Quello che rimane sicuro è che, nonostante i notevoli progressi economici
che sono stati fatti negli ultimi anni, le condizioni di vita non sono migliorate per
tutti. Inoltre, nel mondo contemporaneo, il concetto di povertà ha lasciato spazio a
quello più ampio ed articolato di esclusione sociale, che sembra essere una
condizione ancora più diffusa e che rappresenta una delle tante contraddizioni
delle società postmaterialistiche caratterizzate dalla sperequazione economica (chi
è ricco diventa sempre più ricco, chi è povero diventa sempre più povero) e dalle
tante povertà sociali.
Finalità ed articolazione della tesi
La tesi in esame si colloca nell'alveo dell'importante tematica concernente
la povertà.
Essa si articola in tre parti aventi le seguenti finalità:
• la prima parte, costituita dal Capitolo I, è volta alla conoscenza del
concetto di povertà, attraverso lo studio delle definizioni più
significative e ricorrenti nell'ambito delle teorie concernenti lo
studio della nozione in oggetto;
• la seconda parte, costituita dai Capitoli II, III, e IV, è dedicata ad
una discussione critica dei problemi implicati dalla costruzione
delle misure di povertà e all’analisi delle proprietà, dei limiti e
degli aspetti comuni delle misure medesime, nonché agli aspetti
più importanti riguardanti la scala di equivalenza utilizzata in
Italia;
• la terza parte, costituita dai Capitoli V, VI, VII e VIII, mette in
luce le metodologie di analisi di alcune delle più importanti
indagini al livello italiano ed europeo, e descrive le situazioni di
povertà sulla base dei dati forniti dall'ISTAT e dall'EUROSTAT.
In modo più dettagliato:
il Capitolo I, dal titolo Aspetti definitori del concetto di povertà, offre un quadro
abbastanza esaustivo delle più importanti definizioni del fenomeno, dando
importanza agli effetti e alle differenze che si potrebbero ottenere in termini di
identificazione dei poveri, preferendo una teoria ad un’altra. Vengono inoltre
messe in rilievo, allo scopo di capire quale potrebbe essere la nozione che più si
avvicina alla realtà, alcune importanti distinzioni: quella tra povertà assoluta e
relativa, quella tra povertà economica e multidimensionale e tra povertà oggettiva
e soggettiva.
Il Capitolo II, dal titolo Alcuni importanti problemi connessi alla
costruzione delle misure di povertà, si articola in tre parti:
- nella prima viene sottolineato il legame tra conoscenza e misura, mettendo
in luce la dipendenza delle metodologie di analisi nei confronti delle
nozioni di povertà considerate;
- nella seconda vengono elencate ed analizzate le possibili scelte relative
alle variabili di riferimento, all'indice di posizione e le scale di
equivalenza. Lo scopo è quello di mettere in rilievo i riflessi positivi e
negativi dei meccanismi decisionali. Particolare attenzione è stata dedicata
alla questione che riguarda l’utilizzo, o meno, del reddito e del consumo;
- nella terza, infine, vengono descritte sommariamente alcune strategie di
misura associate a teorie come il basic needs e capability approach.
Nel Capitolo III, dal titolo Misure di povertà, la finalità è quella di
esaminare più da vicino i metodi di misura utilizzati in Italia che sono legati ad
una nozione relativa della povertà:
- in primo luogo l'attenzione è focalizzata sul problema dell’identificazione
dei poveri, sui principali indicatori e sulle soglie di povertà, analizzando i
pregi ma anche i difetti di questi strumenti rispetto a quelli usati in altri
ambiti nozionistici; argomenti centrali di discussione sono il consumo e
l’International standard of poverty (ISPL);
- poi l'attenzione è dedicata all'aggregazione dei poveri. Si mettono in luce i
possibili modi di misurare la diffusione e l'intensità di povertà attraverso
gli indici più noti, nell’ambito dei quali particolare attenzione viene rivolta
all'indice di incidenza e all’indice di intensità.
Il Capitolo IV, dal titolo Scala di equivalenza "Carbonaro " e fonti dei
dati, è anch’esso articolato in due parti;
- la prima parte ha la finalità di descrivere ed esaminare le caratteristiche
della scala di equivalenza utilizzata in Italia nonché i suoi criteri di
costruzione;
- nella seconda vengono esaminati soprattutto gli aspetti negativi delle
principali fonti disponibili in Italia, nell’ambito delle quali un posto di
rilievo è occupato dall’ISTAT.
Il Capitolo V, dal titolo L’indagine sui consumi delle famiglie, si articola
in due parti:
- nella prima vengono descritti in via del tutto generale le principali
caratteristiche dell'indagine, mettendo l’accento non solo sulle tematiche
di interesse ma soprattutto sulle innovazioni introdotte nella strategia di
campionamento, nel corso della rivisitazione dell’indagine effettuata nel
1997;
- nella seconda viene mostrato come i risultati prodotti dall’indagine in
esame consentono di pervenire alla costruzione della soglia di povertà e
degli indici di diffusione e di intensità che costituiscono strumenti
indispensabili per individuare le aree maggiormente colpite dal fenomeno
in discussione.
Il Capitolo VI, dal titolo Panel Europeo sulle famiglie, ha la finalità di
descrivere sia le principali caratteristiche metodologiche di detta indagine, sia due
importanti possibilità informative che essa fornisce in materia di analisi della
povertà: le informazioni sul reddito e quelle relative ai percorsi di entrata e di
uscita della popolazione da situazioni di povertà.
Il Capitolo VII, dal titolo L’indagine multiscopo sulle famiglie. Anche in
questo caso si parte dallo studio del disegno dell'indagine, focalizzando
l’attenzione sui suoi obiettivi conoscitivi che sulla strategia di campionamento su
cui essa si fonda. La finalità di questo capitolo è quella di dimostrare come,
utilizzando un tipo di approccio soggettivo, è possibile arrivare a risultati
completamente diversi da quelli raggiunti da un’indagine legata ad una nozione
relativa ed oggettiva del concetto di povertà.
Il Capitolo VIII, infine, dal titolo, Indagine SIPP (Survey on Income and
Program Partecipation), è volto ad uno studio generale del disegno di rilevazione
e alla focalizzazione delle principali aree tematiche concernenti l’indagine in
oggetto, rivolgendo un’attenzione particolare a quelle più interessanti in tema di
povertà.
CAPITOLO 1
Aspetti definitori del concetto di povertà
1.1. Introduzione
Nonostante i notevoli progressi economici che sono stati fatti negli ultimi
anni, le condizioni di vita non sono migliorate per tutti, né al Nord, né al Sud del
mondo; in particolare è ancora diffusa la condizione di povertà umana. Questo
fenomeno è riferito, più che ad una mancanza di ciò che è necessario al benessere
materiale, alla negazione di opportunità e scelte essenziali per lo sviluppo umano,
quali: condurre una vita lunga, sana, creativa; godere di uno standard di vita
decente; godere di dignità, autostima, del rispetto degli altri e delle cose cui le
persone attribuiscono valore nella vita.
Non a tutti sono chiare le reali cause che provocano queste situazioni di
disagio che riguardano principalmente (ma non solo) il Sud del mondo. Spesso i
luoghi comuni, ma anche numerose figure politiche, parlano di avversità
climatiche, prole numerosa, arretratezza tecnologica. E' vero, questi elementi certo
non giovano al benessere comune, ma troppo spesso sono utilizzate per
semplificare il problema e nascondere le responsabilità di paesi e governi; le vere
cause vanno ricercate altrove.
La realtà sulla povertà nel mondo viene sempre più spesso nascosta anche
tramite la manipolazione delle statistiche sul reddito o la loro cattiva
interpretazione: il sistema economico globale si fonda essenzialmente
sull’apertura di un libero mercato i cui vantaggi piovono direttamente sulle grandi
imprese, favorendo così un limitatissimo numero di paesi ed individui. In genere
l'estremizzazione di questo principio provoca l’impoverimento di alcune comunità
(siano esse nazioni o classi sociali) e l’arricchimento spropositato di altre. Questo
sistema, al fine di favorire la crescita produttiva, prevede la concentrazione di
enormi capitali nelle mani di qualche ristrettissima elite, che spinge sempre più
per una deregolamentazione del commercio: in questo modo è libera di sfruttare al
meglio i paesi del Sud e le classi meno influenti, depredando risorse materiali ed
umane, aumentando la disoccupazione e la povertà, schiacciando le economie più
deboli e meno concorrenziali, siano esse di natura sussistenziale (per il Sud) che
piccole aziende con mezzi e mercati ristretti e capitali inferiori (nel Nord del
mondo). La popolazione viene cosi chiaramente divisa tra persone utili ( coloro
che hanno un lavoro, ma soprattutto che possono spendere) e persone inutili
(coloro che sono privi di mezzi). Mentre i primi sono rispettati e talvolta
corteggiati, essendo potenziali consumatori, i secondi sprofondano in una
situazione crescente di disagio.
I dati disponibili sulla povertà non consentono di stabilire precisamente
quanti siano i poveri nel mondo anche perché la definizione stessa di povertà è
problematica: ci si può riferire a chi non ha neanche la sicurezza di un pasto al
giorno, la possibilità di vestirsi e una abitazione. Dai dati
1
disponibili è possibile
stimare che la popolazione che vive in questo stato di povertà assoluta è più di un
miliardo, ma questa cifra sale a circa tre miliardi se vengono considerati poveri
anche coloro che non hanno la possibilità economica di mandare i figli a scuola o
1
Fonte: Centro Nuovo modello di Sviluppo, 1994; “Sulla pelle dei bambini” EMI.
di garantirsi l’assistenza sanitaria.
Il fenomeno, quindi, comprende una larga serie di situazioni reali diverse:
è pertanto evidente che essa viene adoperata secondo accezioni differenti che è
opportuno esplicitare prima di addentrarsi nell’esame della situazione della
povertà in Italia.
In questo primo capitolo tenteremo di dare un esemplificazione del
concetto descrivendo quelle che sono le distinzioni più comunemente utilizzate in
tema di povertà. La distinzione più importante che bisogna subito fare è tra
povertà assoluta e povertà relativa.
1.2. Povertà assoluta e povertà relativa
Quando si parla di povertà assoluta si fa riferimento all’idea della
semplice sopravvivenza o a quella di un livello di vita ritenuto minimo
accettabile. Nel primo caso povertà è quasi sinonimo di “miseria nera”, di quella
situazione cioè nella quale la carenza di risorse a disposizione dell’individuo è
così profonda che la sua stessa vita è messa in pericolo o, quantomeno, è condotta
in condizioni disperate. Questa accezione di povertà è spesso usata con
riferimento ad alcuni Paesi del terzo mondo (o loro regioni particolarmente
svantaggiate), così come per quei casi di povertà estrema che si possono anche
riscontrare ai margini delle ricche società industriali. In questo caso la distinzione
tra poveri e non poveri è assai semplice e, almeno per quanto riguarda i Paesi
Europei, e comporta che la povertà sia ristretta ad un numero alquanto limitato di
casi, tutto sommato eccezionali. Di conseguenza, il problema della povertà si
restringe a quello di un piccolo numero di persone che, in base alle loro
caratteristiche prevalenti, è facile designare come del tutto “particolari”.
Sempre alla povertà assoluta ci si richiama anche in un secondo caso,
quando invece che alla mera sopravvivenza si fa riferimento ad uno standard di
vita che viene ritenuto “minimo accettabile”. In questo caso per discriminare i
poveri dai non poveri si definisce previamente un insieme di bisogni ritenuti
essenziali e le risorse che ne permettono un soddisfacimento minimo; le persone
(o le famiglie) che non dispongono di questo minimo di risorse vengono
qualificate come povere. I bisogni che più spesso vengono identificati come
essenziali sono l’alimentazione, l’alloggio, il vestiario, la salute e l’igiene (talvolta
si aggiunge anche la vita di relazione). A questa lista di bisogni si affianca una
lista di consumi che ne permettono il minimo soddisfacimento, tramutando poi i
consumi, attraverso i prezzi di mercato, nella somma di denaro necessaria. Si
ottiene così una soglia di reddito minimo che stabilisce il “confine della povertà”.
Questo metodo d’individuazione della povertà ha illustri precedenti: esso fu usato
da Rowntree (1901) già nella sua prima ricerca sulla povertà nella città inglese di
York e poi in moltissime altre occasioni. Questo stesso metodo è stato usato per
dividere i paesi del mondo in ricchi e più o meno poveri. Una sua applicazione,
infine, sta alla base della definizione di soglie d’intervento di molte forme di
politica sociale. La più comune ed anche la più interessante fra queste è quella del
cosiddetto “minimo vitale garantito”. Questa forma di assistenza si propone di
garantire a tutti un livello di vita minimo fornendo alle famiglie a più basso
reddito quel supplemento di denaro necessario per acquistare quei beni e servizi
che assicurano quel soddisfacimento “minimo accettabile” dei bisogni
fondamentali sopra elencati.
Come già ampiamente discusso precedentemente questa concezione della
povertà - qualificata come “assoluta” e quindi legata a necessità fisiologiche di
base - si ricollega a concetti quali i bisogni primari, il minimo vitale, il fabbisogno
nutrizionale minimo, la disponibilità di beni e servizi essenziali per la
sopravvivenza. In sostanza è “assoluta” in quanto prescinde dagli standard di vita
prevalenti all’interno della comunità di riferimento.
I limiti di questo concetto sono molti. Non è infatti facile stabilire, in
primo luogo, l’ammontare minimo di consumi che garantisce la sopravvivenza
(l’uomo potrebbe accontentarsi di un piatto di fave al giorno, ma non è detto che
poi esso sia sufficiente dal punto di vista nutrizionale); in secondo luogo, la
definizione di un livello di vita minimo accettabile comporta il riferimento ad una
data situazione storica, ambientale e sociale: ciò che viene ritenuto “minimo
accettabile” oggi in Italia è molto superiore non solo al minimo accettabile di un
secolo fa ma anche al minimo di qualche paese povero dell’America latina.
Il riferirsi ad una concezione della povertà intesa come fenomeno relativo
permette di superare questi inconvenienti e di disporre di una definizione più
aderente alla realtà. Già le considerazioni appena svolte mettono in evidenza il
fatto che non è possibile quantificare un’unica soglia di povertà che possa essere
utilizzata in situazioni storico-sociali diverse. La ragione di questa impossibilità
sta nel fatto che la vita sociale è essenzialmente una vita di relazione, di rapporti
tra persone e gruppi. La posizione che ciascuno ha nella struttura sociale assume
significato solo se è considerata in relazione alle posizioni degli altri: non si può
dire ciò che si ha e ciò che si è se non tenendo conto dell’intorno sociale con il
quale si interagisce. Si ha e si è più o meno degl’altri non in assoluto.
Come si può dire, ad esempio, se uno ha una buona istruzione? All’ inizio
del secolo saper appena leggere e scrivere era già considerato sufficiente, mentre
dopo la seconda guerra mondiale era almeno richiesto il diploma di licenza
elementare. L’acquedotto porta l’acqua dentro le case solo da alcuni decenni; e
come prima era normale prendere l’acqua dal pozzo, oggi lo è farla scorrere dal
rubinetto. Similmente si potrebbe dire per ogni aspetto delle condizioni di vita che
oggi sono incredibilmente migliorate rispetto a periodi neanche troppo lontani.
Come potrebbe essere possibile, in questo continuo mutare di condizioni generali,
mantenere immutata la soglia di povertà? I cambiamenti che sono evidenti in
relazione al passare del tempo non sono poi meno importanti se rapportati invece
allo spazio. Ciò che è accettabile in una società con un livello di vita mediamente
basso è inaccettabile in un'altra dove le condizioni di vita sono mediamente
superiori. Non solo essere poveri nel terzo mondo è diverso dall’essere poveri in
Europa, ma anche la povertà della Grecia è diversa da quella della Germania e
quella del Friuli è diversa da quella della Basilicata.
E’ pertanto preferibile porre alla base di ogni considerazione sulla povertà
una definizione di povertà relativa, correlata agli standard di vita prevalenti
all’interno di una data comunità e comprendente bisogni che vanno al di là della
semplice sopravvivenza, dipendente dall’ambiente sociale, economico e culturale
e che quindi varia nel tempo e nello spazio.
Questa definizione provoca talvolta alcune perplessità.
Se la povertà viene definita (e misurata ) facendo riferimento alle
condizioni di vita medie della società presa in esame, si ottengono risultati un po’
sorprendenti. Un paese complessivamente ritenuto povero può contenere una
percentuale di poveri inferiore di quella contenuta da un paese ricco, così come in
un paese complessivamente ricco possono essere considerate povere persone che
in un altro paese, complessivamente povero non sarebbero ritenute tali. Un
esempio estremo nasce dal confronto fra terzo mondo e Europa; anche all’interno
della stessa Europa si verificano di fatto situazioni di questo tipo.
La prima apparente incongruenza si spiega richiamando il collegamento
tra povertà e disuguaglianza. La misura della diffusione della povertà è in realtà
una misura dell’estensione della disuguaglianza. Un paese complessivamente
povero, ma caratterizzato da una disuguaglianza molto ridotta avrà un tasso di
povertà anch’esso molto ridotto perché una gran parte della popolazione vive in
condizioni di vita che sono comprese entro un piccolo intervallo. All’opposto di
un paese mediamente ricco che è percorso da una forte disuguaglianza si troverà
ad avere un alto numero di poveri perché molte persone vivono in condizioni
lontane dalla media, oltre la soglia di povertà.
La seconda obiezione si risolve richiamando la definizione di povertà
relativa e le ragioni per la quale essa è stata preferita a quella di povertà assoluta.
E’ chiaro che un pensionato sociale in Italia ha un reddito più alto di un paria
indiano, ma è ancora più chiaro che il nostro pensionato sociale deve vivere
nell’Italia del duemila, circondato da persone che hanno il tenore medio di vita
degl’italiani d’oggi mentre il paria indiano vive nel suo ambiente, immerso in una
povertà secolare. E così come essi sono separati dalla realtà, altrettanto non ha
senso mescolarli concettualmente, facendo dei confronti in verità privi di senso.
Ciò che non bisogna mai dimenticare quando si ragiona in termini di
povertà relativa è che la prima operazione essenziale è definire l’ambito
territoriale (o sociale) di riferimento, perché è all’interno di esso che si colgono le
relazioni di disuguaglianza e quindi di povertà; “ognuno è povero o non povero in
rapporto agli altri tra i quali vive”. Così, per esempio, se si fanno coincidere le
“frontiere sociali” con quelle nazionali, si può calcolare la diffusione della povertà
in ciascuno dei paesi appartenenti alla Comunità Europea e fare quindi una
graduatoria delle diverse nazioni europee secondo il loro indice di povertà
(l’Eurostat
2
fissa linee di povertà nazionali). Se si considera invece la Comunità
europea come un unico spazio sociale, per stimare la diffusione della povertà in
Europa bisognerà prima calcolare un valore medio europeo di riferimento e poi
confrontare con esso le condizioni di vita di tutti gli europei: i risultati saranno
certo diversi da quelli ottenuti prima, perché si troveranno in situazione di povertà
anche quelle persone appartenenti a paesi mediamente poveri che, relativamente
alla propria situazione media nazionale, non erano state definite povere. Anche
l’adozione di una concezione della povertà come fenomeno relativo (la misura
della povertà in gran parte dei Paesi sviluppati Italia compresa fa perno sulla
nozione di povertà relativa) comporta dei problemi quali: ci sono differenze tra
disuguaglianza e povertà (relativa)? La seconda è solo una manifestazione della
prima?
2
Eurostat: Ufficio statistico dell’Unione Europea.
Tra povertà relativa e disuguaglianza esistono delle differenze di carattere
concettuale e operativo, così come esistono molti punti di contatto. La
disuguaglianza caratterizza ogni società secondo forme diverse e la percorre
individuando un continuum di posizioni superiori ed inferiori alla media. La
povertà, invece, interessa solo una parte della disuguaglianza e più esattamente il
suo estremo inferiore. Il problema concettuale da risolvere riguarda
l’individuazione del punto dove la disuguaglianza si trasforma in povertà.
Considerare la povertà come la conseguenza estrema della disuguaglianza
sociale è molto utile in termini operativi perché comporta la sostituzione di
interventi assistenziali diretti verso le persone povere, con azioni di politica
sociale volti a modificare i meccanismi sociali che producono la disuguaglianza
prima, la povertà poi.
Questo legame va messo in evidenza allo scopo di controbattere la
concezione “individualista”
3
della povertà con lo scopo di sottolineare che stiamo
affrontando un fenomeno sociale, prodotto dalla generale dinamica sociale.
La disuguaglianza, tuttavia, per il suo essere una caratteristica costante
della vita sociale, può ragionevolmente essere contenuta entro certi limiti, ma non
può essere eliminata del tutto.
3
Secondo questa concezione la povertà sarebbe la conseguenza di una storia individuale, che si
può anche ripetere molte volte, ma che non metterebbe mai in questione la struttura sociale nel suo
complesso, richiederebbe insomma al più l’ assistenza sociale e non riforme più profonde. L’idea
di disuguaglianza, invece, è sempre legata alla struttura della società nel suo complesso, essendo di
questa una caratteristica quasi sempre denotata negativamente. Infatti, tutti gli stati democratici
moderni hanno posto l’uguaglianza fra i valori base della convivenza sociale e si sono dichiarati
impegnati per la sua effettiva realizzazione. Fonte: Commissione Indagine sulla povertà e
l’emarginazione 1991, “Secondo Rapporto sulla povertà in Italia”. Roma, Istituto Poligrafico e
Zecca dello Stato.