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diversi punti di vista. Si può, per esempio, considerare il
comportamento aggressivo, come un tratto della personalità, un
istinto, un comportamento appreso, una risposta osservabile. Inoltre
nella letteratura sull’argomento, non si pratica una distinzione tra
aggressione ed aggressività; in parte i due concetti, vengono
considerati come sinonimi. Più spesso, però, l’aggressività sta a
significare una tendenza costante ad un’azione o reazione aggressiva.
Merz definisce aggressioni, quelle azioni dirette a danneggiare
direttamente o indirettamente un individuo della nostra specie (Merz,
1965). Per Becker (1969), le aggressioni sarebbero meccanismi interni
o esterni, che producono un danno dell’oggetto, sia che si tratti di un
danno fantasticato, progettato o realizzato. In entrambe le definizioni,
viene sottolineato l’elemento intenzionale del danneggiamento. Molti
ricercatori americani, hanno tentato di escludere l’intenzione, in
quanto non accessibile all’osservazione. Pertanto Buss interpreta
l’aggressione, come una risposta che produce stimoli dannosi a un
altro organismo (Buss,1961).
Nell’ambito della vasta letteratura psicologica sull’aggressività,
numerose bibliografie hanno evidenziato come il comportamento
aggressivo, lontano dal rappresentare un costrutto omogeneo, si
articoli in differenti tassonomie comportamentali. I tentativi compiuti
per giungere ad una definizione eterogenea di tale costrutto,
concordano nell’individuazione di alcune tipologie principali. Tali
tipologie sono: aggressività diretta, che si riferisce a forme di
aggressione, orientata verso gli individui, allo scopo di arrecare loro
un danno fisico o morale; aggressività specifica, propria di situazioni
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in cui il comportamento aggressivo, è finalizzato ad ottenere oggetti o
posizioni specifiche; aggressività ludica, che comprende una serie di
comportamenti che pur presentando una valenza di tipo aggressivo, si
verificano nel corso di un gioco o di una gara, assumendo di volta in
volta significati relazionali diversi, esplorativi o competitivi.
L’eterogeneità dei comportamenti che, rientrano nella definizione del
termine aggressività, la rendono un'emozione molto generica e vaga.
Per cui di recente, è emersa la consapevolezza, di non poterla più
considerare come un fenomeno unidimensionale, ma di dover studiare
i processi emotivi e cognitivi dell’individuo che caratterizzano i vari
tipi di condotta aggressiva. Bandura (1991), distingue due livelli di
definizione del meccanismo di aggressione: un livello generico,
relativo alla delimitazione del fenomeno, e un livello specifico,
relativo ai diversi meccanismi inclusi nella definizione.
Recenti studi, hanno rilevato l’importanza di questo secondo livello,
rivalutando, da una parte, il ruolo delle differenze individuali e delle
caratteristiche temperamentali, e, dall’altra, i processi cognitivi,
emotivi, e relazionali che sottendono il comportamento aggressivo.
Le difficoltà incontrate nel definire l’aggressività, hanno portato
Storr (1968), a concettualizzare l’aggressività come una parola-valigia
entro la quale, si può mettere di tutto.
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I.2. Principali teorie
- La teoria psicoanalitica
Prima di pervenire ad una riflessione più attenta sulla natura, le
origini, e le vicissitudini dell’aggressività, Freud si è occupato del
fenomeno in un modo di cui lui stesso, non ha esitato a riconoscere
l’indeterminatezza e la frammentarietà. Il concetto di aggressività in
Freud si è sviluppato in tre momenti. Si può distinguere una prima
fase della teorizzazione che arriva fino al 1915, periodo in cui egli
considerò l’aggressività come un aspetto della pulsione sessuale,
ipotizzando che essa potesse costituire una reazione alla frustrazione.
In una seconda fase, l’aggressività non viene più considerata da Freud,
come parte delle energie libidiche, ma come strumento
all’autoconservazione e all’ampliamento dell’Io. Infine egli elabora
una nuova teoria basata su due istinti, entrambi presenti nell’uomo:
uno teso verso il piacere (Eros), l’altro verso la distruzione (Thanatos).
Per evitare l’autodistruzione, l’energia distruttiva che deriva dal
secondo istinto, va allontanata dall’individuo, indirizzandola verso
l’esterno (Freud 1995). Di particolare interesse nella psicoanalisi
contemporanea, è l’interpretazione fornita da Melanie Klein, la quale
riprende e approfondisce la teoria freudiana del doppio istinto,
applicandola alle prime fasi dello sviluppo individuale. Secondo
l’autrice gli impulsi distruttivi assumono una funzione fondamentale
nella prima infanzia, nello sviluppo dell’Io e del Super-Io.
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L’autodistruttività originaria primaria viene contenuta e deviata
grazie all’emergenza dell’Io, mentre le pulsioni distruttive e
l’angoscia danno origine al Super-Io (Klein 1932; 1957).
L’interpretazione della Klein fu rifiutata dalla maggior parte degli
psicoanalisti, a causa del suo carattere speculativo, e soprattutto
perché contraria all’evidenza clinica (Storr, 1968; Ammon, 1970;
Fromm, 1973). Adler, fin dal 1908, aveva sostenuto che, non la
sessualità ma l’aggressività rappresenta la più importante pulsione
dell’uomo; non si tratta però di una pulsione di morte, ma di una
tendenza volta a dominare la realtà.
Questa concezione ha trovato una recente rielaborazione in Ammon
e Storr. Essi considerano l’aggressività una potenzialità adattiva
indispensabile alla sopravvivenza, ed allo sviluppo dell’Io;
l’aggressività diventa distruttiva nel momento in cui, nel corso dell’età
evolutiva, l’autoaffermazione viene impedita ed il bambino è
sottoposto a frustrazioni precoci e continuate.
Un altro psicoanalista che si è interessato del comportamento
aggressivo, differenziando la sua teoria da quella di Freud, è Erich
Fromm. Egli distingue un’aggressività benigna, ed una maligna. La
prima, che ha base biologica, serve all’uomo per difendere i propri
interessi, ed è una reazione innata. La seconda, ha la sua radice nella
struttura caratteriale dell’uomo, ha dunque origine sociale e può
trasformarsi in distruttività.
Quest’ultima può trasformarsi in distruttività, a causa dei valori e
dei modelli che la società propone. Pertanto la distinzione operata da
Fromm tra un’aggressività filogenetica benigna, ed una di origine
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unicamente sociale, potenzialmente distruttiva, sposta però il
problema dall’individuo alla società, senza spiegare perché la società,
fatta di uomini, sia fonte di distruttività.
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- La teoria comportamentista.
La teoria comportamentista, considera l’aggressività, come un
istinto interno, stimolato da eventi esterni. L’ipotesi più nota in tale
prospettiva, è quella definita di frustrazione-aggressività di Dollard e
collaboratori (1967). Secondo tale teoria, la frustrazione (un ostacolo
all’avvicinamento dell’individuo verso un dato traguardo o
l’impedimento della soddisfazione di taluni bisogni), ha parecchie
conseguenze. Una è la tendenza all’aggressività verso la causa che ha
ostacolato il traguardo, per cui la frustrazione provoca sempre
manifestazioni aggressive, e viceversa l’aggressività è provocata da
uno stato di frustrazione.
Questa impostazione teorica è risultata, per alcuni autori, troppo
generica, in quanto: 1) non sempre uno stato di frustrazione implica lo
scatenarsi di uno stato aggressivo, potendo creare altre reazioni come
inattività o depressione; 2) si può essere aggressivi senza un
precedente stato di frustrazione. Berkowitz (1962; 1968; 1975),
concorda con questa posizione, in quanto riconsiderando l’ipotesi
frustrazione-aggressività, definisce la frustrazione come
un’interruzione di un’attività finalizzata al conseguimento di un
obiettivo, e l’aggressività come l’intenzione di offendere una persona.
Egli distingue tra condotte aggressive, provocate da uno stato di
eccitazione emotiva, associate a rabbia o irritabilità, e condotte
aggressive poste in atto in vista del raggiungimento di uno scopo,
rispetto al quale l’intenzione di arrecare offesa, assume un’importanza
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secondaria. Per tale tipo di manifestazione aggressiva, rimane valida
l’ipotesi di un rapporto diretto tra frustrazione e aggressività.
Berkowitz pone l’accento sull’importanza dei fattori esterni, che
sollecitano determinati comportamenti aggressivi. Questi fattori
esterni, o stimoli, possono provocare uno stato di attivazione emotiva,
e quindi creare le condizioni per una condotta aggressiva, qualora
siano associate ad esperienze di aggressività. Barker, Dembo e Lewin
(1941) e French (1944) parlando di frustrazione, hanno messo in
evidenza che ci si riferisce non tanto, all’impedimento obiettivo, ma al
tipo di equilibrio psichico disturbato da tale ostacolo. Barker et al.
(1941) sostengono che la prima reazione ad un evento frustrante è
sempre una reazione di tipo regressivo, più che aggressivo. Nel
tentativo di ridefinire la frustrazione, Rosenzweig (1941;1944), ha
richiamato l’attenzione sugli aspetti soggettivi che ogni individuo
attribuisce agli eventi frustranti, in quanto l’ostacolo al
soddisfacimento dei bisogni provoca reazioni diverse per qualità ed
intensità.
A tal proposito si possono distinguere due tipi di frustrazione e due
classi di relazioni:
1) le privazioni che coinvolgono il rapporto tra soggetto, realtà ed
Ego;
2) le privazioni che riguardano solo una parte del rapporto.
Al primo tipo di ostacolo il soggetto reagisce per preservare l’Ego;
nel secondo caso manifesta comportamenti specifici, il cui scopo è
quello di ristabilire l’equilibrio. Da ciò si deduce che tutti gli eventi
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definiti “frustranti” hanno lo stesso peso sugli atti aggressivi. Attacchi
fisici, insulti, competizione, causano un effetto diverso sul verificarsi
di un comportamento aggressivo. Tutti gli studi recenti, hanno
confermato che non esiste un rapporto univoco tra aggressività e
frustrazione; cosi’come la frustrazione può portare alla manifestazione
di azioni diverse dall’aggressività, quest’ultima può essere dovuta a
cause differenti dalla frustrazione.
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- La teoria etologica.
Alcuni autori sono propensi a ritenere l’aggressività parte integrante
del nostro bagaglio istintuale. Questa posizione è condivisa dagli
etologi, come Konrad Lorenz. Studiando il comportamento
aggressivo, in molte specie animali, egli è giunto alla convinzione che
i medesimi comportamenti aggressivi, di origine istintuale, sono
presenti anche nell’uomo, con la differenza che, se l’animale modula
la propria aggressività, bloccando l’azione con un mezzo di controllo,
l’uomo, pur avendo le stesse possibilità dell’animale, non le sfrutta,
anzi lo sviluppo delle capacità mentali, gli consente\ di creare
modalità di distruzione altamente sofisticate. Lorenz, nel suo libro “Il
cosiddetto male” (1969), considera l’aggressività, come una pulsione
che si carica per forza endogena e che, raggiunto un certo livello
d’intensità, spingerebbe l’organismo in circostanze nelle quali può
essere soddisfatta.
Quando non si verificano tali circostanze, potrebbe prodursi un
livello di aggressione tale, da costringere l’istinto ad una scarica,
senza la presenza di stimoli esterni. Secondo la teoria etologica
l’aggressività, che ha la funzione di aiutare la specie nella
sopravvivenza, può essere intraspecifica quando si attua tra membri
della stessa specie, ed interspecifica tra membri di diverse specie.
La funzione dell’aggressività viene considerata da tre punti di vista.
In primo luogo dal punto di vista della concorrenza nella lotta per
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l’esistenza, in cui vincono gli animali più forti che, in tal modo,
portano avanti l’evoluzione delle specie.
In secondo luogo da quello della cosiddetta lotta per il territorio,
lotta nella quale gli animali della stessa specie si respingono a
vicenda, assicurando in tal modo lo sfruttamento dello spazio vitale
(biotopo) a disposizione.
In terzo luogo, la funzione dell’aggressività viene considerata, dal
punto di vista di un principio organizzativo, ordinatore. La vita
comunitaria organizzata di animali superiori, non può svilupparsi
senza un ordine gerarchico. Il rango nella gerarchia, viene stabilito
con combattimenti per la supremazia, rimanendo quindi abbastanza
stabile, anche se la posizione di animali vicini per rango può subire
qualche spostamento. In tal modo, si evita, da un lato il verificarsi di
comportamenti aggressivi all’interno del gruppo, e dall’altro, il debole
trova protezione grazie all’esistenza stessa di una gerarchia.
Lorenz sostiene che l’aggressività non si può eliminare ma si può
cercare di incanalarla e dirigerla verso forme di scarica non pericolose
come attività sportive, artistiche etc.
Un altro etologo che si è interessato al problema dell’aggressività è
Eibl-Eibesfeldt (1970). L’autore considera l’aggressività come un
comportamento innato, e distingue diverse cause che la scatenano:
competizione per il cibo; difesa di un animale giovane; lotta per
stabilire la gerarchia. Il problema che si pone questo autore, è quello
di individuare il ruolo che assume l’apprendimento nel determinare il
comportamento aggressivo. Egli ha analizzato le basi filogenetiche dei
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riti sociativi, che creano tra gli uomini un vincolo personale atto ad
inibire in modo positivo, il comportamento aggressivo ed a stimolare i
legami affettivi. L’essenza di una socialità primaria nell’uomo, trova
conferma nelle ricerche dei teorici dell’attaccamento (Harlow, 1965;
Bowlby, 1969). Secondo Eibl-Eibesfeldt nell’aggressività, cosi’come
nei riti sociativi, patrimonio filogenetico e cultura si influenzano
reciprocamente.
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I.3. L’Aggressività in età evolutiva
L’aggressività è una modalità comportamentale, che può essere
costruita durante la crescita (Trama 1991), e può dipendere dallo
sviluppo motorio e cognitivo e dall’ambiente sociale (Costabile1996).
Nel neonato è possibile individuare un comportamento che non è
genericamente attivo, bensì’ aggressivo, poiché è volto al superamento
di ciò che è di ostacolo alla sua realizzazione, e di pericolo alla sua
integrità fisica.
Alcuni autori hanno ipotizzato l’esistenza dell’aggressività fin
dall’età precoce (Clemen 1957’, Hinde 1974, e Szegal 1985). Ai primi
stadi dello sviluppo, l’aggressività si accompagna ad evidenti
caratteristiche emotive. In particolare, nel periodo che va dai 6 ai 12
mesi, l’espressione dell’aggressività è sensomotoria e massiva, e
coinvolge tutto il corpo: il volto diventa rosso, le braccia e le gambe si
agitano, tutto il corpo è scosso da tremiti. Compaiono anche il pianto
e, in seguito, il mordere, e il picchiare. Già alla fine del primo anno di
vita è possibile notare una prima forma di gesto simbolico, la cui
acquisizione risulta legata al comportamento aggressivo, si tratta del
“no” (Spitz, 1970). Questo gesto è legato alle proibizioni che la madre
pone contro l’attività del bambino. L’aumento del comportamento
aggressivo, si manifesta nel bambino intorno ai tre anni, ed è
accompagnato da rivendicazioni di proprietà sugli oggetti. Può
accadere che i bambini cerchino di strapparsi i giocattoli, senza però
avere l’intenzione di arrecarsi danno. Questi piccoli scontri, oltre
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all’acquisizione di un oggetto, assumono un altro significato sociale,
in quanto spesso un giocattolo, diventa desiderabile nel momento in
cui lo possiede un altro (Clama, 1991).
L’acquisizione, da parte del bambino, della capacità di
rappresentazione mentale e di simbolizzazione, compare intorno ai 18-
24 mesi. Tale capacità rappresentativa, dà al bambino la possibilità di
“rispecchiare” la realtà, consentendogli cosi’ di sostituire l’atto
aggressivo (da una situazione immediata), semplicemente con la
parola. Tale processo può avere un’influenza ambientale, che può
privilegiare o la manifestazione verbale dell’aggressività, o la
manifestazione di attività motorie.
E’ quanto accade nella nostra cultura nei confronti dei maschi e
delle femmine; mentre nei primi è maggiormente approvata
l’aggressività fisica, nelle femmine è più tollerata l’aggressività
verbale (Bonino, 1977).Nello stesso tempo la parola, può istigare il
bambino alla lotta, e fargli immaginare pericoli e nemici che, in realtà,
non ci sono; tutto ciò può portare a sviluppare antipatie e sentimenti
aggressivi.
Accanto all’espressione verbale, il bambino può ora esprimere
l’aggressività attraverso il simbolismo del gioco e del disegno. Nel
gioco simbolico egli si sottrae alla realtà deformandola secondo il
proprio volere; egli può cosi’ proiettare l’aggressività su un oggetto
sostitutivo e, nello stesso tempo, controllarla, interiorizzarla. Nella
rappresentazione simbolica dell’aggressività, il bambino acquisisce
due importanti meccanismi di difesa: la proiezione e l’identificazione.
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Questi strumenti di difesa, possono causare, in soggetti molto insicuri,
un’errata attribuzione agli altri, di intenzioni aggressive inesistenti.
Quando raggiungono l’età scolare, i bambini acquisiscono capacità
cognitive e sociali che permettono d’instaurare relazioni sociali
complesse, di tipo anche cooperativo. Queste capacità permettono al
bambino di risolvere i conflitti con i propri simili, con modalità non
solo di opposizione e di attacco all’altro, ma anche di cooperazione
con l’altro. Queste abilità, sono influenzate dal vissuto personale e
familiare del ragazzo, e da valori che la società offre. Nell’eziologia
dell’aggressività infantile operano, secondo Hinde (1974), meccanismi
simili a quelli presenti negli animali. Uno dei fattori più studiati è il
rapporto tra relazioni familiari e comportamento futuro.
Nel corso degli ultimi 30-40 anni, il problema dell’influenza
dell’ambiente familiare sul comportamento sociale dei figli, ha
costituito una problematica particolarmente interessante ed
approfondita. La psicoanalisi ha messo in evidenza la portata del
processo d’identificazione con i modelli parentali nella formazione
dell’Io. Gli psico-pedagogisti, riconoscono l’importanza, nella genesi
dei disturbi del comportamento, di una carenza affettiva e educativa.
Durante l’infanzia, i genitori rappresentano il modello verso cui il
bambino guarda; un modello che offre dei parametri per lo sviluppo
della sua personalità. Senza che i genitori se ne rendano conto, si
determina un modo abituale di vivere, che condiziona giorno per
giorno alcuni aspetti del carattere del figlio, rendendolo cosi’ sereno o
irritabile, amorevole o prepotente. Di qui l’importanza che viene
attribuita all’atmosfera familiare.