltanto all’interno di quella situazione culturale e
sociale che esso vive che possiamo studiarne le motivazioni.
Dalle proteste alle denunce, dalla lotta di classe agli allucinogeni, i temi trattati
sono diversi, ma l’idea che accomuna queste manifestazioni è quella di un
cinema collettivo, che va contro quello individualistico dominante, e il cui
metodo di lavoro si basa sull’impegno collettivo che ne sarà lo stesso fine. Ci si
rivolge alla popolazione, alle classe lavoratrici, a tutti senza discriminazioni,
per contribuire alla formazione di un’opinione pubblica autonoma. Questo è
l’intento che viene enunciato nell’articolo 2 dello Statuto del Centro dei
Cinegiornali Liberi di Roma, datato luglio 1969: «I Cinegiornali Liberi sono
dei collettivi di Lavoro che si riuniscono dovunque intorno alla macchina da
presa, allo scopo di diffondere l’uso popolare del mezzo cinematografico per
farne uno strumento di ricerca e documentazione storico–socio–politica e di
costume, di critica, di discussione e di proposta. I Cinegiornali Liberi vogliono
essere uno strumento attivo di partecipazione alle lotte delle classi lavoratrici e
dei loro alleati per l’intervento concreto nella formazione di una cultura
alternativa antagonistica a quella del privilegio»
6
.
A partire dal ‘68 vengono realizzati i primi cinegiornali a Roma, Bologna,
Parma, Torino. I filmati, che hanno una durata che va dai cinque minuti a
un’ora, vengono girati in gruppo o da un singolo autore, prevalentemente di
estrazione intellettuale.
Accanto al C. L. di Roma si costituisce un sottogruppo composto da membri
del C. L. romano che si pone come scopo la realizzazione di cinegiornali che
documentino le lotte operaie a Roma e nel Lazio. Il primo e ultimo lavoro
realizzato da questo gruppo autonomo è quello sull’occupazione della fabbrica
romana dell’Apollon: Apollon, una fabbrica occupata (1969).
«L’esperienza dell’Apollon ha una grande importanza nella storia dei
cinegiornali liberi, sia per quanto riguarda lo sviluppo interno del movimento,
sia per quanto riguarda i suoi rapporti con l’esterno. […] Il film rappresenta un
grosso “successo”. Raccoglie immediatamente l’adesione di tutte le forze della
sinistra, dal Partito Comunista, ai Sindacati, all’Arci, che contribuiscono al
finanziamento e ne favoriscono la circolazione acquistando direttamente copie
6
Id., p. 11
9
e organizzando proiezioni nelle loro sedi»
7
. Ma molti altri contestarono questo
successo, come ad esempio Adriano Aprà, che in un articolo di Cinema & Film
del 1969 così descrive “l’evento”: «Un lavoro di gruppo: ma un gruppo che
unisce gli sforzi non per inventare un nuovo linguaggio, bensì (dato che non si
pone il problema del linguaggio: l’eredità del neorealismo) per ripetere il
linguaggio che conosce: quello dei padroni. Si chiede agli operai dell’Apollon
di collaborare (alla “sceneggiatura”, poiché si tratta di un film narrativo)? Essi
si rifaranno, senza saperlo (come vogliono i padroni), ai modelli degradati
digeriti nelle sale commerciali. […] Uno spettacolo umiliante, non a causa
degli sfruttati che confermano la loro condizione di sfruttati (culturalmente
stavolta) ma dei nuovi, inconsapevoli sfruttatori, incapaci di reagire, incoscienti
persino che sia necessario reagire. E così il cinegiornale “libero”
(produttivamente, ma fino a un certo punto) è schiavo linguisticamente: un
cinema politico comincia dal linguaggio e, finché sarà l’individuo e non la
collettività a parlare, dall’individuo. Il gruppo dovrebbe agire, mi pare, come
propulsore, diffusore di un linguaggio che è (ma non resta) individuale: come
gruppo responsabile di una politica culturale che parte dall’individuo per
arrivare alla collettività. Non si può compiere d’un tratto il “salto” che consiste
nel parlare un linguaggio “collettivo” quando non esistono le condizioni
storiche per parlarlo. […] Anche produttivamente il cinegiornale dell’Apollon
mi pare un esempio da non seguire: un costo di 3 milioni e 700.000 lire, 5000
metri di pellicola, sedici per un film di un’ora (secondo quanto dichiarato dagli
stessi autori), la formula della ricostruzione dei fatti invece che della loro
registrazione. Oggi un cinema a 16 mm. ha costi ben più bassi (l’underground
insegna), e ricostruire ciò che è vivo, in questo caso, è un’operazione da
becchini. Significa morti-ficare il reale. Anche e soprattutto perché
l’operazione di ricostruzione a posteriori non è dichiarata, e quindi tutto il film
si muove sull’equivoco (neorealistico!) di una finzione vergognosa di esserlo.
Così, la finzione è usata non per dire più la verità ma per esporre la verità
(diciamo: classificarla, “ordinarla”)»
8
.
Nonostante le varie opinioni, Apollon, una fabbrica occupata resta uno dei
primissimi film sull’occupazione di una fabbrica, e su questa scia si delinea la
7
Id., p. 9.
8
Adriano Aprà, Un cinegiornale “neorealistico”, «Cinema & Film», n. 9, estate 1969, p.375.