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Introduzione
È il 24 aprile 1980. Ken Horne, un giovane assistente di volo, viene ricoverato
in un ospedale di San Francisco con i sintomi di due gravi condizioni mediche: il
sarcoma di Kaposi, un raro tumore della pelle, e un’infezione da Cryptococcus, un
fungo solitamente innocuo per persone in condizioni di salute normali. Colpiti da
questo quadro clinico così inusuale per un uomo della sua età, i medici curanti
decidono di segnalare il paziente al CDC, il Center for Diseases Control di Atlanta.
Di lì a poco, Horne diventerà il primo caso ufficiale di AIDS conclamato negli
Stati Uniti.
Sono passati esattamente quarant’anni da quella prima diagnosi e molto è
cambiato nel panorama clinico e farmacologico. A partire dagli anni Novanta del
secolo scorso i nuovi farmaci antiretrovirali hanno trasformato l’infezione da HIV in
una condizione cronica trattabile, che molto raramente evolve in AIDS. Dai primi
anni Dieci, inoltre, si sono diffusi protocolli farmacologici – noti come PrEP, Pre-
Exposure Prophylaxis – che l’hanno resa non solo curabile, ma anche prevenibile.
Eppure, i timori e lo stigma che circondano l’HIV sono rimasti quasi inalterati,
nonostante oggi risultino sproporzionati all’effettiva minaccia per la salute. Anche
un evento rivoluzionario per le strategie di prevenzione, come l’avvento della PrEP,
ha ricevuto un’accoglienza talvolta tiepida dagli operatori sanitari e le istituzioni e,
spesso, anche dai potenziali utenti nelle categorie a rischio. Non solo. La PrEP ha
suscitato a sua volta un nuovo stigma: l’idea che una terapia preventiva possa
diventare un “liberi tutti” in grado di (ri)aprire le porte a una promiscuità, a volte
irresponsabile, che le comunità coinvolte, in particolare la comunità LGBTQ+,
pensavano di avere archiviato con l’era dell’AIDS.
Il quadro descritto suggerisce che i fenomeni di stigmatizzazione che
circondano l’HIV, l’AIDS e la PrEP, andando a toccare un aspetto fondante
dell’identità quale la sessualità, si estendano molto al di là dei timori per la salute e
implichino fattori antropologici e psicosociali assai più profondi e complessi, in
particolare per quanto riguarda lo stigma paradossale che circonda la PrEP.
Paradossale perché interessa una strumento preventivo in teoria ideale: con vantaggi
non solo sanitari innegabili e scientificamente provati e privo di controindicazioni
significative.
A partire da queste considerazioni, e dall’esperienza personale dell’autore come
counsellor volontario presso un’organizzazione non-profit all’avanguardia in Italia
nei programmi PrEP – il Milano Check Point –, la presente ricerca si è prefissa di
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indagare i fattori sociopsicologici e antropologici coinvolti nella stigmatizzazione
delle strategie di prevenzione dell’infezione da HIV note come PrEP.
Tale premessa ha suggerito di inquadrare il lavoro in un contesto più ampio che
indagasse, anche storicamente, l’evoluzione della ricerca sui meccanismi sociali
coinvolti. Il primo capitolo è stato quindi dedicato a una rassegna degli studi sulle
categorizzazioni, il pregiudizio e lo stigma, a partire dagli albori della ricerca
psicosociale alla fine dell’Ottocento. Il capitolo rivolge una particolare attenzione al
lavoro di Goffman sul Self e la spoiled identity e sui successivi sviluppi, intesi anche
come premessa all’indagine specifica sulla stigmatizzazione della PrEP.
Riconoscendo la valenza delle tematiche di genere e di orientamento sessuale
come un rilevante punto di contatto tra l’identità autopercepita e l’identità sociale, il
secondo capitolo passa in rassegna la ricerca che, soprattutto alla fine del secolo
scorso, si è impegnata a calare le teorie della devianza, della categorizzazione e della
stigmatizzazione nei contesti sociali e organizzativi, con la nascita dei concetti di
diversity e diversity management e la crescente importanza riconosciuta al
coinvolgimento nelle comunità e al ruolo degli alleati dei soggetti stigmatizzati.
Il terzo capitolo si apre con una panoramica sulla storia dell’HIV e degli
sviluppi farmacologici che hanno portato negli anni Novanta alla diffusione delle
terapie antiretrovirali e in seguito all’adozione delle strategie TasP (Theraphy as
Prevention, terapia preventiva), PEP (Post-Exposition Prophylaxis, profilassi post-
esposizione) e PrEP (Pre-Exposition Prophylaxis, profilassi pre-esposizione). Sulla
base della definizione olistica della salute sessuale da parte dell’OMS come uno stato
di benessere fisico, mentale e sociale in relazione con la sessualità, il capitolo
procede quindi ad esaminare le implicazioni della PrEP per il benessere psicosociale
dell’individuo e l’ipotesi dell’esistenza di uno stigma che circonda gli utenti,
passando in rassegna le ricerche qualitative e quantitative in merito.
Nel quarto capitolo, infine, prendendo atto che un approccio esclusivamente
psicosociale non sembra riuscire a rendere conto di tutti i fattori coinvolti –
presentando in particolare evidenze contradditorie circa la reale incidenza dello
stigma sulla PrEP e i comportamenti di risk compensation – in coerenza con le
premesse iniziali l’indagine propone di adottare un punto di vista più antropologico
ed etnometodologico. In linea con un orientamento della ricerca che vede nella
focalizzazione sul singolo uno strumento efficace per indagare fenomeni complessi
in gruppi di dimensioni ridotte, tale strumento viene individuato nella storia di vita,
raccolta tramite un’intervista semistrutturata. L’intervistato è stato selezionato e
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reclutato in collaborazione con gli psicologi del Milano Check Point sulla base della
rappresentatività delle caratteristiche bio-demografiche degli utenti del centro,
illustrate nello stesso capitolo.
La rassegna della letteratura e la storia di vita confermano che esiste uno stigma
riguardo agli utenti PrEP, in particolare per quanto riguarda una presunzione di
maggiore promiscuità, ma che deve essere ulteriormente indagata la sua reale
incidenza nelle comunità e nella società in generale. Altri campi di ulteriore indagine
sono stati individuati nello stigma by association, e sul modo in cui questo influenza
o limita la diffusione della PrEP nonostante i suoi vantaggi, e nell’esplorare gruppi
meno rappresentati numericamente nei centri PrEP, ma di grande interesse per
approfondire le connessioni tra identità percepita, identità sociale e differenziazioni
negli ingroup, quali le persone transgenere e gli uomini non MSM.
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1. Categorizzazione, pregiudizio sociale, stigma
1.1 Dai processi di categorizzazione al pregiudizio sociale
Perché alcuni individui o gruppi vengono identificati come “diversi” in senso
negativo e stigmatizzati dalla maggioranza? Si tratta di un meccanismo evolutivo
innato o di un processo psicosociale?
Antropologia e sociopsicologia tentano da molti decenni di rispondere a questo
interrogativo. Già agli albori delle scienze sociali, sul finire dell’800, Simmel (1998)
si era posto il problema di come nasca la differenziazione nelle società, individuando
il nodo principale nelle sempre maggiori dimensioni dei gruppi. Nelle moderne
società complesse le interazioni, pur costituendo una sostanziale unità – la “società”,
appunto – portano alla nascita di altre entità oggettive che spostano progressivamente
l’attenzione dai tratti comuni della collettività agli elementi che ne differenziano le
parti. Quanto più sono grandi queste entità, tanto più diventano evidenti le differenze
che, secondo Simmel, incoraggiano l’individualismo rendendo i singoli sempre più
soli: nelle grandi città, alle reti tradizionali della famiglia e del vicinato si sostituisce
una molteplicità di contatti superficiali. Con questo scenario mutevole, dove non
esistono regole oggettive ma la differenza nasce dall’interazione, Simmel si fa
precursore di molta ricerca successiva, influenzando in particolare la scuola di
Chicago (cfr. infra).
Altro precursore è Sorokin, il cui lavoro all’intersezione tra sociologia,
antropologia e psicologia (Sorokin, 1937) nel corso del ventesimo secolo contribuirà
in modo decisivo a liberare queste discipline delle costrizioni comportamentiste e
cognitiviste, per costituire un loro dominio. Se per Sorokin il cambiamento è
indiscutibile, molto più difficile è identificarne le cause. Nel dilemma tra prevalenza
di forze intrinseche o esterne, Sorokin anticipa una prospettiva integrale che
concepisce ogni cambiamento come una combinazione di forze interne ed esterne. I
motivi per cui nascono e si sviluppano le differenze rimangono per Sorokin ignoti,
ma il fatto che i fenomeni sociali esistano come relazioni nell’ambiente suggerisce
l’approccio quasi etnografico del qualified guessing (Marsico & Valsiner, 2017)
come il più efficace per indagare la differenza.
Fino alla Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, sia le teorie psicodinamiche (ad
esempio quella della frustrazione-aggressività) sia quelle della personalità (come la
teoria della personalità autoritaria) tenderanno a presentare un’interpretazione
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piuttosto statica del pregiudizio e degli stereotipi intergruppi, ipotizzando che siano
caratteristici solo di alcuni individui.
Fu soprattutto Muzafer Sherif (Sherif & Sherif, 1953), a partire dai suoi celebri
esperimenti nei campi estivi per ragazzi tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni
Cinquanta, a ipotizzare che i meccanismi piscologici soggiacenti a queste dinamiche
fossero il risultato di un’interdipendenza funzionale tra fattori intra-individuali, cioè
interni, e fattori esterni, ovvero situazionali e sociali. Un’impostazione la cui validità
sarà in seguito supportata, in particolare, dalle teorie della social cognition, le quali
riconoscono che stereotipi e pregiudizi possono essere percepiti normalmente da
chiunque, poiché si basano su processi fondamentali comuni a tutti gli individui
(Costarelli, 2003).
La teoria elaborata da Sherif descrive un conflitto realistico, che emerge quando
i gruppi devono competere per risorse concrete: spiega le situazioni della vita sociale
in cui esiste un reale conflitto di interessi, ma non spiega perché, in assenza di
conflitti reali, i gruppi possano competere anche su un piano puramente simbolico.
Diversi tentativi verranno compiuti per dimostrare empiricamente che i gruppi si
discriminano a vicenda anche in assenza di conflitti reali, evidenziando in particolare
l’interdipendenza tra i componenti di un gruppo, il cosiddetto common destiny o sorte
comune (Rubini, 2003).
Nel decennio successivo un ulteriore contributo in questa direzione venne dagli
studi sulle categorizzazioni e, nel dettaglio, dal lavoro di Tajfel (1969). Benché non
esplicitata (Rubini, cit..), la questione che Tajfel e i suoi collaboratori intendono
affrontare è se sia possibile identificare dei fondamenti razionali per spiegare le
discriminazioni interguppi e la formazione di pregiudizi e stereotipi sociali.
Già in precedenza Bruner e Goodman (1947) avevano osservato il fenomeno
per cui una categoria di stimoli veniva sovrastimata percettivamente dai soggetti
sperimentali se le veniva attribuito un valore, mentre Campbell (1956) aveva
indagato i processi di categorizzazione degli stimoli. Il passaggio che compie Tajfel
è di estendere questo approccio dagli stimoli fisici ai fenomeni di categorizzazione
sociale, evidenziando che l’organizzazione stessa degli stimoli in serie distinte,
quindi in categorie differenti, può essere di per sé sufficiente a generare
comportamenti discriminatori intergruppi.
Nei suoi esperimenti Tajfel dimostra che, per generare il comportamento
discriminante, è sufficiente la “minima” condizione categoriale di appartenenza a un
gruppo, anche ristretto, e definisce questa evidenza paradigma dei gruppi minimi.
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Alla base di questo effetto vi è la motivazione, cioè il “valore” di una serie di stimoli
rispetto all’assenza di valore in un’altra. L’attribuzione di valore porta nei percipienti
a una vera e propria modificazione di alcune caratteristiche attribuite agli oggetti o
agli eventi sociali, con l’obiettivo di farli rientrare in categorie conoscitive
preesistenti attraverso meccanismi di assimilazione e contrasto. Un fenomeno
pervasivo nella realtà sociale, quest’ultimo: a causa dell’esagerazione delle
differenze, il giudizio sociale non è mai un processo neutrale, poiché gli oggetti
sociali possiedono sempre qualche forma di valore e di rilevanza.
Negli anni Settanta Tajfel e i suoi collaboratori raffineranno ulteriormente il
loro paradigma (Tajfel et al., 1971), attraverso nuovi esperimenti che utilizzano
proprio il common destiny come condizione di controllo. I risultati dimostrano in
modo inequivocabile non solo che la maggioranza dei soggetti opera scelte che
favoriscono il proprio gruppo, ma anche che è disposta a sacrificare il profitto
comune allo scopo di differenziare il proprio gruppo da un altro. L’interpretazione
che fornisce Tajfel di questi risultati è fondata sul desiderio di appartenenza, anche
quando il gruppo è “esageratamente minimo”, mentre proposte alternative tornano a
porre l’accento sull’interdipendenza (Rubini, cit.).
Sul finire del decennio, Tajfel e Turner proveranno a fornire una nuova
spiegazione degli esperimenti sui gruppi minimi, appellandosi questa volta alla
differenziazione positiva (positive distinctiveness) (Tajfel & Turner, 1979). L’idea
che l’individuo punti a raggiungere una specificità, cioè una differenziazione
positiva del proprio gruppo, diventa quindi la base della loro teoria dell’identità
sociale (SIT, Social Identity Theory). Per Tajfel l’identità sociale è
fondamentalmente la parte dell’immagine di sé che un individuo ricava dalla
consapevolezza di appartenere a un determinato gruppo di persone e dal valore e la
rilevanza emozionale che ne derivano.
Di particolare interesse per il presente lavoro è l’ipotesi che, nei gruppi
minoritari, le minacce all’identità che nascono dal confronto con i gruppi
maggioritari si traducano in una percezione di maggiore omogeneità nell’ingroup.
Ipotesi che nacque dalle osservazioni condotte da Simon & Brown (1987) sui
comportamenti di gruppi di bambini ispanici neri e bianchi negli Stati Uniti e che ha
ricevuto successive conferme empiriche. Nell’insieme, diversi studi suggeriscono
che l’identità come funzione dell’appartenenza a un gruppo svolga un ruolo rilevante
non solo nel generare la percezione di differenza rispetto all’outgroup, ma anche
nella percezione della variabilità all’interno dell’ingroup (Rubini, cit.).
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In tempi più recenti, la ricerca ha osservato come i termini pregiudizio e
stigmatizzazione tendano a essere spesso utilizzati in modo eccessivo e non corretto,
applicandoli a normali processi sociali o a effetti collaterali negativi della tolleranza
sociale (Dijker, 2013). Questo può impedire di comprendere i meccanismi che
soggiacciono ai processi di controllo sociale: pregiudizio e stigmatizzazione si
basano in parte, infatti, su meccanismi psicologici coinvolti anche in forme meno
aggressive e non stigmatizzanti di controllo sociale nella vita di tutti i giorni.
È utile quindi distinguere tra riparazione, stigmatizzazione e tolleranza come
forme integrate di controllo che le società possono utilizzare per rispondere a
comportamenti e condizioni devianti. Il fattore comune sono le implicazioni emotive
e motivazionali, ma le modalità sono diverse. La riparazione mira a prevenire e
ridurre la devianza, mantenendo l’individuo deviante all’interno del gruppo e
riparando, appunto, le relazioni disturbate. La stigmatizzazione, invece, non punta a
cambiare il comportamento o la condizione della persona, ma anzi trasforma un
attributo indesiderabile o deviante in una proprietà che definisce l’intero individuo o
gruppo. La tolleranza, infine, è l’inibizione o l’autocontrollo di risposte evocate da
una devianza percepita, al fine di evitare conseguenze negative sia per il percipiente
sia per il soggetto percepito come deviante (Dijker, cit.). I confini tra le diverse
risposte non sono netti e, in alcuni, casi può risultare difficile distinguere, ad
esempio, tra riparazione e stigmatizzazione, come nel caso delle controverse “terapie
riparative” per le persone LGBTQ+ che mirano a ristabilire l’eteronormatività.
Le linee di pensiero qui presentate non esauriscono, ovviamente, lo spettro della
sociologia della devianza – argomento assai più vasto la cui analisi esula dallo scopo
del presente studio – ma rappresentano una selezione, funzionale a tracciare una
genealogia delle teorizzazioni dello stigma e delle sue successive declinazioni
rispetto agli specifici argomenti qui trattati.
Tra i molti contributi della sociologia della devianza risulta comunque utile
menzionare la Scuola di Chicago che, già dagli anni Trenta, aveva cercato di
affrontare il tema della devianza in modo più scientifico e a cui si deve la labelling
theory, l’idea che l’“etichettamento” porti le persone a comportarsi secondo lo
stereotipo loro attribuito, oltre che la posizione struttural-funzionalista di Durkheim;
entrambe avranno un’influenza (Becker, 2011) su colui che si può a buon diritto
considerare il fondatore dei moderni studi sullo stigma: Erving Goffman.