25
Questo viene spiegato innanzi tutto dal linguaggio che la nostra società
utilizza per “etichettare” i migranti. Infatti, la linguistica insegna che il nostro
modo di parlare riflette il nostro modo di vedere la realtà.
Come sappiamo, i media usano una terminologia mutuata dalla guerra quasi
per sottoliniare il nostro status di “assediati”. Gli sbarchi vengono visti come
“un’invasione”, “riprendono dopo alcune settimane di tregua”, i clandestini
arrivano “a ondate”. Alcuni di questi termini sono entrati nel linguaggio di
tutti i giorni, eppure se ci soffermiamo sul significato, parole come
“clandestino”, “irregolare”, non hanno un’accezione neutra, ma sembrano
coniati appositamente per descrivere una categoria di persone pericolose per
la società, come ha affermato Calegari: «Le etichettature, gli appellativi, i
nomignoli, gli aggettivi qualificativi, hanno sempre carattere di parzialità, si
riferiscono ad un unico aspetto – visto negativamente – della cosa o della
persona oggetto di pregiudizio. La parzialità tende a distrarre la nostra
considerazione per l’individuo come gobalità. Queste distorsioni che
inducono ostilità – suscitando possibili controreazioni – implicherebbero che
ogni programma teso alla limitazione del pregiudizio deve includere un larga
misura una terapia semantica».
24
Eppure il giornalismo si confronta da molto tempo con l’accusa di parzialità.
Già nel 1922 Walter Lippman scriveva: «senza standardizzazione, senza
stereotipi, senza giudizi scontati, senza un crudele disprezzo per le
sottigliezze, il giornalista morirebbe presto di eccitazione».
25
L’operatore
dell’informazione ha a che fare con una realtà oggettivamente molto
complessa e di difficile lettura. Sta proprio qui la bellezza del mestiere
24
P. Calegari, Il muro del pregiudizio, Napoli, Liguori, 1994, p. 42
25
W. Lippman, L’opinione pubblica, Roma, Donzelli, 1995, p. 123
26
giornalistico, che ha come primo compito la semplificazione della realtà o
meglio, come afferma Prina, la riduzione della complessità.
26
In effetti, la
funzione degli stereotipi non è completamente negativa, perché essi
rappresentano una sorta di “scorciatoia” mentale fondamentale per avere una
rapida inferenza circa le caratteristiche di una situazione. Persino Hannah
Ardendt, di cui tutti conosciamo l’impegno contro l’antisemitismo, ha
dedicato una sua celebre riflessione sulla necessità del pregiudizio: «nessuno
infatti può vivere senza pregiudizi, e non solo perché nessuno è abbastanza
intelligente e assennato da riuscire a dare un giudizio originale su tutto ciò
che nel corso della sua vita gli viene richiesto di giudicare, ma perché una tale
mancanza di pregiudizi esigerebbe una vigilanza sovraumana».
27
Naturalmente, questa necessità non giustifica l’attuale abuso degli sterotipi
nel mondo giornalistico, dimostrato in modo piuttosto lampante da un dato:
nel 76% circa degli articoli di cronaca del 2002 si è designato l’immigrato
innanzitutto attraverso la descrizione delle caratteristiche etniche o il
riferimento al Paese di provenienza, riconducendolo cioè ad una categoria, la
nazionalità, in cui l’individualità tende a perdersi e il soggetto, più che una
persona, sembra un rappresentante di una categoria etnica sulla quale si
hanno giudizi troppo assodati per essere messi in crisi.
Occorre però distinguere gli stereotipi dai pregiudizi poiché, come osserva
Caronia, «i pregiudizi possono essere positivi, negativi e neutrali, mentre gli
sterotipi costiuirebberlo la componente cognitiva del pregiudizio e sarebbero
26
F. Prina, Il vizio dell’etichetta: stereotipi e catalogazione della diversità nell’informazione. Atti del
seminario “Redattore Sociale”, 1997, Capodarco di Fermo (Ascoli), p. 5
27
H. Arendt, Che cos’è la politica, Milano, Edizioni di Comunità, 1995, p. 12
27
neutrali, ossia liberi dal giudizio di valore».
28
Maurizio Corte ribasice questa
differenza: «La stereotipizzazione – il determinare la nostra percezione di casi
individuali e l’accomodarla all’immagine generale di essi – non è di per sé un
fenomeno negativo o positivo. Certo, lo stereotipo rischia sempre una
distorsione cognitiva, implicata dal porre un’equivalenza fra il caso generale e
i tratti generali propri alla categoria. Ma il problema sorge quando si articola
un giudizio di valore sui tratti definiti come propri alla categoria e
generalizzati a tutti i suoi membri».
29
Per comprendere questa distinzione tra stereotipi e pregiudizi ricorrerò ad un
esempio banale ma efficace: immaginiamo un pacco contenente una torta. Sul
pacco è presente un’etichetta che ne descrive il contenuto, cosicché chi voglia
conoscerne il contenuto non ha bisogno di aprire il pacco: l’etichetta
rappresenta dunque lo stereotipo. Il pregiudizio può nascere nel momento in
cui qualcuno emana un giudizio di valore sulla torta (dicendo per esempio
che non è buona) e pian piano questo giudizio si fa strada in chi ha intenzione
di assaggiare la torta. Col passare del tempo, ci si fida di questo giudizio
soggettivo, senza che nessuno si preoccupi di verificare effettivamente la
bontà della torta.
Nella società contemporanea i media svolgono un ruolo molto delicato, che
consiste (come suggerisce il nome stesso) nella mediazione della realtà. La
nostra superficialità e la mancanza di tempo fanno in modo che gran parte dei
giudizi (e dei pregiudizi) sui quali basiamo la nostra conoscenza sono
plasmati più o meno fedelmente sulla base della realtà rappresentata nei
28
In E. Nigris (a cura di), Educazione interculturale, Milano, Mondadori, 1996, p. 158
29
M. Corte, Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale, Padova,
Cedam, 2002, p. 39
28
media, anziché sull’esperienza diretta. Questo avviene soprattutto per alcune
categorie di persone, come per esempio coloro che sono ai margini della
società. Come Prina sottolinea: «una categoria più ampia è rappresentata da
chi è percepito come privo della capacità di opporsi al trattamento
stereotipato e al pregiudizio: dal momento che, come vedremo, aspetto
decisivo di tale trattamento è costituito dalle routines, oggetto di esso sarà
sempre chi, si sa, non opporrà resistenza, non costringerà a difendersi o, nel
caso dei giornali, a rettificare e magari a subire la condanna di un tribunale. Si
può per questo dire che la stereotipizzazione e il pregiudizio sono una delle
forme di relazione in cui appare evidente che è normale essere forte con i
deboli.»
30
30
F. Prina, op. cit., p.2
29
2.2. Un razzismo di tipo nuovo
Finora abbiamo visto la pericolosità dei pregiudizi verso l’altro. Eppure, il
problema si complica se pensiamo che in taluni casi il pensiero
discriminatorio si concretizza non solo in pensieri ma anche in atteggiamenti
xenofobi. Una delle scoperte scientifiche più importanti del secolo in corso è la
rivelazione che le “razze” non esistono.
31
Questo rende ancora più grave
l’errore di chi, ancora oggi, riconduce il comportamento individuale alla
presunta “razza” cui esso apparterrebbe. Eppure, a differenza del passato, il
pensiero razzista contemporaneo non è supportato da nessuna ideologia
malvagia o fascista: se da un lato questo ci può consolare, occorre constatare
d’altra parte che questa “mimetizzazione” del razzismo lo rende un problema
molto più difficile da combattere politicamente. «se il razzismo di ieri
proponeva un taglio iperbolico tra il bianco e le razze inferiori, quello di oggi
assume forme plurali e non necessariamente vincolate alla mitologia
razziale».
32
Ciò è particolarmente vero quando il razzismo si mimetizza nella
democrazia: a tal proposito la Nirenstein ha scritto un libro dal titolo
eloquente: Il razzista democratico. Ne propongo un breve passaggio: «non
bisogna mai dimenticare che i valori che hanno formato la base più crudele
del razzismo sono rimasti tuttavia alle fondamenta di tutto quanto il razzismo
moderno: la pulizia, l’onestà, la serietà morale, il duro lavoro, la vita familiare,
cioè gli ideali che nel XIX secolo soppiantarono la frivolezza e il dolce far
niente, la gioia di vivere da farfalloni, che vennero attribuiti agli antenati del
31
“L’espresso”, 24 maggio 2007, p. 126. Luigi Cavalli Sforza, considerato il padre della
genetica geografica, ha dichiarato che vi è in corso un progetto che si pone l’obiettivo di creare
una mappa migrativa della razza umana e di delIneare la diversità genetica dei suoi membri.
«Probabilmente il Progetto Genografico dimostrerà molto meglio di quanto facessimo noi che
discendiamo tutti dallo stesso gruppo iniziale di esseri umani e che nei fatti non esistono
razze umane differenti».
32
A. Dal Lago, op. cit., p. 101
30
secolo precedente. La rispettabilità sociale è stata sempre un’alleata
fondamentale del razzismo».
33
A tal proposito, esistono due principali paradigmi che animano il dibattito sul
legame tra media e razzismo. La prima prospettiva esclude i mezzi di
comunicazione di massa da qualsiasi responsabilità nella produzione del
fenomeno: i media giocano unicamente un ruolo da “specchio” esprimendo (o
meglio, riflettendo) stati d’animo e fenomeni che trovano origine nella realtà
sociale. In sintesi, secondo questo paradigma, i media non producono
direttamente il razzismo, ma sono soltanto un veicolo per la diffusione dei
luoghi comuni già presenti all’interno della società. La seconda prospettiva
delinea, invece, una ruolo più attivo dei media, i quali sono accusati di
svolgere un ruolo autonomo nella produzione del fenomeno razzismo. Le
rappresentazioni e le immagini che i media propongono e divulgano sono
narrazioni costruite in modo indipendente dai mezzi di comunicazione, che
lavorano in base a proprie logiche, descrivendo avvenimenti privi di alcun
collegamento significativo con la realtà sociale.
34
FIGURA 4 - Quattro tipi di rapporto tra contenuto mediale e società
La struttura sociale influenza il contenuto mediale
Sì No
Sì
Interdipendenza
(influenza reciproca)
Idealismo
(forte influenza dei media)
Il contenuto
mediale influenza
la struttura
sociale
No
Materialismo
(i media sono dipendenti)
Autonomia
(nessun legame
causa-effetto)
33
F. Nirenstein, Il razzista democratico, Milano, Mondadori, 1990, p. 49
34
Cfr. M. Wieviorka, Il razzismo, Roma-Bari, Laterza, 2000
31
Con la tabella precedente possiamo cercare di inquadrare queste due
paradigmi all’interno di una griglia che si basa su quanto affermato da
Rosengren a proposito del rapporto tra contenuto mediale e società.
35
Le due
princiapli varianti riguardano l’influenza della struttura sociale sul contenuto
mediale o, viceversa, l’influenza del contenuto mediale sulla struttura sociale.
Esisterebbero quindi quattro varianti di questo rapporto. Cercherò di elencarle
qui di seguito contestualizzandole sul discorso del rapporto tra razzismo e
media.
1. Interdipendenza. Secondo questa opzione i mass media e la società si
influenzano reciprocamente. In questo caso, dunque, il razzismo
presente nei media è un riflesso di quello prodotto nella società, il quale
a sua volta trova conferma nei media.
2. Idealismo. In questo caso assistiamo ad una forte potere dei media
sulla società al quale non corrisponde un’influenza altrettanto forte
della società nei confronti dei media. Se ci basiamo su questo
paradigma, la causa del razzismo risiederebbe esclusivamente nei
media.
3. Materialismo. Si tratta dell’opzione opposta alla precedente. Nel caso
del razzismo, ciò che dicono i media non ha alcun influenza sulla
società ma al contrario essi esprimono soltanto l’opinione stabilita da
chi li controlla.
4. Autonomia. In questa posizione troviamo coloro che dubitano forti
legami fra la cultura dei media e la società. Nel caso del razzismo, si
35
Cfr. K.E. Rosengren, Mass Media and Social Change: Some Current Approaches, London, Sage
Publications, 1981. In D. McQuail, Sociologia dei media, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 74-76
32
tratterebbe di una posizione confortante ma (a mio avviso) troppo
ottimistica.