II
all’implementazione della biodiversità negli agroecosistemi senza incidere
sull’attività produttiva.
In altre parole, si è cercato di individuare e collaudare una nuova metodologia per
la valutazione della qualità ambientale in aziende agricole biologiche, riferita
soprattutto a un gruppo animale (gli uccelli) spesso usato in indagini di questo
tipo. In questo primo esempio di valutazione quantitativa dei differenti elementi
aziendali, ciascuno con superficie/lunghezza e caratteristiche, i punteggi massimi
sono stati attribuiti a quanto è in grado di favorire l’avifauna a livello quali-
quantitativo: utilizzando quindi gli uccelli come bioindicatori a ogni azienda è
stato attribuito un valore numerico, che può essere rapportato al massimo
teoricamente ottenibile per definire correttamente gli eventuali interventi
migliorativi.
1
1. AGRICOLTURA BIOLOGICA
BASI DELL’AGRICOLTURA BIOLOGICA SCIENTIFICA
L’agricoltura biologica è regolamentata a livello comunitario dal Regolamento
CEE 2092/91 e sue successive modifiche e integrazioni.
Utilizzando come chiave di lettura le norme italiane per l’agricoltura biologica è
possibile ricavarne un quadro sufficientemente preciso delle modalità operative
adottate dai produttori del settore, operanti su basi scientifiche (Groppali 2004).
In particolare:
ι la presenza delle siepi è obbligatoria. Le siepi sono intese come spazi
lineari seminaturali con vegetazione arborea e/o arbustiva che
diversificano strutturalmente il territorio rendendolo più complesso e
vario, a elevata biodiversità e, quindi, più equilibrato oltre che più
bello.
I benefici delle siepi sono i seguenti:
a) funzionano da barriera frangivento;
b) condizionano positivamente i movimenti dell’acqua nel/sul terreno,
svolgendo anche un’importante funzione antierosione e di
barriera/filtro nei confronti di contaminanti;
c) consolidano le rive di fossi e coli;
d) producono legna da ardere o cippato da riscaldamento o da
compostare;
e) ospitano organismi predatori e parassiti dei nemici delle piante
coltivate contribuendo al miglioramento dell’equilibrio biologico negli
agroecosistemi limitrofi;
f) caratterizzano e migliorano il profilo paesaggistico del territorio,
rendendolo più bello ed eventualmente fruibile;
g) sono fonte di nettare e polline per le api.
ι è opportuno scegliere le cultivar più resistenti e più adatte all’ambiente
di destinazione;
2
ι va limitato al massimo l’impiego di acqua irrigua, le cui caratteristiche
devono essere qualitativamente accettabili;
ι la pacciamatura con film plastici e l’impiego di tubature plastiche a
perdere non sono consentiti;
ι la monosuccessione non è consentita. E’necessario avere un’elevata
complessità colturale con presenza di più colture in successione tra
loro in modo da utilizzare più efficientemente le caratteristiche del
terreno, cercando di mantenerle intatte nel tempo. Inoltre, così
facendo, si evita che i fitofagi parassiti possano aumentare
eccessivamente;
ι è consentita la consociazione delle coltivazioni, in quanto una specie
coltivata può allontanare i parassiti dell’altra;
ι non essendo permesso l’uso di erbicidi di sintesi, sono consigliate
rotazioni colturali, pacciamature e lavorazioni destinate al
contenimento delle infestanti, inerbimento controllato, termo- e piro-
diserbo, impiego di ceneri;
ι vanno evitate le lavorazioni del suolo a profondità superiori ai 30 cm e
la geodisinfestazione non è consentita, evitando inoltre l’uso di
macchine in grado di costipare eccessivamente il terreno;
ι per la fertilizzazione sono consentite quantità accettabili di concimi
organici maturati in ambiente aerobico (letame e compost) e di liquami
trattati anaerobicamente, con eventuali aggiunte come ammendanti,
solo in caso di comprovata necessità, di rocce macinate, farine di ossa
o di alghe, cenere di legna, argilla, borace.
ι per le cure fitosanitarie sono da preferire gli interventi preventivi e
indiretti, come quelli agronomici (fertilizzazione e irrigazione
adeguate, inerbimenti, lavorazioni del terreno, potature particolari), la
scelta delle cultivar resistenti e il controllo biologico naturale, volto a
favorire la presenza di fattori naturali di limitazione delle specie
dannose;
3
ι gli interventi diretti sono ammessi quando viene superata la soglia di
danno economico ed escludono tutti i prodotti di sintesi;
ι le serre sono ammesse se non riscaldate e costruite senza l’impiego di
PVC, con adeguata rotazione colturale interna;
ι non sono ammesse sostanze di sintesi destinate alla modificazione
della forma delle piante (potatura chimica), ad anticipare la
maturazione e favorire la conservazione dei prodotti raccolti (in questo
caso non è consentito neppure l’impiego di radiazioni);
ι rinuncia all’impiego di organismi geneticamente manipolati (OGM).
L’azienda agribiologica ideale si definisce tecnicamente come un agroecosistema
polifunzionale a elevata complessità ambientale.
Con il Regolamento CEE 1804/99 vengono invece dettate le norme per
l’allevamento biologico.
Gli animali vengono allevati con tecniche che rispettino il loro benessere e
alimentati con prodotti ottenuti secondo i principi dell’agricoltura biologica.
Vengono evitate tecniche di forzatura della crescita e i metodi industriali di
gestione dell’allevamento; la salute degli animali viene salvaguardata
specialmente con l’utilizzo di rimedi omeopatici e fitoterapici.
1.1 IMPORTANZA DELLA SOSTANZA ORGANICA
IN AGRICOLTURA BIOLOGICA
Uno degli obiettivi fondamentali dell’agricoltore biologico è il mantenimento e la
corretta gestione della fertilità del terreno, considerata nei suoi molteplici aspetti
(sostanza organica, elementi nutritivi, attività microbiologica, struttura del suolo,
capacità di ritenzione idrica) al fine di garantire un livello di produttività stabile
diminuendo al massimo gli input agronomici (concimazioni, irrigazioni,
lavorazioni) e di conseguenza i costi (Schmid 1994).
Considerando che in agricoltura biologica vengono ridotti al minimo gli input
esterni, le misure preventive hanno la precedenza sulle misure curative e invece di
rifornire la pianta direttamente con elementi nutritivi di pronta solubilità, si mira
4
all’ottenimento di un ecosistema equilibrato in cui si rifornisce la pianta attraverso
la nutrizione del suolo, in quanto la sostanza organica è la componente del suolo
che maggiormente ne condiziona la fertilità. Essa è, infatti, la più attiva nel
determinare le caratteristiche strutturali e nutrizionali del terreno: la sostanza
organica assume quindi un ruolo fondamentale per la nutrizione delle piante.
1.2 FERTILIZZAZIONE E CONCIMAZIONE
IN AGRICOLTURA BIOLOGICA
Concimazione e fertilizzazione sono due termini che, sebbene nel lessico comune
abbiano ormai assunto valore di sinonimi, hanno significati profondamente
diversi.
Per concimazione s’intende, infatti, la distribuzione alle colture di sostanze
(minerali od organiche) in grado di fornire uno o più elementi necessari alla loro
nutrizione minerale.
Per fertilizzazione s’intende l’apporto di sostanza organica al terreno agrario al
fine di migliorarne la fertilità fisica, chimica e microbiologica (Giardini 1986).
Sono da considerarsi fertilizzanti sia gli ammendanti (che modificano le
caratteristiche fisiche), sia i correttivi (che modificano il pH), sia i concimi (che
apportano uno o più elementi necessari all’alimentazione delle piante (Giardini
1992).
Nel sistema convenzionale, il cui obiettivo prevalente è la massimizzazione delle
rese delle colture, si cerca di soddisfare a pieno le richieste colturali utilizzando
anche concimi minerali prontamente utilizzabili; questi migliorano la fertilità
chimica del terreno (per un periodo di tempo limitato) ma, se troppo puri e
concentrati, non contribuiscono a migliorare la fertilità complessiva del terreno,
non soddisfacendo, tra l’altro, alle esigenze di tutte le forme di vita presenti nel
terreno che utilizzano come fattori di crescita le sostanze organiche.
Di contro, in agricoltura biologica si tende a privilegiare l’impiego di sostanze
organiche naturali animali e/o vegetali di origine aziendale (residui colturali,
sovesci, letame). Queste sostanze, a differenza dei concimi minerali, presentano
percentuali di N, P
2
O
5
, K
2
O molto basse e in forma organica (e quindi meno
5
disponibili per le colture). Esse svolgono, quindi, un ruolo minore nella nutrizione
minerale delle colture ma, se inserite in un adeguato contesto agronomico,
consentono, nel medio-lungo periodo, di incrementare la fertilità complessiva del
terreno oltre una determinata soglia; superata tale ipotetica soglia, valutata in
termini di sostanza organica, raramente si possono produrre squilibri nutrizionali
nelle piante e quindi si permette alle colture di raggiungere livelli produttivi
soddisfacenti (Mazzoncini & Barberi 2002).
In agricoltura biologica la fertilità e l’attività biologica del suolo devono essere
mantenute o aumentate mediante:
la coltivazione di leguminose, di sovesci o di vegetali aventi un apparato
radicale profondo nell’ambito di un adeguato programma di rotazione
pluriennale;
l’incorporazione di letame proveniente da allevamenti biologici;
l’incorporazione di altro materiale organico, compostato o meno, prodotto da
aziende che operano nel rispetto delle norme dell’agricoltura biologica.
L’obiettivo di tutte queste pratiche è principalmente la produzione di alimenti,
siano essi di origine vegetale che animale, privi di residui tossici e integri nel loro
valore nutritivo. Analisi effettuate su alimenti di coltivazione biologica hanno
infatti evidenziato valori di sostanza secca, vitamine e minerali superiori rispetto a
prodotti di coltivazione convenzionale, ma il consumatore spesso è ancora
indirizzato verso l’acquisto di frutta e verdura, apparentemente perfetta e bella da
vedere, ma ricca soprattutto di acqua, perchè ottenuta con tecniche di forzatura
che ne aumentano il volume a scapito di un ridotto valore nutritivo, senza
considerare che, probabilmente, questa contiene residui tossici.
Si sottovaluta inoltre che la carne, la cui provenienza è spesso sconosciuta, e il
latte, potrebbero contenere residui di antibiotici o farmaci dannosi alla salute.
Le tecniche di allevamento biologico sono una valida risposta a questi reali
problemi.
Il metodo di coltivazione determina la qualità della terra, la terra determina la
qualità dell’alimento, l’alimento condiziona la vita delle cellule dell’organismo.
E’ quindi anche la qualità della coltivazione che decide della nostra salute.
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1.3 LOTTA BIOLOGICA
Per lotta biologica s’intende l’impiego di organismi viventi per contenere il
numero (sotto la soglia di danno economico) di specie vegetali e animali dannose
(Groppali 2004). Negli agroecosistemi e in gran parte dei boschi a sfruttamento
intensivo non è possibile ricorrere al controllo biologico naturale per contenere il
numero degli organismi nocivi: le quantità di predatori e parassitoidi degli insetti
fitofagi sono infatti ormai troppo ridotte per garantire un’azione efficace.
I limiti della lotta biologica sono comunque ancora piuttosto numerosi, e la
rendono applicabile efficacemente solo in alcune circostanze, destinate comunque
ad aumentare rapidamente in futuro in seguito a studi più dettagliati sulle specie
dannose e i loro antagonisti naturali.
Infatti la lotta biologica:
- non può essere efficace contro tutti gli organismi dannosi (soprattutto nelle
condizioni fortemente artificializzate degli agroecosistemi), e richiede profonde
conoscenze scientifiche sulle specie dannose e su quelle utili a esse correlate;
- non fornisce risultati costanti, perchè le popolazioni di specie utili sono soggette
anch’esse alle normali fluttuazioni numeriche degli equilibri dinamici negli
ecosistemi (permettendo a volte il superamento della soglia di danno economico);
- i risultati, che tendono a essere duraturi, non sono però mai immediati e hanno
un certo tempo di latenza prima di manifestarsi interamente;
- le dimensioni territoriali di applicazione devono essere sufficientemente elevate,
per contenere al massimo il rischio di ingresso di popolazioni di specie dannose
dalle aree limitrofe e, soprattutto, di evitare le contaminazioni derivanti dai
trattamenti chimici che vi hanno luogo, cui i predatori e parassitoidi sono in
genere particolarmente sensibili (Groppali 2004).
1.3.1 Metodi di lotta biologica
Oltre alla necessaria integrazione con metodologie strettamente agronomiche,
comprendenti l’eventuale miglioramento genetico delle piante coltivate e le
modalità di coltivazione più adatte a ridurre i danni potenziali, la lotta biologica si
propone di:
7
- migliorare presenza e azione delle specie utili presenti negli agroecosistemi;
- impiegare nel modo più efficace tutti gli antagonisti conosciuti delle specie
dannose.
Particolare interesse, sotto l’aspetto della conservazione di ambiente e paesaggio
tradizionali dei coltivi, rivestono i metodi che prevedono l’incremento dei nemici
naturali e soprattutto dei vertebrati utili (Groppali 2004).
Infatti, a tale scopo, devono essere conservate e gestite correttamente, e non di
rado ricostituite, le aree marginali dei campi coltivati, nelle quali la presenza di
varie essenze arboree e arbustive può consentire la sopravvivenza di un numero
sufficiente di organismi ausiliari.
Tali elementi ambientali, spesso limitati alla presenza di siepi e filari tra i coltivi,
possono e devono quindi costituire una sorta di serbatoio naturale per le specie
utili, che da essi potranno poi penetrare negli ambienti antropizzati limitrofi per
alimentarsi o deporre le uova, riducendovi quindi le presenze di organismi
dannosi.
Altri metodi di miglioramento ambientale, destinati a favorire alcune specie
particolarmente utili, sono:
- collocazione di strutture adatte a incrementare la presenza di antagonisti =
l’esempio migliore è rappresentato dai nidi artificiali per uccelli insettivori e dai
ripari per pipistrelli arboricoli, destinati a fornire un’alternativa alle cavità naturali
in alberi, eliminate da eccessi nello sfruttamento economico delle aree boscate;
- mantenimento degli elementi essenziali = ad esempio la presenza di alberi,
cespugli isolati o strisce incolte ai margini dei coltivi, mentre la conservazione,
entro boschi produttivi e pioppeti razionali, di esemplari morti perché stroncati
dalle avversità meteoriche consente ai picchi di disporre di luoghi adatti alla
nidificazione e alla ricerca del cibo;
- gestione protezionistica delle pratiche agricole = ad esempio con il taglio
dell’erba medica a strisce anzichè contemporaneamente in tutto il campo, le
specie utili possono spostarsi dalle piante sul terreno a quelle ancora in piedi,
conservando popolazioni sufficienti a contenere la proliferazione di specie
dannose.
8
La tipologia di lotta biologica maggiormente impiegata è comunque quella che
prevede l’impiego di organismi viventi per finalità dirette e il più possibile
immediate, con:
- controllo permanente = basato sull’introduzione degli antagonisti di una specie
dannosa proveniente da aree geografiche distanti, dopo averne studiato
sufficientemente biologia e possibilità di danno alle biocenosi locali:
l’insediamento di questi organismi viene anche definito “metodo propagativo”, in
quanto dopo l’avvenuto insediamento della specie introdotta, sarà essa stessa a
diffondersi nelle aree di maggior presenza del suo bersaglio;
- controllo temporaneo = l’impiego degli antagonisti viene assimilato a quello dei
pesticidi per la necessità di ridurre il più rapidamente ed efficacemente possibile
le popolazioni degli organismi dannosi: tale metodo, detto anche “metodo
inondativo”, si basa necessariamente sulla possibilità di produrre in biofabbriche
quantità sufficienti di individui delle specie utili (Groppali 2004).
1.3.2 Organismi impiegati nella lotta biologica
E’ possibile raggruppare le specie utili in alcune semplici categorie funzionali:
1) predatori = animali che si cibano, anche se di rado in modo esclusivo, della
specie dannosa e contribuiscono a contenerne il numero: potendo in genere
adattarsi anche ad altre prede, riescono a svolgere un ruolo di presidio ambientale,
mantenendo popolazioni sempre in grado di contenere le specie antagoniste;
2) parassitoidi = animali che, a differenza dei parassiti propriamente detti, nella
fase larvale dello sviluppo danneggiano (in modo irreparabile) il loro ospite: nella
quasi totalità dei casi attaccano esclusivamente una specie, risultando perciò
ininfluenti sulle altre presenze faunistiche, ma ciò comporta a volte la necessità di
ripetere il trattamento;
3) fitofagi = animali che si cibano di essenze vegetali dannose, e a volte ne
attaccano anche altre simili, provocando in tal caso danni di minor entità;
4) patogeni = microrganismi in grado di provocare malattie gravi o mortali nelle
specie dannose colpite, che spesso non si riproducono nell’ambiente e richiedono
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perciò la ripetizione del trattamento, e a volte attaccano anche specie
economicamente indifferenti, ma preziose a livello ambientale.
Da un punto di vista più strettamente sistematico è invece opportuno suddividere
gli organismi ausiliari nelle seguenti grandi categorie, ciascuna delle quali ha
modalità d’impiego e possibilità applicative differenti:
5) microrganismi = spesso utilizzabili nello stesso modo dei pesticidi, addirittura
ricorrendo ai medesimi strumenti meccanici impiegati nella loro diffusione;
6) antagonisti invertebrati = in un numero crescente di casi vengono allevati in
biofabbriche e successivamente liberati nelle colture danneggiate; a volte essi si
riproducono poi autonomamente e creano nuovi vantaggiosi equilibri negli
agroecosistemi, soprattutto nel caso di organismi dannosi introdotti
accidentalmente da aree geograficamente lontane;
7) antagonisti vertebrati = necessitano sempre di condizioni ambientali
sufficientemente equilibrate, anche soltanto in parti marginali degli
agroecosistemi, o di interventi mirati alla restituzione artificiale di nicchie
ecologiche eliminate dall’intervento dell’uomo (Groppali 2004).
1.3.3 Alcune definizioni
Esistono diversi gradi di specificità nelle relazioni fra piante e fitofagi o patogeni
(International Seed Federation 2004).
L’identificazione del tipo di specificità richiede in genere l’impiego di mezzi
analitici altamente elaborati. Riconoscere se una pianta sia soggetta oppure no a
un fitofago o un patogeno può dipendere dal metodo analitico utilizzato. E’
importante, in generale, sottolineare che la specificità dei fitofagi o dei patogeni
può variare nel corso del tempo e dello spazio, che dipende da fattori ambientali e
che possono comparire nuovi biotipi di fitofagi o nuove razze di patogeni in grado
di superare la resistenza.
Immunità: non soggetto ad attacco o infezione da parte di un determinato fitofago
o patogeno.
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Resistenza: è la capacità di una varietà vegetale di limitare la crescita e lo
sviluppo di un determinato fitofago o patogeno e/o il danno che provoca, rispetto
a varietà suscettibili poste nelle medesime condizioni ambientali e di pressione
infettiva del fitofago o del patogeno. Le varietà resistenti possono, tuttavia,
mostrare alcuni sintomi di malattia o di danno in presenza di una forte pressione
da parte di fitofagi o patogeni.
Suscettibilità: è l’incapacità di una varietà vegetale di limitare la crescita e lo
sviluppo di un determinato fitofago o patogeno.
Tolleranza: è la capacità di una varietà vegetale di sopportare stress abiotici senza
serie conseguenze per lo sviluppo, l’aspetto e la resa produttiva (International
Seed Federation 2004).
Di grande importanza nell’agricoltura biologica sono:
RESISTENZA PRE-INFEZIONALE:
- la resistenza o refrattarietà consiste in quel complesso di fattori che
ostacolano le possibilità d’incontro dei due attori del fatto infettivo, ad
esempio, le semine autunnali precoci o quelle primaverili tardive dei
cereali, che sfasano il ciclo dell’ospite rispetto a quello del patogeno,
diminuiscono le possibilità che nelle giovani piante l’agente della carie
(come il basidiomicete Tilletia tritici) si trovi per un lungo periodo in
condizioni di elevata patogenicità;
- la resistenza o refrattarietà all’inoculazione è costituita da tutto ciò di
cui la pianta dispone, per dotazione naturale, per impedire la penetrazione
del patogeno: ad esempio gli strati cerosi, i rivestimenti cutinizzati o
suberizzati che rinforzano le cellule epidermiche;
- la resistenza o refrattarietà alla diffusione della malattia ha inizio da
quanto la pianta, ancor prima che si sia diffusa l’infezione, cerca di
impedire la sua generalizzazione. Un esempio di resistenza alla diffusione
è offerto dall’ispessimento degli elementi xilematici, nelle alterazioni del
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legno, che ostacolano i miceli dei microrganismi sprovvisti di potere
lisigeno per la lignina.
RESISTENZA POST-INFEZIONALE O DIFESA: è rappresentata da una
serie di fenomeni della pianta-ospite che avvengono come reazione alla
presenza del patogeno.
La difesa può essere:
- attiva, come per lo più accade, se essa avviene per mezzo di
processi svolti nel medesimo organismo dal quale viene messa in
atto.
Le reazioni di difesa attiva possono rivolgersi al patogeno o
all’ospite.
Quelle del primo tipo si distinguono in: antinfezionali se tendono
all’eliminazione o neutralizzazione del patogeno, e antitossiche se
tendono a neutralizzare le tossine emesse da questo o dai prodotti
del disfacimento cellulare.
Una comune reazione di difesa antinfezionale da parte dell’ospite è
la produzione di fitoalessine, sostanze fungitossiche prodotte dalle
cellule sane in prossimità di quelle danneggiate dall’insediamento
dei patogeni o da altra causa di stress.
Le piante manifestano una potenziale capacità di sintetizzare tali
sostanze e le infezioni fungine, in pratica, ne stimolano un più attivo
ritmo di sintesi e il loro accumulo.
La condizione necessaria perchè una pianta possa risultare resistente
a un’infezione è pertanto quella di produrre una quantità tale di
fitoalessina da superare la soglia di tollerabilità del fungo.
Per contro, la suscettibilità all’infezione viene attribuita sia
all’incapacità da parte della pianta a produrre fitoalessine, sia alla
tolleranza del fungo nei riguardi di quella particolare fitoalessina
prodotta dalla pianta stessa.
- passiva, se è realizzata mediante processi svoltisi in altro
organismo nel corso di analoga malattia (Govi 1995).
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1.4 LINEE-GUIDA PER LA PRODUZIONE BIOLOGICA
DEI CEREALI AUTUNNO-VERNINI:
FRUMENTO (Triticum spp.), ORZO (Hordeum vulgare)
In un sistema di produzione biologico il cereale autunno-vernino, al pari di tutte le
altre specie, è da considerarsi come componente inscindibile di un ambiente
(agroecosistema) dal quale è sostenuto nella produzione e al cui funzionamento
contribuisce.
La sua coltivazione, per le sue specifiche finalità, si diversifica da quella
convenzionale.
L’avvicendamento colturale diventa il principale mezzo per la costituzione di un
ambiente di coltivazione che, in particolare per le caratteristiche del suolo,
soddisfi i principali fabbisogni del cereale (Bonciarelli & Bonciarelli 1996).
Terreni dotati di sostanza organica e disponibilità di azoto, di buona struttura
(contenuto grado di compattamento) e con ridotta pressione della flora infestante,
agevolano la coltivazione di queste specie che si caratterizzano per la spiccata
rusticità. L’agrotecnica si semplifica notevolmente, si riduce l’impiego di input
energetici e si contiene l’interferenza della coltivazione stessa sull’agroecosistema
aziendale.
1.4.1 Vocazionalità pedoclimatica
La coltivazione dei cereali autunno-vernini, generalizzando, è possibile dove la
piovosità annuale non scende al di sotto dei 500-600 mm. In particolare sono
preferiti i terreni di medio impasto, tendenti all’argilloso, che meglio conservano
la risorsa idrica, ma sono temuti i ristagni idrici.
1.4.2 Gestione della fertilità dei terreni
Obiettivo principale è creare suoli con caratteristiche idonee alla coltivazione dei
cereali autunno-vernini (Tab. 1.4.2.1) attraverso l’avvicendamento colturale e la
programmazione dell’intera rotazione (Bonciarelli & Bonciarelli 1996).