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Premessa
Un dilemma ben lungi dall’essere risolto è quello che da secoli vede coinvolti etica e
diritto (Magno, 2007, cit. in Giannini, Sgalla, 2010); basti pensare alla visione kantiana, in
cui si sottolinea la natura coercitiva ed esterna della norma legale rispetto alla natura
razionale e interna della norma morale, e al pensiero di Hegel, secondo il quale solo lo
Stato è emblema della ragione, e come tale ha il predominio sulla morale individuale.
Avvicinandoci a un ambito più prettamente psicologico, ricordiamo come lo stesso Freud
abbia riproposto il dilemma in termini di lotta tra pulsioni e società (Giannini, Sgalla,
2010).
Nonostante il crescente interesse della comunità scientifica internazionale per la
questione del senso civico (Putnam, Leonardi, Nanetti, 1993; Gatti, Tremblay, Larocque,
2003), il tema delle norme giuridiche e dei comportamenti ad esse connessi è
sorprendentemente povero di dati empirici nella letteratura psicologica di tipo evolutivo.
Mentre vi sono moltissimi studi sulle varie forme di devianza e sui fattori ad esse
soggiacenti, assai meno numerose sono le indagini sull’adesione alle norme. Solo di
recente la diffusione di interventi improntati al modello della “psicologia positiva” ha
promosso un maggiore interesse per lo studio delle risorse di adolescenti e giovani
(Sherrod, 2005; Youniss, 2005; Gestsdottir, Lerner, 2007).
Il progetto Icaro 2010, così come altri analoghi interventi che stanno pian piano
prendendo vita, parte dalla valorizzazione delle risorse della scuola e dei ragazzi, per la
promozione del benessere collettivo e personale; e intendo, nella limitatezza dei miei
mezzi, confermare a mia volta questa rinnovata fiducia nelle risorse societarie. Ringrazio
quindi tutti coloro che si sono adoperati per la realizzazione del progetto, senza i quali non
sarebbe stato possibile questo lavoro di tesi.
La tesi è composta da tre capitoli: il primo fornisce un inquadramento teorico
sull’argomento esplorato, mentre il secondo espone le ipotesi di ricerca e i risultati ottenuti,
corredati da possibili spiegazioni che affondano le loro radici sia in precedenti ricerche che
nella mente dell’autrice. Infine, il terzo capitolo costituisce una sintetica ricapitolazione dei
principali risultati emersi, con particolare riferimento alle ipotesi di partenza.
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CAPITOLO PRIMO
Adolescenza e legalità
1.1 Adolescenza: le caratteristiche normative
L’adolescenza è un periodo della vita che attira l’attenzione degli studiosi da molto
tempo. Gli albori del pensiero sull’adolescenza possono essere addirittura fatti risalire a
Jean Jacques Rousseau e alla sua teoria “del buon selvaggio”, ripresa successivamente da
Granville Stanley Hall nel definire l’adolescenza come un periodo caratterizzato dal
turbamento e dalla contraddizione, che sancisce il passaggio dallo stato selvaggio
all’ascesa verso la civiltà (Berti, Bombi, 2005). Ciò che viene sottolineato nel pensiero di
Hall è proprio la frattura che quest’epoca della vita sancisce rispetto alle precedenti;
tuttavia, nonostante questa concezione sia tuttora molto diffusa, non esiste alcuna conferma
empirica rispetto al fatto che tutti gli adolescenti siano in guerra con il proprio passato, con
il mondo adulto e con la società: solo per alcuni si può parlare di crescita tumultuosa e,
tipicamente, si tratta di soggetti (prevalentemente maschi) con disturbi disadattivi emersi in
qualche misura già durante la fanciullezza (Berti, Bombi, 2008).
In questo senso è forse più opportuno parlare di adolescenza come “crescita
continuativa, senza particolari scosse, o crescita intermittente, caratterizzata quest’ultima
da episodiche difficoltà in un quadro generalmente tranquillo” (Berti, Bombi, 2008, p.340).
L’idea che non necessariamente questa fase di sviluppo debba essere caratterizzata da crisi
era stata già introdotta dai pionieristici lavori dell’antropologa Margaret Mead, una tra i
primi studiosi che hanno compreso l’impatto della cultura sulla transizione all’età adulta:
l’adolescente in crisi è l’esito caratteristico delle moderne società tecnologiche “nelle quali
allo sviluppo sessuale e a quello cognitivo non corrisponde un ingresso immediato nel
mondo adulto attraverso il lavoro e il matrimonio” (Caprara, Fonzi, 2000, p.121).
Proprio per questo l’adolescenza è considerata oggi un percorso (e non meramente
uno stadio) di cui è difficile situare i confini temporali. Pur considerando i fattori di
maturazione sessuale come ipotetici segnali d’avvio, non è possibile prescindere
dall’ampia variabilità individuale nei tempi di maturazione, e nella soggettiva risonanza
psicologica che tali eventi assumono (Ardone, 1999).
Nonostante tutte le difficoltà che gli studiosi incontrano nel definire in modo univoco
l’adolescenza, i cambiamenti individuali e relazionali che caratterizzano questa età sono
numerosi ed evidenti. Harold Grotevant (1998) ha proposto un modello generale dello
sviluppo adolescenziale, nel quale identifica tre tipi di cambiamenti che egli considera
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primari: il raggiungimento della maturità sessuale, l’acquisizione (sancita legalmente o
socialmente) dello status di adulto e lo sviluppo cognitivo. Questi cambiamenti sono
controbilanciati dalla presenza di fattori di continuità, come la percezione di sé, le
competenze acquisite, i valori e i modelli operativi interni. E’ chiaro come una
disfunzionalità di qualche sorta in una o più di queste aree possa comportare un disagio più
o meno generalizzato: il modello di Grotevant è infatti multifattoriale e non deterministico.
Gli elementi contestuali e personali che possono interagire con i cambiamenti e i con i
fattori di continuità sono vari e strettamente connessi tra loro: può trattarsi di caratteristiche
personali (quali il sesso e l’etnia), di aspetti dei microsistemi (quali il tipo di famiglia o il
gruppo dei pari), del funzionamento a livello di mesosistemi (quali le relazioni tra famiglia
e gruppo dei pari), ma anche del macrosistema stesso (come la cultura dell’epoca o le
circostanze economico-politiche). Tutti questi elementi si intrecciano e si influenzano
vicendevolmente, andando a incidere sul pensiero e sul comportamento dell’adolescente
(Grotevant, 1998).
L’intreccio composito di sfide, cambiamenti ed elementi di continuità porta, sempre
secondo Grotevant (1998), al raggiungimento di alcuni risultati evolutivi, tra i quali
spiccano i cambiamenti relazionali (con genitori, amici, partner intimi, comunità), lo
sviluppo dell’identità (anche sulla base di scelte personali e congruenza con la propria
situazione), i cambiamenti emozionali (in termini di benessere psicologico e autostima) e i
cambiamenti di tipo comportamentale (in termini di sviluppo della competenza sociale,
scolastica e lavorativa).
Il risultato evolutivo che ritengo più importante ai fini di questo studio è lo sviluppo
della competenza sociale, un concetto complesso di cui gli psicologi non hanno a tutt’oggi
fornito una definizione univoca. Rubin, Bukowski e Parker (1998) dichiarano che è
difficile tentare di scomporla in una serie di abilità distinte, in quanto tali abilità dipendono
dal momento storico, dalla cultura e dal contesto esaminato. Cercando di fornire una
definizione abbastanza generale, questi autori affermano che “viene considerato
socialmente competente un individuo che sa rispondere efficacemente alle situazioni
interpersonali, che interagisce con gli altri in modo tale da preservare la propria salute
fisica e mentale e che riesce a raggiungere un buon risultato evolutivo utilizzando al
meglio le risorse ambientali e personali” (Bukowski, Parker, 1998, cit. in Berti, Bombi,
2008, p. 301). Innegabilmente, un’ottima palestra per lo sviluppo della competenza sociale
è rappresentata dalle relazioni con i pari e con i genitori, e dalla qualità di tali relazioni;
tuttavia anche l’interfaccia con la società in senso lato diviene importante in adolescenza.
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1.2 Adolescenti, moralità e legalità
L’adolescenza è tipicamente ritenuta un momento cruciale per l’adesione alla
legalità; ma quali sono i processi che determinano tale scelta cruciale? Indubbiamente
dovremo fare riferimento al capitale individuale dell’adolescente, così come anche agli
effetti di contesto nella promozione del senso civico (Giannini, Sgalla, 2010).
La moralità dell’adolescente è un tema di grande popolarità tra gli studiosi si
psicologia evolutiva, e i primi orientamenti si possono ritrovare già nel pensiero
piagetiano, in particolare nel volume Il giudizio morale nel fanciullo, pubblicato nel 1932.
In quest’opera Piaget si propose di approfondire come le componenti cognitive generali
influenzino lo sviluppo morale, e distinse modalità di giudizio morale, intrinsecamente
diverse e in parte contrapposte: la moralità eteronoma e la moralità autonoma. La prima è
focalizzata sugli effetti tangibili delle azioni e sull’imposizione esterna di regole da parte di
un’autorità (tipicamente l’adulto); invece la moralità autonoma prevede un atteggiamento
critico e una comprensione profonda delle norme morali, ed una loro accettazione basata
sulle intenzioni e sulla cooperazione piuttosto che sulla costrizione (Vianello, 1999).
Gli studi di Piaget sullo sviluppo morale sono stati successivamente ripresi e ampliati
da Lawrence Kohlberg che distinse tre livelli di ragionamento morale. I primi due livelli,
da lui definiti “preconvenzionale” e “convenzionale”, corrispondono rispettivamente alla
moralità eteronoma e autonoma di Piaget; il terzo livello rappresenta una novità rispetto
alla teorizzazione piagetiana, e viene definito da Kohlberg “postconvenzionale” o
“autonomo” (Kohlberg, 1971). Questo tipo di ragionamento morale, estremamente
avanzato e caratterizzato da un superamento delle convenzioni, è tipico dei giudizi morali
nell’adolescenza (Vianello, 1999). Esso è a sua volta distinto in due stadi, il primo dei
quali, definito “tendenza legalistica”, implica la piena consapevolezza della relatività dei
valori e delle opinioni personali e si qualifica per il risalto dato alle regole che assicurano il
consenso generale. Il secondo stadio, chiamato “tendenza a principi etici universali”, ha un
fondamento ancor più astratto ed universalistico: esso prevede infatti che il giusto venga
stabilito sulla base di principi etici basati sulla comprensione logica, l’universalità e la
coerenza, ossia su “principi universali di giustizia, reciprocità e uguaglianza dei diritti
umani, e rispetto per la dignità degli esseri umani quali individui.” (Kohlberg, 1971, pp.86-
88, cit. in Goldstein, Glick, 1990).
Negli adolescenti e negli adulti possiamo ritrovare entrambi questi livelli di
ragionamento morale anche se, come sottolinea Kohlberg, è possibile che in alcune
popolazioni non si raggiunga lo stadio postconvenzionale, o il secondo dei due livelli che
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lo definiscono. In linea di massima, l’adolescente tende comunque ad essere più critico
rispetto al bambino riguardo alle affermazioni degli adulti, e non ritiene che le proposte
morali fornite dal contesto di appartenenza siano le uniche possibili o quelle più giuste in
assoluto. Nonostante questo relativismo, l’adolescente sente il concomitante bisogno,
soprattutto dopo i 15-16 anni, di avere norme morali di tipo universale, ossia
universalmente riconosciute come giuste e che siano un punto di riferimento stabile nella
costruzione della propria identità (Vianello, 1999). Di conseguenza, nella transizione da un
livello all’altro dello stadio postconvenzionale, gli adolescenti possono mostrare
atteggiamenti contraddittori, relativistici da un lato e universalistici dall’altro, ed essere
molto tolleranti in alcuni campi morali e assolutamente intransigenti in altri, richiamando il
concetto di egocentrismo intellettuale ben teorizzato da Piaget e Inhelder (1955) e da
Elkind (1985).
Una comprensione parziale di queste complesse dinamiche porta l’opinione pubblica
a ritenere diffusamente che gli adolescenti siano poco inclini al rispetto di norme e privi di
valori morali, mentre dall’altro lato c’è la convinzione corretta che proprio durante
l’adolescenza si plasmi la moralità adulta. Infatti in questa fascia di età cresce la salienza
dei dilemmi morali che gli individui si trovano a fronteggiare, perché aumenta la severità
delle conseguenze etiche delle loro azioni, sia nei confronti di se stessi che nei confronti
degli altri; inoltre, l’assunzione di un ruolo sociale più attivo (ad esempio attraverso il
lavoro o il volontariato) determina a sua volta un aumento delle situazioni in cui gli
adolescenti sono chiamati a prendere delle decisioni morali (Hart, Carlo, 2005).
Un ruolo importante nello sviluppo morale dell’adolescente è giocato dai rapporti amicali e
di gruppo, che spesso determinano una pressione conformistica verso le norme interne alla
compagnia frequentata, in concomitanza con il declino dell’adesione alle attese genitoriali.
Infatti in questo periodo il rapporto con l’autorità, sia essa incarnata dai genitori, così come
dagli insegnanti o dai poliziotti, può essere oggetto di cambiamento, ma non
necessariamente in negativo: i risultati di uno studio di Murray e Thompson (1985)
condotto su un campione di adolescenti Inglesi mostra che la maggioranza di essi ha un
atteggiamento positivo nei confronti di insegnanti e poliziotti; tuttavia, un numero
sostanziale di soggetti assume invece un atteggiamento cinico nei confronti degli stessi. Un
ulteriore studio (Rigby, Schofield, Slee, 1987) confermerebbe questo trend, mentre alcuni
studi americani indicano che l’atteggiamento verso l’autorità assume valori maggiormente
negativi all’aumentare dell’età, con un picco nella fascia 15-19 anni (Lapsley, Harwell,
Olsen, Flannery, Quentana, 1984); questo incremento di ostilità sembrerebbe riguardare
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maggiormente la relazione tra adolescente e insegnanti e tra adolescente e genitori, mentre
il rapporto con la legge e la Polizia sarebbe sostanzialmente invariato e tendenzialmente
positivo (Griffiths, Winfree, 1982), e in particolare si stabilizzerebbe a partire dalla media
adolescenza (Rigby, Rump, 1981; Rigby, Densley, 1985; Rigby, Schofield, Slee, 1987;
Murray, Thompson, 1985).
Contemporaneamente, l’ amicizia può spingere l’adolescente alla messa in atto di
comportamenti antisociali, ma anche rappresentare una preziosa opportunità per mettersi
nei panni degli altri e confrontarsi con nuove esperienze morali (Hart et al., 2004, cit. in
Berti, Bombi, 2008), favorendo così lo sviluppo di una importante componente della
moralità umana: la prosocialità.
“Si definiscono prosociali i comportamenti volontariamente orientati a portare
beneficio all’altro”(Eisenberg, Fabes, Spinrad, 2006), “mediante azioni di aiuto,
collaborazione o condivisione di oggetti, conoscenze ed esperienze” (Caprara, Pastorelli,
1993). Martin Hoffman (1982) sottolinea come la prosocialità abbia un ruolo nello
sviluppo morale: gli adolescenti, infatti, grazie alle loro abilità di perspective taking e al
pensiero ipotetico-deduttivo, sono capaci di risposte empatiche verso persone anche
fisicamente non presenti, e sono in grado di comprendere i bisogni di interi gruppi o classi
di persone, fatto che li conduce a sviluppare una dimensione di impegno civile e politico
(Hoffman, 2000).
Ulteriori contributi circa il rapporto tra giudizio e comportamento morale ci
pervengono dalla teoria social-cognitiva, secondo la quale processi di autoregolazione
quali sanzioni interne, senso di colpa e biasimo, interverrebbero sul comportamento
attraverso meccanismi di inibizione e controllo; i meccanismi di controllo prevedono
l’anticipazione delle conseguenze negative di un dato comportamento, mentre l’inibizione
fa maggiormente riferimento a una forma di autocensura e di sanzionamento interno che
porta il soggetto a non mettere in atto azioni riprovevoli, e a perseguire il bene per
mantenere il rispetto di sé (Bandura, 1996). Tuttavia, Bandura sottolinea come le capacità
autoregolatrici non rappresentino per l’individuo una sorta di Super-Io o meccanismo di
controllo costante della condotta: le sanzioni interne possono essere abolite grazie ad un
processo che definisce di disimpegno morale; tale processo crea delle condizioni mentali
che permettono al soggetto di agire in contrasto con la propria moralità pur restando in
pace con la propria coscienza. (Bandura, 1996).
L’autore articola poi il disimpegno morale in specifiche componenti: giustificazione
morale (l’azione riprovevole difende valori importanti, e quindi non è sbagliata),
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attribuzione di colpa (si attribuisce la colpa ad altri), etichettamento eufemistico (usare la
violenza, ad esempio, per “dare una lezione”), confronto vantaggioso (“in fondo avrei
potuto fare di peggio”), spostamento della responsabilità (sono gli altri ad aver
determinato le condizioni dell’illegalità), distorsione delle conseguenze (“non è poi così
grave”), diffusione della responsabilità (“lo fanno tutti”), e de-umanizzazione delle vittime
(“è una persona che vale zero”) (Caprara, 2003).
Nella teoria di Bandura si sottolinea infine come la maggiore o minore messa in atto
di comportamenti illegali sia connessa ad una soggettiva percezione di efficacia causale o
di agency; secondo questa prospettiva, l’attribuzione di causalità può essere deterministica
(x causa y) o basata su un principio di causalità fortuita, secondo il quale “non è possibile
attribuire l’effetto y a una causa x che il soggetto sia in grado di controllare” (Giannini,
Sgalla, 2009, p.49). Com’è ovvio, il primo atteggiamento favorisce l’assunzione di
responsabilità, mentre il secondo la ostacola.
In alcuni casi è emerso che, al crescere dell’età, adolescenti e giovani (in particolare
maschi) tendono sempre di più a mettere in atto meccanismi di disimpegno morale, almeno
per le colpe più gravi (Bandura, 1996); tuttavia, alcuni studi mostrano che, tra i 14 e i 16
anni, si ha una diminuzione dei livelli di disimpegno morale indipendente dal genere: si
ritiene che questo possa essere dovuto ai nuovi compiti evolutivi che i ragazzi si trovano a
fronteggiare, legati al passaggio dalla scuola secondaria di primo grado a quella di secondo
grado; è probabile che sfide più complesse li portino a sviluppare un atteggiamento morale
più maturo e responsabile (Fida et al., 2007). In effetti, l’attivazione di meccanismi di
disimpegno morale nell’adolescente sembra facilitata dalla dissonanza cognitiva che sorge
dal confronto tra le proposte valoriali che le agenzie educative fanno ai ragazzi, tutte volte
a sottolineare l’importanza delle leggi e dello Stato, e la realtà sociale attuale, in cui il
clientelismo rappresenta una normale prassi amministrativa (Giannini, Sgalla, 2009).
I dati a disposizione dello psicologo sulle origini del disimpegno e sulle sue
componenti sono piuttosto scarsi; in compenso è molto ampio il contributo in letteratura
per quanto riguarda le condotte aggressive e antisociali. Antisocialità e condotte aggressive
non sono categorie coincidenti: Frick e colleghi (1993) hanno condotto una metanalisi su
ricerche riguardanti nel complesso oltre 23.000 bambini e ragazzi; i comportamenti
negativi sono stati ordinati lungo due dimensioni (carattere nascosto/manifesto dell’azione
e alto/basso grado di distruttività), trovando che le condotte aggressive sono rappresentate
dalle azioni a carattere manifesto con alto grado di distruttività, mentre gli atti antisociali
comprendono più categorie, tra i quali comportamenti oppositivi (azioni manifeste a bassa