Introduzione La riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione può contare oggi su una copiosa
giurisprudenza costituzionale,che ha contribuito a chiarirne gli aspetti di più difficile
interpretazione;essa ha stabilito inoltre che non ci sono materie determinabili a priori perché in
ognuna di esse i vari “interessi” si intrecciano e si sovrappongono(materie trasversali);gli spazi
delle potestà legislative dello Stato e delle Regioni si definiscono in concreto caso per caso. Tuttavia
il quadro complessivo che ne emerge è lontano dal presentarci un modello di Stato regionale
compiutamente definito e assestato ed in più la riforma stessa ha evitato di regolare le essenziali
esigenze unitarie e di coordinamento normativo che caratterizzano le materie stesse. A dieci anni
dalla revisione del titolo V della Costituzione il nostro assetto ordinamentale permane in una
condizione di precarietà e di incompiutezza. Non a caso giacciono in Parlamento diversi disegni di
legge Costituzionale che puntano a completare, anche modificando la riforma del 2001, l’assetto
istituzionale. Viviamo, in altri termini, una lunga stagione di precarietà costituzionale, che trova il
suo esempio più evidente nella profonda confusione circa il riparto delle competenze legislative tra
Stato e Regioni, che sempre più spesso sfocia in conflitto;come è stato posto da molti studiosi
inoltre il criterio materiale per la ripartizione della potestà legislativa tra Stato e Regioni è uno
strumento inadeguato perché ammette uno schema di distribuzione delle competenze caratterizzato
da una netta separazione,e inoltre questo criterio materiale,utilizzato dalla versione originaria,è
rimasto inalterato anche nella nuova versione del 2001. In ogni caso l’applicazione del testo del
1948 era piuttosto agevole anche grazie all’esistenza di un corpus normativo di individuazione e
trasferimento delle funzioni amministrative che specificavano il contenuto dell’elenco contenuto
nell’art 117. Si può infatti affermare che prima della riforma ,il principio del parallelismo
funzionasse non solo nel senso di individuare la titolarità delle funzioni amministrative a partire
dalla titolarità della potestà legislativa,ma anche nel senso di contribuire all’attività di produzione
legislativa chiarendo e precisando,attraverso i decreti di trasferimento delle funzioni
amministrative,il contenuto delle materie elencate all’art 117 della Costituzione. Nonostante tutto i
vari elenchi di materie dell’art 117 sono stati comunque aggiornati e modificati(basti pensare alla
competenza concorrente,a quella statale e all’introduzione delle materie residuali regionali) ma si è
sempre e comunque mantenuto il ruolo centrale per quanto riguarda l’allocazione delle varie
competenze legislative. Si è verificata inoltre la mancata attuazione sul piano delle funzioni
amministrative del disposto dell’art. 117, comma 2, lettera p) (fatta eccezione per l’aspetto
transitorio e limitato riferito alla L. n. 42/2009) e, soprattutto, si è avuta una lunga transizione verso
il cosiddetto federalismo fiscale di cui all’art. 119 della Costituzione. La precarietà costituzionale
5
nella quale tutti i soggetti della Repubblica sono costretti a vivere da tempo è oltremodo aggravata
da una legislazione statale, a partire dalle tante e ricorrenti manovre finanziarie, dichiarata
necessaria per fronteggiare la grave crisi finanziaria che attraversa il mondo occidentale e che
espone particolarmente il nostro Paese a rischi di crisi. Si tratta di provvedimenti che, pur avendo un
carattere finanziario e, quindi, riferiti alla necessità di contenere la spesa pubblica, hanno effetti
istituzionali considerevoli e non di rado incidono sulla autonomia e mettono in discussione lo stesso
Titolo V della Costituzione.
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Capitolo I
Nascita e sviluppo delle Regioni
Paragrafo 1.1 Cenni Storici: il riparto delle competenze fra lo Stato e le Regioni nell’originario assetto costituzionale.
Storicamente “ l’idea regionale” affonda le sue radici nell’Ottocento in quei movimenti d’epoca
risorgimentale facenti capo ad Antonio Rosmini, Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti. Mazzini
stesso nel 1861 sostenne l’esigenza di riconoscere la Regione quale ente intermedio fra la Nazione e
il Comune, precisando che l’unitarietà non doveva identificarsi necessariamente con
l’accentramento. Nel biennio 1860/61 dal governo Cavour venne presentato il progetto
Minghetti/Farini con l’obiettivo di delineare la via del trasferimento del potere verso i territori e di
istituire le Regioni. Il decentramento, secondo il progetto in questione,avrebbe rappresentato lo
strumento per un’idonea corrispondenza dell’ordinamento giuridico generale alle esigenze locali,
ma questa visione era troppo avanti con i tempi e in antitesi con l’allora vigente mentalità timorosa
e conservatrice. L’introduzione delle Regioni destò larghe preoccupazioni che vennero in luce
durante la discussione dei progetti in Parlamento, tra cui il rischio di minare l’unità del Paese e
l’idea che fosse meglio rinforzare i Comuni più che creare le Regioni, tanto che la proposta del
governo Cavour non fu accolta e la Camera preferì adottare il modello napoleonico che non
prevedeva nessun organo sovra provinciale. Successivamente, nel primo dopoguerra, con Luigi
Sturzo si riaccesero i riflettori su questa problematica e il fondatore del partito popolare italiano, un
anno prima della presa di potere da parte di Mussolini, sostenne la riforma amministrativa dello
Stato con alla base proprio le autonomie locali e il riconoscimento giuridico delle Regioni intese
come enti rappresentativi e non più come espressioni del decentramento amministrativo dello Stato.
Nel 1921 tramite il Regio Decreto n. 1319,venne scritta la prima disposizione che parlava
espressamente di Regioni, ma il dibattito rimase ancora bloccato e questa volta per venti anni: il
fascismo infatti occupava lo Stato e la sua visione accentratrice non prevedeva spazi per
qualsivoglia forma di autonomia,anzi, anche quelle esistenti -come le comunali- avrebbero presto
trovato la loro fine con l’istituzione del podestà. Mentre prima le Regioni erano esistite solo dal un
punto di vista territoriale come suddivisione geografica,con la Costituzione del 1948 prendono
l’avvento formale con la loro proclamazione (solamente nel 1970 quindi dopo più di venti anni
dall’entrata in vigore della carta costituzionale,vengono formalmente istituite e prendono avvio). Il
procedimento per l’approvazione della Costituzione della Repubblica Italiana prevedeva che il
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progetto del testo fosse, in prima battuta, approvato dalla II Sottocommissione, successivamente
dalla Commissione dei Settantacinque ed infine nella adunanza plenaria dell’ Assemblea
Costituente. In relazione alla parte del testo che doveva prevedere le potestà legislative regionali, sia
nella II Sottocommissione che nell’ Assemblea dei Settantacinque, si approvò un criterio di riparto
basato su una competenza esclusiva relativa a materie tassative e sottoposta ai limiti dei principi
fondamentali dell’ ordinamento e dell’ interesse nazionale, e su una competenza integrativa, anch’
essa per materie tassative e sottoposta ai limiti delle norme direttive fissati con leggi statali. L’
adunanza plenaria della Assemblea rinunciò alla competenza esclusiva regionale e approvò
definitivamente il 22 dicembre 1947 il testo della Carta Costituzionale, inserendo i rapporti fra lo
Stato e le Regioni nel Titolo V della parte seconda.Il testo così approvato prevedeva che la
competenza principale regionale, avendo l’Assemblea nel plenum rinunciato a quella esclusiva,
fosse una competenza concorrente ancorata ai “limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi
dello Stato 1
, sempre che le norme stesse non fossero in contrasto con l’interesse nazionale e con
quello delle altre Regioni” 2
e la competenza attuativa dell’ ultimo comma dell’ art. 117 fu rimessa
alla sola discrezionalità dello Stato, il quale con le proprie leggi poteva demandare alle Regioni il
potere di emanare norme di attuazione delle leggi statali.L’Assemblea Costituente pensò al fatto che
il sistema di riparto del potere tra centro e periferia su un livello sovra comunale potesse essere
moderno ed originale, potendo con le Regioni superare l’angustia dei Comuni, ma se da una parte il
giudizio del lavoro dell’Assemblea è stato positivo, dall’altra è stato più severo perché lacunoso ed
ambiguo, e con la prefigurazione di spazi di autonomia.All’ interno dell’ ordinamento italiano, nato
dall’ assetto costituzionale originario, le Regioni assunsero il ruolo di enti territoriali pubblici
autonomi a rilevanza costituzionale, in quanto espressamente previsti e garantiti appunto dalla
Costituzione, dalla quale traevano i loro poteri e la loro autonomia. La Repubblica si ripartiva,
quindi, in Regioni, Provincie e Comuni, secondo il disposto dell’articolo 114 Cost. (formulazione
originaria), pur essendo una ed indivisibile ex articolo 5 della Costituzione
3
. Tale articolo, già nella
posizione che assunse all’interno del testo della Costituzione
4
, fu inserito infatti fra i principi
1
“Si tratta di un limite peculiare che si differenzia da quello dei principi generali dell’ordinamento in base a
criteri quantitativi”. In Anzon A., I poteri delle Regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime e il modello
originario a confronto, Giappichelli, Torino, 2002, pag. 84.
2
Era questa la formulazione originaria del primo comma dell’ art. 117 della Costituzione.
3
“...l’indivisibilità e l’ unità devono la loro introduzione nella Costituzione all’ intenzione dei Costituenti di consacrare
l’identità comune e l’unità politica da poco ricostruita, nonché di proclamare la contrapposizione dello Stato italiano
allo stato federale.”. In Anzon A., I poteri delle Regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime e il modello
originario a confronto, cit., pag. 68.
4
Si tratta di una disposizione che, originariamente collocata in apertura del Titolo V della parte II della Costituzione,
nella redazione definitiva fu scorporata e collocata nella parte iniziale della Costituzione dedicata ai “Principi
8
fondamentali, ma soprattutto per la positivizzazione del principio dell’ indivisibilità e dell’unità
della Repubblica, pur con la garanzia, il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali e
del decentramento; si pose, perciò, quale punto di partenza per interpretare le norme riguardanti i
rapporti fra lo Stato e le Regioni e assunse un ruolo fondamentale attraverso il quale leggere le
norme del Titolo V della parte seconda. Le Regioni si trovarono, perciò, da una parte, a rivendicare
nei confronti dello Stato la propria autonomia, dall’ altro a doversi uniformare in nome dell’
indivisibilità e dell’ unità della Repubblica. La Regione, come ente territoriale, fonda la sua
esistenza su tre elementi costitutivi: il territorio , che ne caratterizza non solo i confini geografici,
ma anche quelli politici e giuridici; una comunità stanziata nel medesimo territorio, che l’ente è
capace di sottoporre alle proprie regole; una organizzazione politica autonoma da quella statale, in
quanto dotata di organi direttamente eletti dalla comunità regionale. Questi elementi determinano il
carattere locale della Regione rispetto a quello nazionale dello Stato, e la scelta dell’ Assemblea
Costituente fu di amplificare tale carattere, ponendo alle potestà regionali una serie di limiti la cui
ratio era giustificata proprio dalla loro regionalità. Per valutare complessivamente il ruolo delle
Regioni all’interno della Repubblica bisogna valutare l’intero ordinamento giuridico italiano, che
basa la propria esistenza sul sistema delle fonti del diritto, e cioè su quegli atti o fatti giuridici
capaci di produrre, modificare e rinnovare il diritto stesso. Tale sistema, descrivibile in termini
piramidali, è un sistema caratterizzato da una rigidità,dovuta dalla rigidità della Costituzione, per
cui le fonti che si trovavano più in alto nella scala piramidale, sono capaci di condizionare, in
quanto gerarchicamente superiori, quelle più in basso, mentre lo stesso non vale nel caso contrario.
Questo sistema è, infatti, strutturato secondo uno schema che trova al suo vertice la Costituzione, la
quale non può essere condizionata dalle altre fonti che può essa, invece, condizionare. La Carta
Costituzionale impone alle fonti ad essa subordinate una serie di limiti e, nel disciplinare il rapporto
fra quelle statali e quelle regionali, dispone che entrambe siano distintamente competenti a
legiferare nelle materie da essa indicate. Il principio della competenza, che può assumere diverse
forme, si aggiunge a quello gerarchico, ci si combina e lo rispetta, operando nei limiti e nei confini
segnati da quest’ ultimo. La competenza opera nei confronti del principio gerarchico in modo tale
che quando la Costituzione conferisce esclusivamente ad una fonte il potere normativo in
determinate materie, questa possa intervenire a disciplinarle senza l’ingerenza delle altre: questo è
ciò che accade nel caso della competenza esclusiva; oppure due diverse fonti possono essere
entrambe competenti a disciplinare, con apporti diversi, la stessa materia: questo è quanto accade
nella competenza concorrente; infine, può accadere che una fonte demandi ad un’ altra fonte, che
Fondamentali”. Così in Anzon A., I poteri delle Regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime e il modello
originario a confronto, cit., pag. 69.
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trae la sua legittimazione proprio dalla delega, il potere legislativo di cui essa é stata dotata,
potendosi in questi casi sottoporre la fonte gerarchicamente inferiore a tutti i limiti che si ritengono
opportuni non avendo quest’ultima un potere legislativo proprio: questo accade nella competenza
delegata.Da ciò discende che per la Costituzione (e quindi per la Corte costituzionale
5
) la legge
statale e quella regionale siano legittime quando abbiano rispettato i limiti gerarchicamente imposti.
Il giudizio di validità-invalidità delle norme, quali prodotti delle fonti 6
, opera nel senso di una
verifica del rispetto dei limiti imposti, che possono essere di due tipi: sostanziali o formali. Quanto
ai limiti sostanziali il giudizio si basa su una verifica del contenuto dell’ atto esaminato, quanto a
quelli formali si basa su un controllo delle regole imposte per la sua formazione. Per la competenza
il giudizio si effettua non solo attraverso un controllo sul contenuto dell’atto, verificando se
l’oggetto rientri nelle materie affidate alla competenza di quell’organo o di quel soggetto (quale
limite sostanziale), ma anche attraverso un controllo sul soggetto, il quale deve essere competente a
produrre quel determinato atto nel rispetto della regola procedurale imposta (limite formale); questo
perché il principio della competenza come limite si pone idealmente a metà fra i limiti sostanziali e
quelli formali.L’atto di legislazione primaria regionale è lo Statuto regionale. Nel sistema come
delineato dai Costituenti erano, e sono ancora oggi, previsti due diversi tipi di statuti, in
considerazione della loro diversa natura. L’art. 116 della Costituzione prevedeva che alla Sicilia,
alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta fossero attribuite
forme e condizioni particolari di autonomia e statuti speciali adottati con leggi costituzionali.
L’approvazione degli statuti per le Regioni ivi previste con legge costituzionale comportava che
questi atti-fonte potessero essere considerati alla stregua del criterio gerarchico formalmente al pari
della Costituzione, per cui sottoposti solo ai limiti impliciti che discendono dalla lettura della
Costituzione in senso materiale, primo fra tutti l’art. 5. Diverso, invece, era il discorso relativo agli
statuti delle Regioni ordinarie, i quali venivano adottati dal Consiglio regional e approvati con legge
della Repubblica, se pur si dubitò della natura di tale approvazione, in quanto poteva considerarsi
quale forma di controllo statale ovvero quale atto formale di recezion. Per questi atti la
Costituzione, sempre nell’ art. 123, prevedeva che essi si armonizzassero non solo con la
5
5 E’ l’organo costituzionale a cui compete tale giudizio.
6 “Il discorso sulle condizioni di esistenza, di validità e di efficacia delle fonti si muove su un piano diverso e
separato (se pur non indipendente) dall’analogo discorso che si dovrà svolgere relativamente alle norme che ne sono il
prodotto.”, Così Sorrentino F., Le fonti del diritto, Ecig, Genova, 1997, pag. 14.
6
Era questo l’iter deliberativo previsto dal secondo comma dell’ art. 123.
“In altri termini, le leggi statali di cui al capoverso dell’ art. 123 presentano un carattere meramente formale, nel senso
che le Camere non possono emendare”. In Paladin L., Le fonti del diritto costituzionale, Il Mulino Bologna, 1996, pag.
303.
10
Costituzione stessa ma anche con le leggi della Repubblica. Questi atti-fonte si trovavano in
rapporto con la legge regionale, atto che concerneva il vero perno della legislazione locale in quanto
idoneo a garantire gli interessi particolari di cui la Regione si faceva carico, di sovrapposizione
gerarchica per cui la legge doveva sottostare alle norme fissate dallo statuto; ma anche, in un certo
senso, in un rapporto di separazione delle competenze, essendo attribuito allo statuto il solo potere
di emanare norme relative all’ organizzazione interna della Regione, nonché “lo statuto regola l’
esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della
Regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali” 7
.La legge regionale oltre ai
vincoli strutturali imposti dallo statuto era logicamente sottoposta alla Costituzione ( limite
costituzionale ), discendenti da quella unità politica proclamata dall’ art. 5; in un sistema a
Costituzione rigida,è evidente che le leggi regionali devono rispettare la Costituzione in ogni sua
disposizione e dunque non soltanto per la parte relativa alla distribuzione delle competenze tra Stato
e Regioni.Un ulteriore limite che veniva dettato è quello del territorio 8
, ossia quel limite di natura
generale che si impone a tutte le leggi regionali;esso consiste nel fatto che la legge regionale non
può che disciplinare fenomeni,attività o servizi relativi al territorio della Regione e quindi
verificabili nello spazio geografico e politico di cui aveva avuto attribuita la potestà; in secondo
luogo i limiti del diritto privato e del diritto penale che giustificati dall’ importanza delle materie in
vista dell’ esigenza di unità, non consentivano al legislatore regionale di adottare norme che
rientrassero nella disciplina del codice civile. Un ulteriore limite generale imposto alla legge locale
era quello del rispetto dei precetti emanati dallo Stato in ottemperanza agli obblighi internazionali
che aveva assunto con gli altri Stati, e agli obblighi di dare applicazione alla normativa
comunitaria , soprattutto da quando l’Italia era divenuta membro della Comunità europea, la quale
era capace di dettare norme che, se pur facenti parti di un ordinamento separato, avevano acquistato
una grande rilevanza nell’ ordinamento interno. Tanto le norme internazionali come i trattati quanto
quelle comunitari come le direttive e i regolamenti pongono,sia pure in modo diverso,il problema
della loro esecuzione nell’ordinamento nazionale che deve adattarsi al loro contenuto.Per molto
tempo,questa attività di esecuzione interna di norme nascenti in altri ordinamenti,ma che lo Stato si
è impegnato a rispettare,è stata riservata all’esclusiva competenza dello Stato con il risultato che le
7
Articolo 123, 1 comma, Costituzione
8
Martines scriveva“ Il c.d. limite territoriale si specifica nell’ art. 120 Cost., a norma del quale la Regione non può
istituire dazi d’ importazione o esportazione o transito tra le Regioni; non può adottare provvedimenti che ostacolino in
qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni e non può, altresì, limitare il diritto dei
cittadini di esercitare in qualsiasi parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro. Il limite ha poi
assunto una dimensione più ampia, e risulta ulteriormente specificato e garantito, a seguito della costituzione della
Comunità/Unione Europea, della quale, come si sa, il nostro Paese fa parte”. In Martines T., Lineamenti di diritto
regionale, Giuffrè Milano, 2000, pag. 186.
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Regioni si vedevano del tutto espropriate della loro competenza legislativa,nelle ipotesi in
cui,appunto,il trattato o la norma comunitaria vertessero in materie di loro competenza;oltre al
limite dell’ordinamento comunitario qui va ricollegato un limite al ruolo che lo Stato mantiene in
materia di politica estera,che spesso può portare alla stipulazione di trattati internazionali con altri
Stati,il cui contenuto investe materie di competenza legislativa regionale. Quanto all’esecuzione dei
trattati internazionali,la legge numero 131/2003(cosiddetta legge La Loggia) ha stabilito che gli
accordi cui le Regioni sono abilitate a dare esecuzione,sono solo quelli ratificati ossia quelli che
hanno ricevuto la ratifica e il cosiddetto ordine di esecuzione ad opera dello Stato).Secondo la
nostra tradizione dualista,confermato anche dall’art 10 della Costituzione,i trattati una volta
conclusi sul piano internazionale,per creare obblighi sul piano del diritto interno,devono essere
ratificati(legge di autorizzazione alla ratifica da parte del Parlamento e ratifica da parte del capo
dello Stato).In sede di approvazione della legge di autorizzazione alla ratifica,il Parlamento approva
anche “l’ordine di esecuzione”,una clausola che appunto trasforma le norme contenute in un trattato
in obblighi di diritto interno;solo a questo punto si può inserire l’intervento “in esecuzione” posto in
essere dalle Regioni. Altro limite era quello dei principi fondamentali ;un primo interrogativo che si
è posto,in sede di attuazione della riforma,del tutto analogo a quello che si pose in occasione
dell’istituzione delle Regioni di diritto comune,ha riguardato la possibilità o meno per le Regioni di
esercitare da subito la loro più ampia potestà legislativa,anche in assenza della predeterminazione
con legge dello Stato dei principi fondamentali nelle materie “nuove” previste dall’art 117 comma
3.Un interrogativo che ha avuto,anche in questo caso,una risposta positiva. Con la sentenza n 282
del 2002,infatti,la Corte ha avuto modo di affermare che i principi che si impongono al legislatore
regionale non debbono necessariamente trarsi da “ leggi nuove espressamente rivolte a questo
scopo”, precisando peraltro che “specie nella fase di transizione dal vecchio al nuovo sistema di
riparto delle competenze,la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei
principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore” (soluzione poi
fatta propria dalla legge n 131 del 203 Legge La Loggia).Questa sentenza quindi afferma che i
principi fondamentali della materia possono essere ricavati anche dalle leggi vigenti e non è
necessario che intervengano le leggi cornice,perché il problema è che occorre una legge statale che
fissa i principi ma se il legislatore statale non si mette a scrivere questi principi fondamentali come
si procede?La risposta della Corte prima del titolo V,confermata poi anche dalla sentenza n
282/2002,era che in assenza di una legge statale che fissa i principi fondamentali,la cosiddetta legge
cornice,se il legislatore non fa questa azione,i principi si possono ricavare dal materiale normativo
che già c’è. La legge La Loggia infatti immagina un’operazione di questo tipo e allora il legislatore
ha pensato di attribuire al Governo il compito di operare una ricognizione dei principi fondamentali
12
della materia,con il decreto legislativo,strumento tipico del Governo.Nel 2003 allora il Parlamento
con una legge di delega al Governo(legge La Loggia) lo si incarica per attuare il compito di fare una
ricognizione,cioè ricavare i principi,ma il Parlamento non poteva attribuire al Governo il compito
di fissare questi principi fondamentali.La Corte Costituzionale ha allora nel 2004 con la sentenza n
280 annullato questa previsione,e ha affermato che i principi e i criteri direttivi della legge La
Loggia sono incostituzionali nel punto in cui rimandano ad una ricognizione che non sia meramente
formale..Mentre dunque le Regioni hanno iniziato,sia pur faticosamente(data la difficoltà di reperire
i principi da un tessuto normativo,soprattutto in certe materie,particolarmente ampio,confuso e
stratificato nel tempo),ad esercitare la loro potestà legislativa anche nelle materie “nuove”,il
legislatore è intervenuto,da parte sua,per avviare il processo di ricognizione dei principi
fondamentali già presenti nella legislazione statale vigente. A tale scopo,la legge n 131 del 2003 in
via transitoria e “fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi
principi fondamentali”,ha delegato,infatti,il Governo ad adottare “uno o più decreti legislativi
meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti”(delega non
ancora attuata).si tratta di una soluzione molto criticata in dottrina,ritenendosi dai più che la
definizione dei principi fondamentali nelle materie di competenza legislativa regionale concorrente
debba ritenersi(alla luce del disposto dell’art 117 comma 3),riservata in via esclusiva alla legge e
non ad altro atto normativo.Non solo,ma nello stabilire i principi e i criteri direttivi per l’esercizio
della delega,la legge n 131 in realtà conferiva al Governo un potere assai più che meramente
ricognitivo di principi già esistenti;un potere che consentiva di ridisegnare il contenuto delle materie
di competenza regionale e cioè il perimetro materiale assoggettabile a disciplina regionale. Motivo
per cui,per questa parte le disposizioni della già citata legge n 131 sono state giustamente dichiarate
illegittime dalla Corte Costituzionale (sentenza n 280/2004). La stessa Corte,peraltro,ha ritenuto che
i principi fondamentali possano essere posti oltre che dalla legge anche da un decreto legislativo e
persino da un decreto legge (sentenza n 196/204). Un secondo problema che si è riproposto dopo la
riforma riguarda la natura dei principi fondamentali della materia:se essi debbano avere solo una
valenza negativa o invece positiva,nel senso di poter indirizzare al perseguimento di determinate
finalità il legislatore regionale.Sul punto la Corte Costituzionale ha confermato la sua
giurisprudenza precedente,ritenendo che la funzione di tali principi è quella di “orientare” le scelte
dei legislatori regionali e non quella di fornire loro una cornice,appunto,solamente negativa entro
cui inscrivere coerentemente le medesime. Ancora,sempre alla luce della nuova formulazione
dell’art 117 comma 3,ci si è chiesti se potesse avere ancora diritto di cittadinanza la prassi invalsa in
passato,e di cui si è già fatto cenno,relativa alla inclusione nelle leggi cornice non solo dei principi
fondamentali della materia,ma anche della relativa disciplina di dettaglio;tale prassi,già fortemente
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