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INTRODUZIONE
Dopo la fine della contrapposizione tra i due blocchi, liberal-democratico e
socialista, negli anni ‘80, il numero delle operazioni di pace, dispiegate dalle
Nazioni Unite, è costantemente aumentato. E intanto, agli inizi degli anni ‘90,
anche le organizzazioni regionali hanno cominciato ad accrescere e migliorare
il loro contributo al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale,
sulla base di un‘autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, che rimane, ancora
oggi, il solo responsabile di questa funzione. La fine della guerra fredda ha,
infatti, determinato grandi trasformazioni nei concetti e nelle procedure della
sicurezza globale.
La prima trasformazione ha riguardato la natura dei conflitti. Abbiamo, infatti,
assistito ad una netta diminuzione dei classici scontri tra Stati per la conquista
territoriale e all‘aumento notevole dei conflitti intrastatali, le cui cause vanno
rintracciate nei settori economico, politico, istituzionale e umanitario. Infatti, le
principali minacce alla sicurezza globale, oggi, sono rappresentate dal
terrorismo, dalla criminalità organizzata, ma anche dal sottosviluppo
economico, che crea malcontento e forti disuguaglianze tra i vari gruppi
sociali, da violazioni dei diritti umani fondamentali e dalla mancanza di
istituzioni democratiche, che rispettino i diritti civili e politici e gli standard
dello Stato di diritto. Infatti, sono molti gli autori che, oggi, credono
nell‘esistenza di uno strettissimo legame tra sicurezza e pace da un alto e
sviluppo democratico dall‘altro. Si tratta dei sostenitori della c.d. teoria
liberale della pace, tra cui possiamo ben ritrovare le Nazioni Unite.
Essenzialmente essi sono fermamente convinti dell‘assunto secondo il quale le
democrazie non si combattono tra loro. Sia perché precise pratiche e procedure
impediscono ai governanti di adottare decisioni tempestive di politica estera,
tra cui quella di scatenare una guerra, sia perché le democrazie tendono ad
accordarsi legittimazione le une alle altre. Infine, consentendo la
partecipazione dei cittadini al processo decisionale e alla successiva
realizzazione delle politiche pubbliche, la democrazia riduce il malcontento
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della popolazione, che, attraverso le sue organizzazioni rappresentative, può
impedire l‘adozione di provvedimenti contrari agli interessi generali. Questo
aspetto è molto importante per quel che concerne i conflitti intrastatali, che
sono causati non solo da opposizione interetniche, ma più spesso dalla richiesta
di un maggiore coinvolgimento della popolazione nelle decisioni governative e
dalla fame.
Partendo da tutti questi presupposti e da questi importanti cambiamenti, è stato
necessario, prima di tutto per le NU, riformare anche il loro modo di mantenere
e costruire la pace. Ecco che il classico peacekeeping si riempie di significati e
funzioni totalmente nuove.
Innanzitutto, alla luce di questi processi di trasformazione post-Guerra fredda,
tutte le maggiori potenze hanno scelto la strada del ―multilateralismo
efficace‖. Il multilateralismo consiste in un insieme di pratiche, procedure e
principi, condivisi da più Stati, che si impegnano per il raggiungimento di un
fine comune, in tal caso, nel settore della pace e della sicurezza. Il
multilateralismo differisce dalla semplice cooperazione internazionale, perché
non si fonda, come quest‘ultima, sulla convergenza tra gli interessi dei diversi
Stati coinvolti. Esso richiede, invece, l‘adesione a comuni principi e valori, che
informano l‘azione. Questi principi, per essere creati, devono essere
continuamente negoziati all‘interno di conferenze ed organizzazioni
internazionali. Tra queste, naturalmente, spiccano le Nazioni Unite. Secondo la
Carta delle NU sono due i meccanismi multilaterali di sicurezza che gli Stati
possono implementare insieme: l‘imposizione di sanzioni di vario tipo,
diplomatiche, economiche, finanziarie e commerciali, e l‘intervento diretto nel
territorio di Stati responsabili di aver violato il diritto internazionale e i principi
della sicurezza globale. Sicuramente quest‘ultimo tipo di soluzione si è da
sempre rivelata la più efficace, ma è stata sottoposta ad una serie di vincoli per
evitare il risorgere di classici conflitti internazionali.
La crescita quantitativa e qualitativa degli ―interventi di pace‖ è legata anche ai
fenomeni di globalizzazione che hanno accresciuto i legami tra gli Stati, che
diventano sempre più interdipendenti. Così i problemi domestici degli Stati
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riguardano altresì quelli delle regioni più vicine, ma, in realtà, anche il resto del
mondo. Conseguentemente, è nata negli Stati più avanzati e democratici la
volontà di assumersi la responsabilità di proteggere il globo dal rischio di
nuovi conflitti: la ―responsibility to protect‖.
È chiaro che di fronte a queste tendenze si è modificato anche il modo, sempre
multilaterale, con cui gli Stati, principalmente attraverso le Nazioni Unite,
hanno risposto alle nuove minacce alla sicurezza globale. In questo nuovo
quadro, le peacekeeping operations si sono evolute e non sono più definibili
come semplici interventi di interposizione fra le parti, dispiegati con il
consenso dello Stato ospitante per porre fine ad un conflitto. Il peacekeeping
tradizionale si è arricchito di nuove funzioni.
Alle forze di interposizione tra le parti si aggiungono missioni di:
- Peace enforcement, necessarie per arrestare la violenza e composte
esclusivamente da personale militare;
- Peace making, volte essenzialmente a prevenire l‘escalation della
violenza, prima che il conflitto si manifesti esplicitamente;
- Peace building, miranti a ricostruire le strutture governative, politiche,
economiche, sociali, di polizia e militari e, dunque, volte a creare le
condizioni per una pace stabile e durevole.
Le nuove operazioni di pace si caratterizzano per una progressiva integrazione
tra tutte queste funzioni, che permettono loro di raggiungere un pieno successo.
La terza importante tendenza, oltre al multilateralismo efficace e
all‘integrazione dei compiti del peacekeeping, è quella che va verso la
regionalizzazione delle operazioni di pace. Il termine di regionalizzazione, in
un senso empirico, è impiegato per denotare l‘aumento del livello di attività,
svolte dalle organizzazioni regionali nel campo della gestione dei conflitti. Nel
senso normativo del termine, esso, invece, si riferisce all‘idea che ciascuna
regione internazionale ―dovrebbe essere responsabile delle sue attività di
peacemaking e peacekeeping‖ (Goulding, 2007).
Chiarito il significato del termine di regionalizzazione, è corretto affermare che
questo processo è stato favorito dalle stesse Nazioni Unite. Infatti, il Cap. VIII
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della Carta delle NU incoraggia gli accordi regionali, che sono considerati di
grande rilevanza anche per ciò che riguarda la risoluzione e prevenzione dei
conflitti. In questo senso la Carta ha creato un sistema flessibile, in cui il
Consiglio di Sicurezza rimane l‘attore che ha il monopolio dell‘autorità nel
settore del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ciò
permette all‘ONU, qualora le sia necessario in caso di mancanza di forze da
dispiegare o di altre difficoltà, di rivolgersi alle organizzazioni regionali,
delegando loro il dispiegamento di operazioni di pace nelle zone in cui esse
sono interessate. Dunque, sebbene a prima vista il processo di
regionalizzazione potesse erodere il monopolio delle NU in questo settore, in
realtà non ha fatto altro che rafforzarlo ulteriormente. Dunque, le
organizzazioni regionali possono giocare un ruolo davvero importante nella
gestione dei conflitti e nel mantenimento della pace. Innanzitutto, in alcuni
conflitti, esse possono fornire legittimità e credibilità, dal momento che
conoscono meglio di qualsiasi altro attore le caratteristiche dell‘ambiente
fisico, politico, economico, culturale e sociale, in cui il conflitto si produce.
Secondariamente, la loro prossimità regionale permette a queste organizzazioni
di dispiegare il loro personale in maniera molto più rapida rispetto a quanto
possano fare le NU. In terzo luogo, un potenziale beneficio derivante
dall‘intervento di organizzazioni regionali è legato al fatto che, spesso, le
popolazioni locali, coinvolte in un conflitto, preferiscono il coinvolgimento di
queste piuttosto che delle NU, le quali sono percepite come estranee al
contesto locale. In quarto luogo, la prossimità alle zone di crisi comporta, per i
Paesi limitrofi, la necessità di sopportare tutte le conseguenze del conflitto, che
necessariamente si ripercuotono in tutta l‘area contigua. Di conseguenza, ciò
incrementa il coinvolgimento delle organizzazioni regionali, che sono quasi
costrette ad intervenire, anche attraverso politiche di lungo termine, volte alla
prevenzione, prima che alla risoluzione, delle crisi. Infine, il coinvolgimento
delle organizzazioni regionali diventa la sola realistica opzione in quei
conflitti, in cui le NU hanno fallito o hanno deciso di non intervenire.
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Un aspetto negativo che deve essere nesso in evidenza, però, fa leva sul fatto
che le organizzazioni regionali possano essere spinte, nel loro intervento, da
interessi partigiani e che, quindi, non siano interessate ad essere coinvolte in
aree del mondo diverse dalla propria.
Un‘eccezione a questo fenomeno viene dall‘Unione Europea. Essa, infatti,
appare sempre più disponibile ad intervenire anche in zone molto lontane dal
vecchio continente, soprattutto per la sua storia, dominata dalla presenza dei
grandi imperi coloniali, da sempre interessati alle vicende di aree del mondo
molto differenti dalla propria.
Durante gli ultimi due decenni, la creazione e lo sviluppo della Politica di
Sicurezza e Difesa, infatti, ha permesso all‘Unione Europea di istituire capacità
militari e civili per rispondere a crisi e conflitti di vario tipo. Inizialmente, l‘UE
si è focalizzata soprattutto sulle zone più vicine ai suoi Stati membri, ma più
recentemente è apparsa sempre più interessata ad intervenire, anche su richiesta
dell‘ONU, nelle più diversificate aree del mondo: Medio Oriente, Asia, Africa
e America centro-meridionale.
È proprio per queste caratteristiche peculiari, che distinguono l‘Unione
Europea dalle altre organizzazioni regionali, che ho deciso di focalizzare la mia
ricerca su questa istituzione e sulle attività che essa compie nello scenario
internazionale, ai fini della tutela della sicurezza e della pace internazionali.
Nel trattare tutte le questioni fin qui tratteggiate, ho suddiviso la ricerca in tre
capitoli.
Il primo di essi è focalizzato sull‘attività di mantenimento della pace e di
gestione dei conflitti, con particolare enfasi sul ruolo delle Nazioni Unite,
quale attore fondamentale e monopolista nel settore della sicurezza e della pace
globale. Infatti, dopo aver dato adeguato spazio alle diverse teorizzazioni sul
concetto di peacekeeping, ho spiegato le linee della sua evoluzione, a partire
dal secondo dopo-guerra fino agli sviluppi più moderni, caratterizzati proprio
dai quei fenomeni di globalizzazione, regionalizzazione e implementazione del
multilateralismo efficace, che ho su elencato. Successivamente sono passata
all‘analisi delle principali funzioni delle peacekeeping operations e dei principi
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che le reggono. Si tratta del consenso delle parti coinvolte nel conflitto,
peraltro principio a cui ormai si fa sempre meno appello, alla luce della natura
dei conflitti contemporanei; dell‘imparzialità del personale della missione, che
non va confusa con la neutralità dell‘intervento, poiché è necessario per le
forze dispiegate prendere una posizione rispetto al conflitto, adottando azioni
deterrenti nei confronti di quella parte che si sia macchiata di violazioni del
diritto internazionale; infine, abbiamo il principio dell‘uso minimo della
violenza da parte delle forze di pace. Quest‘ultimo principio risponde alla
necessità di rispettare il dettato dell‘art. 2 della Carta delle NU, il quale impone
il divieto dell‘uso e della minaccia dell‘uso della forza per la soluzione delle
controversie. È chiaro, però, dall‘altro lato, che le forze di pace possono essere
costrette ad utilizzare la violenza armata per difendere se stesse e il mandato
della loro missione contro continue minacce tangibili, purché la forza armata si
limiti a perseguire questi fini.
A questo punto, dopo aver spiegato in via generale le caratteristiche e le
funzioni principali delle moderne operazioni di peacekeeping, è stato
necessario soffermarsi sulle altre attività a sostegno della pace che oggi
vengono promosse. Si tratta delle già citate attività di peacemaking, peace-
enforcement e peacebuilding, che oggi risultano sempre più integrate tra loro,
creando un nuovo tipo di missioni di pace, pronte ad affrontare qualsiasi
circostanza conflittuale e capaci di costruire le condizioni necessarie
all‘implementazione di una pace durevole e stabile nel tempo. Queste nuove
missioni, in sostanza, contemperano attività sia di gestione dei conflitti che di
prevenzione delle crisi, eliminando le potenziali cause di una recrudescenza
della violenza. Infine, l‘ultima parte del capitolo primo è dedicata all‘analisi
del framework legale e burocratico, nel quale le Nazioni Unite si attivano a
tutela della pace.
Il secondo capitolo si occupa del ruolo svolto dall‘organizzazione
internazionale su cui ho voluto concentrarmi. Come già detto, in seguito ai
fenomeni di regionalizzazione, l‘UE è stata sempre più costretta a sviluppare
una propria politica estera e di difesa, che non si presentasse semplicemente
13
come mera sommatoria delle posizioni nazionali. Soprattutto la crisi in Bosnia-
Herzegovina dei primi anni ‘90, che ha coinvolto un Paese davvero molto
vicino al territorio dei suoi Stati membri, ha messo in evidenza tutte le
debolezze dell‘Unione, che ha avviato un processo di riflessione
sull‘opportunità di sviluppare proprie capacità di intervento nei teatri di
conflitti più vicini alla propria area. Questo processo ha raggiunto il suo primo
traguardo con il vertice anglo-francese di Saint-Malo, attraverso il quale è stata
creata la Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD). A partire da quel
momento, è stato possibile registrare costanti evoluzioni in tale processo, che
hanno permesso all‘Unione di possedere strumenti estremamente diversificati
di tutela della pace internazionale. Proprio per la sua natura di ―potenza
normativa o civile‖, quale è stata più volte definita per mettere in evidenza la
sua tendenza a privilegiare mezzi civili d‘azione piuttosto che militari,
inizialmente la Comunità Europea si è focalizzata sulla creazione di strumenti
di prevenzione dei conflitti. Tutta la prima parte del secondo capitolo è
incentrata sull‘individuazione degli strumenti pratici, attraverso i quali la
Comunità, spesso coinvolgendo il Consiglio dell‘UE, affronta le c.d. ―cause
profonde‖ di una crisi. Innanzitutto, è necessario chiarire che queste cause
profonde sono identificate dalla Commissione nel sottosviluppo economico,
nell‘assenza di democrazia, nel mancato rispetto dei diritti umani e dei principi
dello Stato di diritto, nei problemi ambientali, nelle storiche rivalità tra gruppi
etnici, linguistici e nazionali differenti.
Comunque, la Commissione cerca, attraverso il sistema dell‘allerta precoce, di
riconoscere in quali aree esistono cause strutturali, potenzialmente generatrici
di conflitti. Per eliminare queste condizioni strutturali la Comunità
essenzialmente sfrutta il suo ruolo economico, finanziario e commerciale.
Attraverso la politica di cooperazione allo sviluppo, gli accordi regionali e di
politica ambientale e gli strumenti volti a indurre i suoi partner ad aderire agli
standard umanitari e democratici universali, la Comunità Europea cerca di
evitare il sorgere di conflitti. Accanto a questi strumenti di lungo termine, l‘UE
dispone anche di strumenti di breve termine, quali il dispiegamento preventivo
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di forze o le sanzioni, attraverso cui agisce per sopprimere le cause immediate
di una crisi emergente.
La seconda parte di questo capitolo è, invece, dedicata agli strumenti di
gestione dei conflitti già in atto, che permettono all‘Unione di intervenire per
porre fine alla violenza. In questo caso, è stato utile, perlomeno inizialmente,
considerare separatamente le capacità militari e civili, sviluppate dall‘UE.
Infatti, per molto, essa non è riuscita a coordinare queste differenti capacità,
inviando operazioni di pace di natura o civile o militare. Il capitolo mette, a
questo punto, in evidenza i principali passaggi evolutivi che l‘UE ha percorso
nella creazione dei suoi strumenti, fino ad occuparsi, nella parte conclusiva,
dell‘implementazione della ―civil-military cooperation‖. Si tratta di un insieme
di meccanismi, strutture e procedure che, oggi, consentono all‘Unione Europea
di utilizzare congiuntamente le sue capacità militari e civili, per far fronte alle
più diverse circostanze conflittuali.
Dunque, è stato possibile concludere che l‘Unione Europea adotta un
approccio di tipo strutturale e comprensivo nelle sue attività a tutela della pace
globale. Essa, infatti, sta dimostrando di voler incrementare sempre più il
coordinamento e la coerenza dei suoi strumenti civili e militari di gestione
delle crisi, sia sul campo che nella fase di pianificazione, ma soprattutto di
voler integrare le sue attività di conflict prevention con quelle di crisis
management.
Il mio obiettivo è quello di dimostrare come l‘Unione si sia effettivamente
evoluta, divenendo un attore fondamentale per la comunità transnazionale
anche in questo settore, e di comprendere se gli strumenti da essa sviluppati, in
particolare per ciò che concerne la gestione delle crisi, siano realmente efficaci
ed efficienti. Infine, vorrei cercare di indagare quali siano le maggiori lacune,
presentate nelle operazioni di conflict management, e qual è l‘obiettivo su cui
l‘Unione dovrà concentrare i suoi sforzi per eliminarle, rintracciandolo
prevalentemente nella ricerca di una maggiore coerenza tra tutti gli strumenti
da essa sviluppati.
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Per far ciò, nel terzo capitolo, mi sono dedicata all‘analisi degli interventi
dispiegati dall‘Unione Europea in una delle regioni più travagliate da conflitti
intra e interstatali di diversa origine: la Repubblica Democratica del Congo.
Infatti, lo Stato, di recente formazione, è teatro da molti anni di conflitti di
natura economica ed etnica, che vedono coinvolte altre nazioni africane, quali
Uganda e Rwanda, nonché i principali gruppi etnici congolesi, Tutsi, Hutu,
Lendu ed Hema. Il conflitto è stato, ma lo rimane tuttora, talmente aspro da
essere stato definito ―Guerra Mondiale Africana‖. Mi è sembrato, dunque,
particolarmente interessante studiare come l‘UE abbia deciso di intervenire in
questa grave crisi, come abbia utilizzato i suoi strumenti e quali lacune le sue
operazioni abbiano evidenziato. Tra l‘altro, l‘Unione ha mostrato sempre un
forte e costante interesse verso le vicende di questa Nazione, dispiegando
missioni che coprono tutte le principali funzioni delle moderne peacekeeping
operations: missioni di peace-enforcement di natura militare, di institution-
building di natura civile, occupandosi della Riforma del Settore di Sicurezza,
di osservazione elettorale e di peace support, sostenendo l‘azione
dell‘operazione delle NU, MONUC, durante il periodo elettorale.
Dopo aver tratteggiato i principali avvenimenti che hanno caratterizzato il
conflitto nella RDC, sono passata all‘analisi delle diverse operazioni di pace,
inviate dall‘Unione, analizzandone le basi legali, il mandato e gli obiettivi
inizialmente prefissati e confrontando questi ultimi con i risultati
effettivamente raggiunti sul campo e le eventuali lacune riscontrate. La prima
operazione, Artemis del 2003, è stata di natura puramente militare ed aveva il
semplice mandato di evitare l‘escalation della violenza per un periodo di tre
mesi, per permettere alla missione ONU, MONUC, di riorganizzare il proprio
personale. Ad essa sono seguite ben tre missioni civili, che si sono occupate
della riforma della polizia nazionale e dell‘esercito congolese, per creare
istituzioni di sicurezza altamente professionali ed avanzate: EUPOL Kinshasa,
EUPOL RD Congo ed EUSEC RD Congo. Le ultime due sono ancora attive
sul campo e continuano ad implementare il loro mandato.
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Una seconda missione militare, EUFOR RD Congo, è stata inviata nel Luglio
2006 per supportare la MONUC, nelle sue attività di protezione della
popolazione civile e delle autorità congolesi, durante il periodo elettorale, che
rappresentava un‘importante svolta nel processo di democratizzazione del
Paese. Contemporaneamente, l‘Unione ha dispiegato una missione di
osservazione elettorale, per monitorare l‘andamento delle operazioni di voto e
di conteggio dei risultati, nonché l‘attività dei media, che, come sappiamo,
sono attori fondamentali nella campagna elettorale, avendo anche la possibilità
di influenzare direttamente il voto della popolazione.
L‘elemento di maggior interesse ha riguardato la costante collaborazione, sia
nella fase di pianificazione che in quella successiva di implementazione del
mandato, tra le missioni dell‘Unione Europea e la MONUC, già presente sul
suolo congolese dal 1999. Ciò dimostra che per le NU l‘Unione è diventata,
ormai, un partner strategico e di gran valore nel mantenimento della sicurezza
internazionale, essendo essa particolarmente disponibile ad impegnarsi in
territori anche molti distanti dal vecchio continente.
Infine, per quanto riguarda la metodologia che ho seguito nello studio di
quest‘importante tematica, ho utilizzato un approccio strutturale nel parte
iniziale del primo capitolo, essendomi concentrata sull‘analisi delle funzioni,
dei principi e dei concetti di peacekeeping in via generale; globale nella parte
conclusiva del medesimo capitolo, dal momento che ho studiato in maniera più
approfondita le operazioni di pace, dispiegate da un‘istituzione internazione
ben precisa, le NU; un approccio regionale nel secondo capitolo,
focalizzandomi sullo studio delle attività di prevenzione e gestione delle crisi
di un‘organizzazione regionale, l‘Unione Europea; ed, infine, un approccio di
tipo operativo nel terzo ed ultimo capitolo, in cui ho analizzato le
caratteristiche e le funzioni di singole operazioni di gestione dei conflitti.
17
CAPITOLO I
Il Peace-keeping: nascita ed evoluzione
1. La difficile definizione di Peace-keeping
Così come il numero e le funzioni delle Peacekeeping Operations (PKOs),
anche le teorie e le definizioni prodotte per comprenderle, sono notevolmente
aumentate nel corso degli anni. Inoltre il processo di globalizzazione ha
trasformato la struttura della comunità internazionale, che è diventata ormai
transnazionale, coinvolgendo attori sempre più differenti. E questo
cambiamento ha influenzato anche il concetto di Peacekeeping. A tutt'oggi,
quindi, non esiste ancora unanime accordo sulla definizione di Peacekeeping.
Innanzitutto, sussiste un contrasto tra un approccio "Westfaliano" ed uno "post-
Westfaliano" rispetto al ruolo ed al concetto delle PKOs. Secondo la prima
corrente di pensiero, la funzione fondamentale del PK è vegliare sull'attuazione
degli accordi di pace nei conflitti tra gli Stati. Tale concezione discende
dall'idea Westafliana che pensa l‘ ordine internazionale come un insieme di
Stati, dotati ciascuno di propria sovranità ed autonomia, fondato sulla non
interferenza negli affari interni di ciascuna entità statale. Nella sua prospettiva
più estrema, tale visione sostiene che persino la violazione dei diritti umani,
imputabile agli Stati, rientri nei loro affari interni e non possa, dunque, essere
oggetto di competenza delle PKOs.
Al contrario, la concezione post-Westfaliana del PK si fonda sull'idea liberale
di pace, che per imporsi richiederebbe l'esistenza di Stati democratici e liberali,
e sulla convinzione, dunque, che anche gli affari domestici di ciascuno Stato,
dai conflitti interni alle violazioni dei diritti umani fino all'instaurazione di
governi illiberali, possano costituire, oltre agli atti di aggressione, minacce alla
pace e alla sicurezza internazionale. Secondo questa corrente di pensiero,
quindi, il ruolo del PK consiste non solo nel mantenere la sicurezza
18
internazionale, ma anche nel promuovere e rafforzare la pace e la stabilità
politica, sociale, economica e istituzionale degli Stati.
1
Tale contrasto non si è ancora risolto. Anche se è possibile notare una
prevalenza del secondo approccio, quello post-Westfaliano. Una prima prova
di questa prevalenza arrivò nel 2005 nell'ambito delle Nazioni Unite, quando
più di 150 Stati membri fecero sapere di volersi assumere la responsabilità
della protezione della propria popolazione da qualsiasi crimine.
Nonostante, comunque, oggi sia rintracciabile un certo consenso nella dottrina
e nelle diverse organizzazioni internazionali sul concetto di PKOs, molti
governi hanno utilizzato tale termine per giustificare e legittimare le proprie
attività. Ad esempio, il Presidente degli USA, Ronald Reagan, nel 1983,
quando autorizzò l'invasione di Grenada, chiamò le forze statunitensi
"Caribbean Peacekeeping Force".
Anche la dottrina, comunque, rimane divisa rispetto a tale concetto. Marrak
Goulding (promotore della creazione del Dipartimento delle PKOs e nel 1993
Vice-Segretario Generale dell‘ONU per gli Affari Politici) ha definito le PKOs
come delle operazioni stabilite dall'ONU, con il consenso delle parti
interessate, per risolvere i conflitti tra di esse, sotto il comando e il controllo
delle NU stesse. Esse sono, inoltre, costituite da personale militare, messo a
disposizione volontariamente dagli Stati membri dell'ONU e che agisce in
maniera imparziale, usando la forza al minimo, solo quando strettamente
necessario.
2
O ancora, Paul F. Diehl (professore del Dipartimento di Scienze
Politiche presso l'University of Illinois at Urbana-Champaign) sostiene che il
PK consista nell' ―imposizione di forze di interposizione, neutrali e poco
armate, che, con il consenso dello Stato sul cui territorio sono dispiegate,
devono monitorare la cessazione delle ostilità, scoraggiare la ripresa del
conflitto militare e creare un ambiente sicuro, nel quale la controversia possa
essere risolta‖.
3
1
Alex J. Bellamy & Paul D. Williams (2010), Understanding peacekeeping, Polity Press.
2
M. Goulding (1993), The Evolution of United Nations Peacekeeping, International Affairs,
69: pp.451-464.
3
P. F. Diehl (1994), International Peacekeeping, John Hopkins University press.
19
Queste due definizioni sono, però, state criticate, perché considerate troppo
limitative e riduttive. Mentre la prima esclude le operazioni di pace condotte da
coalizioni di Stati, da organizzazioni regionali e più in generale da qualsiasi
attore diverso dalle NU, la seconda non prende in considerazione la possibilità
che le missioni di pace siano composte anche o solamente da personale non
militare.
Per questo motivo è stata proposta un'altra definizione, proposta dalla
International Peace Academy, secondo cui il PK consiste nel prevenire,
contenere, moderare e porre fine alle ostilità tra Stati o all'interno di Stati,
attraverso la mediazione di una parte terza, che usi forze multinazionali,
composte da soldati, polizia e personale civile, per ripristinare e mantenere la
pace.
Ma anche quest'ultima definizione ha incontrato forti critiche, poiché, da un
lato, essa è troppo estensiva, includendo qualsiasi tentativo di mediazione tra le
parti, che vada anche oltre il PK vero e proprio, e dall'altro, invece, risulta
essere anch'essa riduttiva, facendo riferimento al solo dispiegamento di truppe
internazionali di soldati, polizia e personale civile.
Il problema definitorio non riesce a trovare una soluzione anche a causa del
fatto che i termini di PK e PKOs non compaiono nella Carta delle Nazioni
Unite.
Gli Stati membri rimangono, infatti, divisi su tale concetto e sugli scopi delle
PKOs delle NU.
Nel 1992, il rapporto dell'allora Segretario Generale Boutros Boutros Ghali, An
Agenda For Peace, ha definito il peacekeeping come il dispiegamento di forze
sul campo, fino a quel momento solo con il consenso delle parti interessate,
che includono normalmente personale militare e/o civile e di polizia delle NU.
Il Peacekeeping sarebbe, quindi, uno strumento ulteriore a disposizione
dell'ONU per prevenire i conflitti e costruire la pace; ma già Dag
Hammarskjold aveva considerato il peacekeeping come una delle possibili
attività, rientranti nella «preventive diplomacy».
20
Nel 2003 attraverso l'Handbook on Multidimensional Peacekeeping
Operations, le NU hanno semplicemente elencato le funzioni civili e militari, a
cui i loro peacekeepers avrebbero dovuto assolvere. L'ONU ha ripetuto questo
approccio nel 2007, quando ha approvato la c.d. "Dottrina Capstone", una
sorta di guida nella condotta delle sue operazioni di pace.
Inoltre il Dipartimento delle Operazioni di Peacekeeping (DPKO, Departement
of Peacekeeping Operations) ha definito il Peacekeeping semplicemente come
una delle cinque attività delle NU a tutela della pace e della sicurezza
internazionale: preventive diplomacy (azioni diplomatiche per prevenire
conflitti), peacemaking (attività tese a trovare un accordo tra le parti) e
peacebuilding (attività per costruire la pace in una situazione post-
conflittuale).L'unica definizione rintracciabile nell'ambito dell'ONU è quella
che considera il PK come "a unique and dynamic instrument developed by the
Organization as a way to help countries torn by conflict and create the
conditions for lasting peace"
4
.
Il concetto di peacekeeping ha comunque subito un'evoluzione: le più recenti
missioni sono impegnate nella costruzione delle istituzioni statali,
nell'imposizione della pace, nella difesa e promozione dei diritti umani, nel
monitoraggio dei processi elettorali democratici ecc..
Inoltre, nell'odierna comunità transnazionale, è possibile notare la presenza di
un numero crescente di PKOs, condotte da attori diversi dalle NU; dunque,
alcune delle più recenti definizioni rifiutano l'idea di mantenere il concetto di
PK legato alle sole NU.
William Durch ha definito le PKOs come un insieme di sforzi di natura civile
e militare, multilaterali e internazionalmente autorizzati, per promuovere e
proteggere la transizione dal conflitto alla pace.
5
O ancora il Centro sulla
Cooperazione Internazionale (CIC, Center on International Cooperation) ha
affermato che le PKOs, che non coinvolgono le NU, possono essere
4
―uno strumento unico e dinamico sviluppato dall'ONU per aiutare paesi tormentati da
conflitti e per creare le condizioni di pace definitiva‖, http://www.un.org/en/peacekeeping/.
5
W. Durch (2006), Twenty-first century peace operations, US Institute of Peace.