Introduzione
Negli ultimi anni l’economia europea ha assistito a cambiamenti radicali.
L’evoluzione delle tecnologie ha permesso la scomparsa di numerose barriere e ha, di
conseguenza, portato al progressivo aumento di processi di scambio a livello
planetario. Processi che giornalmente coinvolgono merci, tecnologie, servizi,
conoscenze scientifi che e culturali ma sopratutto persone.
In questo scenario, la labour mobility ha iniziato ad essere considerata come la
chiave per incrementare la competitività e la crescita dell’Unione Europea . La libera
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circolazione delle persone, quindi dei lavoratori, non solo è garantita dall’ordinamento
giuridico europeo ma è di fatto ritenuta uno dei pilastri fondamentali del mercato
unico. Pertanto negli ultimi anni, e prevedibilmente anche in futuro, sono stati
numerosi gli incentivi dell’UE nati per conferire una maggiore integrazione al
mercato interno del lavoro. Nonostante i numerosi tentativi, pare che tutto sia vano. Il
dato che emerge incontrovertibilmente è infatti molto chiaro: nell’UE, dove la forza
lavoro è di 242 milioni di persone, si ha un vacancy rate del 1,8% . A ciò si aggiunge
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che i cittadini europei che lavorano in uno Stato dell’Unione, che non sia quello di
nascita, rappresentano solo il 3,3% della forza lavoro complessiva e che, inoltre,
quotidianamente si assiste al fallimento imprevedibile di esperienze di mobilità
internazionali, seppure esse presentino tutte le prerogative per avere successo. Pare
dunque che vi sia una forza sconosciuta a frenare la mobilità internazionale e ad
Th e Europe 2020 Competitiveness Report Building a More Competitive Europe, 2014.
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Dato aggiornato all’ultimo trimestre del 2016 e relativo alla zona Eu-28; Fonte “Job Vacancies
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statistics” Eurostat. http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Job_vacancy_statistics
inibire le potenzialità delle aziende europee, una forza che gli incentivi “top down”
delle istituzioni non riescono a circoscrivere. Nel contempo la labour mobility è
diventata inoltre un fattore chiave per il successo di un’organizzazione. Le aziende per
competere globalmente e per crescere hanno dovuto, infatti, fare i conti con un
aumentato bisogno di muovere i propri lavoratori attraverso i confi ni. Così, la crescita
della necessità di operare internazionalmente e i cambiamenti di cui si è parlato
hanno, inevitabilmente, generato una crescente domanda di nuovi approcci alla
gestione della mobilità internazionale. Nonostante ciò, sebbene le organizzazioni
inizino a comprendere il potenziale dalla mobilità internazionale, considerandola
come una leva per attrarre e trattenere talenti al loro interno, non sono ancora riuscite
a compiere i passaggi necessari per sfruttare al meglio le sue potenzialità e per
allineare la sua gestione agli obiettivi aziendali complessivi. Il tema della mobilità
internazionale si presenta dunque come un tema caldo e dall’aspetto sfaccettato. Un
tema destinato a svolgere, nel prossimo futuro, un ruolo chiave sul destino
dell’Unione europea e soprattutto su quello delle aziende che all’interno di essa
competono, con obiettivi globali.
La ricerca che sarà presentata nei prossimi capitoli prende le mosse da quanto
evidenziato in precedenza e si propone come obiettivo quello di individuare se
esistano e quali siano gli atteggiamenti, le credenze e i comportamenti in grado di
infl uenzare la predisposizione alla mobilità, al fi ne di elaborare e validare una scala
multidimensionale di misura del costrutto di predisposizione alla mobilità
internazionale. Si tratta di uno strumento che può essere utilizzato dalle
organizzazioni per stimare la predisposizione alla mobilità dei candidati ad un
incarico che comporti una relocation internazionale, nonché per creare un pool interno
di lavoratori predisposti ad esperienze di questo tipo, nell’eventualità se ne
presentassero. L’interesse di chi scrive verso l’argomento qui trattato, nasce dalla
partecipazione al progetto “CBI-Challenge Base Innovation” svoltosi al CERN di
Ginevra con il Dipartimento di Scienze e Metodi dell’Ingegneria dell’Università di
Modena e Reggio Emilia, e promosso dall’azienda Iconsulting tra Settembre 2015 e
Gennaio 2016. Dalla conclusione di quel progetto deriva, infatti, una collaborazione
con la stessa azienda promotrice e con il Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali.
Collaborazione tradottasi in un tirocinio fi nalizzato alla redazione della presente tesi.
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Dopo aver fornito i “guardrail” all’interno dei quali ci si muoverà per condurre
la ricerca, nel primo capitolo è trattato l’ampio tema della relocation e di tutte le sue
sfaccettature. Sono così introdotte le funzioni aziendali e i diversi tipi di fi gure
professionali coinvolte in esperienze di questo tipo, nonché le possibili forme e
caratteristiche che una carriera internazionale può assumere. In chiusura di capitolo
sono, infi ne, esplicate le ragioni che soggiaciono alla sempre maggiore importanza
attribuita agli expat nel mercato moderno e conseguentemente è approfondita
l’importanza del successo di esperienze di mobilità internazionale.
Nel secondo dei quattro capitoli di cui si compone la tesi è off erta al lettore
un’ampia revisione della letteratura aff erente al costrutto di predisposizione alla
mobilità internazionale. Nel dettaglio, in un primo momento è fornita una revisione
critica della predisposizione alla mobilità domestica che poi sfuma sul fenomeno,
meno studiato, della predisposizione alla mobilità internazionale. In questa sezione
della tesi viene poi introdotto per la prima volta, in accordo con S. Mol (2009), il
costrutto di predisposizione alla mobilità internazionale. A conclusione di questa
revisione bibliografi ca si fornisce un focus su una serie di fenomeni che negli anni e
in precedenti studi, sono stati evidenziati come relazionati alla predisposizione alla
mobilità internazionale.
Il terzo capitolo apre una seconda fase della ricerca. Si tratta della fase
analitica. In questo capitolo dopo un breve excursus sulle tecniche di elaborazione e
validazione di una scala di misura, è presentato lo strumento che ha reso possibile
questa ricerca: il questionario. Sono dunque presentati in ordine, gli item utilizzati
per identifi care il campione rispondente, quelli per misurare la predisposizione alla
mobilità internazionale ed infi ne quelli utilizzati per misurare i costrutti ritenuti più
rilevanti ed utili per eff ettuare la validazione, ovvero: “Sensibilità interculturale”;
“Europeizzazione”; “Tolleranza per l’ambiguità”.
Si passa così al quarto ed ultimo capitolo. In questo si trova il core della
ricerca. In questo sezione viene presentata l’analisi eff ettuata per giungere alla
validazione della scala. In apertura di capitolo è presente un piccolo focus sulla
composizione del campione oggetto dello studio, in seguito viene dato uno spazio più
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ampio alle analisi di affi dabilità, dimensionaltà e validità della scala. Si tratta di analisi
fattoriali, correlazioni e regressioni condotte in vari step ed eff ettuate con il sussidio
del software di elaborazione statistica IBM-SPSS.
In chiusura di tesi sono, infi ne, sintetizzati i risultati della ricerca, le possibili
implicazioni che da essa derivano e i limiti da cui la ricerca non è riuscita a liberarsi.
Si off riranno dunque nuovi stimoli per favorire l’integrazione di sistemi di
recruitment standardizzati nella selezione degli expat nonché nuovi spunti per
proseguire, ampliare e migliorare ulteriormente la ricerca sul fenomeno della
predisposizione alla mobilità internazionale.
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1. Mobilità internazionale
1.1 Internazionalizzazione
Internazionalizzare è diventato negli ultimi anni un diktat per la stragrande
maggioranza delle aziende europee, a prescindere dalle loro dimensioni.
L’ambiente economico globale si è evoluto rapidamente, grazie alle molteplici
opportunità off erte dalla tecnologia, dai nuovi canali distributivi, dalla accresciuta
capacità produttiva in paesi emergenti, dall’apertura di nuovi mercati, ma soprattutto
grazie alla consapevolezza ormai diff usa tra tutti gli addetti ai lavori di far parte di un
inesorabile processo di internazionalizzazione.
Il fenomeno dell’internazionalizzazione è identifi cato dallo spostamento
all’estero dello svolgimento parziale o integrale di una o più fasi della catena del
valore, dalla supply chain alla distribuzione dei beni e servizi. Internazionalizzando, le
imprese diventano “aziende globali”: rendendosi artefi ci dell’integrazione dei mercati
e dando vita alla creazione di catene di produzione e fornitura che hanno
determinato, e continuano a determinare, i più recenti sviluppi della globalizzazione
(Beck, 1999). Nessuna azienda può quindi oggi dirsi immune dall’infl uenza globale
che il contesto esercita su di essa. Ogni organizzazione infatti, che lo desideri o meno,
si trova costretta a fare i conti con il contesto che la circonda e di conseguenza anche
con ciò che avviene al di fuori del proprio mercato nazionale.
Anche le organizzazioni italiane, seppur con ritardo rispetto ad altri paesi
europei, si sono adeguate a questa tendenza e con esse si è adeguato anche il dibattito
su come internazionalizzarsi, con quali modalità, con quale tipo di persone e con
quali competenze.
L’idea di un agire che travalichi i confi ni nazionali e le barriere culturali che
questi si portano dietro è, di sovente, visto dalle aziende in maniera contrastante da
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una parte come una sfi da, dall’altra come una minaccia e di conseguenza come
un’opportunità alla quale avvicinarsi cautamente. Le paure e i timori che
accompagnano i processi di internazionalizzazione sono legati in primo luogo
all’ampliamento del campo su cui confrontarsi con i competitor ma anche,
chiaramente, all’estensione della dimensione su cui misurare le proprie capacità
comunicative, organizzative, strategiche e di visione nonché di gestione delle risorse
umane. Infatti, nonostante sia impossibile pensare alla globalizzazione come a un
fenomeno che riguardi solo la sfera economica, ignorandone quindi la valenza
culturale, è sbagliato anche pensare ai processi di globalizzazione come a dei processi
che mirino esclusivamente ad ottenere un omogeneizzazione della cultura e della
società.
Le distanze presenti tra i vari paesi, intese in termini culturali, sono ad oggi
ancora notevoli e probabilmente lo resteranno per sempre. Ciò ha indotto ad un
sostanziale stravolgimento di paradigma nel modo tradizionale di intendere il
fenomeno della globalizzazione da parte di studiosi, aziende e società civile, con uno
spostamento dell’agire, sempre più intenso e condiviso, da una logica globale ad una
glocale . Le imprese si trovano dunque costrette a dover modifi care di continuo le
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proprie strategie, avviando la gestione di un trade-off tra una prospettiva world-wide
ed una nation/region-wide, in funzione delle esigenze aziendali e dei cambiamenti
dello specifi co ambiente competitivo esterno (Gambardella, 1999; Vaccà, 2001). Ciò
induce a ritenere che il processo di interazione in contesti internazionali dipenda
dalla “sensibilità” e dall’interesse con cui le imprese si confrontano con i diversi paesi e
le diff erenti regioni (Child, 2000).
Quanto detto fi n ora può e deve chiaramente essere esteso a quanti
nell’organizzazione lavorano. Questo nuovo modo di intendere la globalizzazione, e
con essa il mondo, ha di conseguenza portato con se dei cambiamenti radicali anche
nella gestione delle risorse umane, divenute “internazionali”, facendo aumentare la
sensibilità nei confronti del cronico problema dell’adattamento, in primis culturale,
del lavoratore in mobilità alla nuova realtà.
Glocalizzazione è un termine introdotto dal sociologo Zygmunt Bauman per adeguare il panorama
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della globalizzazione alle realtà locali, così da studiare meglio le loro relazioni con gli ambienti
internazionali. (Bauman, 2005).
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1.2 International Human Resource Management
Agire in un’ottica internazionale richiede alle aziende una maggiore capacità
di coordinare e comunicare rispetto a quanta ne viene tradizionalmente richiesta dalle
operazioni sviluppate in ottica nazionale. È per questa ragione che oggi si rende
sempre più necessario, per le aziende, un uso strategico di risorse e know-how
destinati ad attività da svolgersi in paesi esteri. In quest’ottica, numerose
organizzazioni hanno iniziato a dotarsi di capitale umano in grado di gestire incarichi
che richiedano la capacità di interfacciarsi con paesi nuovi e lontani, in primo luogo
culturalmente, senza nel contempo perdere il contatto con la casa madre e la cultura
di riferimento. Conseguenza diretta di ciò è che le esperienze lavorative
internazionali hanno iniziato ad assumere un ruolo sempre più rilevante per la
crescita della carriera dei lavoratori, non solo all’interno delle grandi multinazionali
ma anche nelle piccole e medie imprese. Ma è proprio la gestione di questa nuova
forza lavoro internazionale e del suo know how a rappresentare una delle sfi de più
grandi che un’azienda coinvolta in un processo di internazionalizzazione si trova
costretta a gestire. A riprova di ciò, come sottolinea Snell (2009), la maggior parte
delle grandi organizzazioni, ma anche le imprese più piccole, stanno creando dei
settori specifi ci per la gestione dei processi delle risorse umane in un contesto
internazionale.
Si è così assistito negli anni allo sviluppo di un nuovo fi lone di studi, destinato
all’analisi delle problematiche legate alla mobilità lavorativa internazionale. È stato
per la prima volta intorno agli anni ’80 che questi studi hanno visto la luce. Defi niti
come IHRM (International Human Resource Management) questi studi si
sviluppano inizialmente negli Stati Uniti ed è per questo normale che per molti anni
questi abbiano riguardato principalmente le grandi multinazionali statunitensi,
impegnate in primo luogo nella movimentazione dei dipendenti nelle diff erenti fi liali
sparse per il mondo. Come abbiamo visto però l’idea che solo le multinazionali siano
coinvolte in business internazionali non è più da considerarsi valida e sostenibile, di
conseguenza oggi le aziende di ogni dimensione si trovano a dover fare i conti con le
medesime problematiche. Tutte le organizzazioni devono infatti essere in grado di
attirare, formare, trattenere e sviluppare le persone con il maggior potenziale, a
prescindere dalla loro provenienza geografi ca e culturale, e devono di conseguenza
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