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fino a quello di Amsterdam, da Nizza fino ad oggi, settori ed ambiti di competenze
sempre più ampi sono stati devoluti al livello europeo. Il diritto dell’Unione europea
è di conseguenza entrato prepotentemente negli ordinamenti giuridici dei singoli
Stati, condizionandone ed indirizzandone la produzione normativa, scardinando
vecchi equilibri e ponendo la necessità di riforme. Il vecchio ordinamento
comunitario è stato gradualmente sostituito da un nuovo soggetto di diritto la cui
natura sfugge alle tradizionali classificazioni. Le ultime spinte guardano verso una
esperienza federale, la quale tuttavia sembra ancora lontana dal trasformarsi in realtà.
Parallelo a questo movimento e in apparenza confliggente, un generale
processo di regionalizzazione ha coinvolto, nell’ultimo decennio, gran parte dei paesi
europei, inclusi quelli tradizionalmente accentrati come le Francia. Alla cessione di
sovranità verso l’alto, in favore di un soggetto sovrastatale, si accompagnava una
generale rivendicazione di competenze proprie da parte delle entità sub-statali e si
chiedeva una cessione di poteri verso il basso.
Quella che si presentava come una contraddizione si è rivelata essere però la
doppia faccia di una medaglia, i due aspetti di uno stesso fenomeno, complementari
l’uno rispetto all’altro. Gli enti sub-statali, sebbene privati di alcun competenze loro
proprie, non hanno intralciato il cammino comunitario ma hanno contribuito a
fornirgli legittimità democratica; l’Unione europea ha visto in queste articolazioni
interne un grande potenziale democratico, un ponte con i soggetti materialmente
destinatari del corpus normativo comunitario, e non ha esitato a favorire la loro
creazione, dove assenti, o il loro sviluppo.
Si è così venuta parzialmente modificando la storica visione dell’Unione
europea quale unione esclusivamente di Stati, per lasciare il posto ad una nuova
5
concezione, più complessa ma maggiormente rispondente alla realtà, che poggia le
sue basi sul modello della multilevel governance e sul principio di sussidiarietà.
Proprio su questi due concetti si è incentrata gran parte dell’attenzione
nell’agenda politica comunitaria dell’ultimo decennio, sebbene il processo di
valorizzazione delle regioni, tanto a livello europeo quanto a livello nazionale, si
possa far risalire agli anni ottanta.
In Europa i primi sintomi di una rinnovata attenzione nei confronti delle
regioni in senso non più geografico ma politico sono costituiti dalla istituzione di un
organo rappresentante le istanze regionali (il Consiglio consultivo degli enti regionali
e locali ad opra della Commissione) e da una risoluzione del Parlamento europeo del
1988 (la Carta europea della regionalizzazione) nonché dal coinvolgimento delle
regioni nella gestione dei Piani Integrati Mediterraneo e dei Fondi strutturali. Sarà il
Trattato di Maastricht, del 1992, ad inserire per la prima volta a livello europeo il
principio di sussidiarietà e ad istituire il Comitato delle regioni, organo consultivo
nelle materie di interesse regionale, la cui disciplina verrà gradualmente modificata
dai successivi trattati. La possibilità di accedere alle riunioni del Consiglio dei
Ministri ha ulteriormente valorizzato questi soggetti, ponendo le giuste premesse
verso il riconoscimento di una loro propria soggettività comunitaria.
I grandi passi compiuti negli anni ottanta e novanta non hanno tuttavia portato
a quanto ci si aspettava: i trattati di Amsterdam e i Nizza, sebbene abbiano apportato
alcune significative novità circa il principio di sussidiarietà e il Comitato delle
regioni, non hanno compiuto quel salto di qualità che a molti sembrava vicino. Il
progetto, da molti ventilato, di un’Europa delle regioni sembra essere giunto ad un
momento di stallo, nonostante il grande attivismo a livello regionale.
6
In ogni caso la grande attenzione posta in particolar modo dalla Commissione
nei confronti di temi quali la legittimità democratica dell’Unione e l’avvicinamento
tra le istituzioni comunitarie e i cittadini ha avuto la capacità ed il merito di
richiamare l’attenzione sulla dimensione regionale, tanto che alcuni autori sono
arrivati ad ipotizzare l’esistenza, a livello comunitario, di tre livelli distinti:
comunitario, nazionale e regionale.
Freno a questi progetti è sempre stata la Corte di giustizia delle Comunità
europee, che non ha mai mancato di ricordare come lo Stato rimanga sempre l’unico
soggetto responsabile nei confronti delle istituzioni comunitarie: risiede qua il
principale punto di attrito, cioè nel fatto che all’accresciuto ruolo regionale si
contrappone ancora l’originaria impronta internazionalistica dell’Unione.
L’attivismo regionale è stato però frutto anche di un’altra spinta, tutta interna
alle arene nazionali. Gran parte delle nazioni europee ha assistito, spesso favorendoli,
a processi di decentramento, cedendo ambiti di competenza sempre maggiori a
organi regionali.
Tra queste, l’Italia ha proceduto alla modifica di una parte della Costituzione di
non trascurabile rilevanza, preceduta da importanti innovazioni a Costituzione
invariata. Il sistema italiano ne è risultato profondamente modificato, anche se
appare, per certi aspetti, ancora alla ricerca di nuovi equilibri. Le regioni sono
divenute co-protagoniste del rinnovato quadro istituzionale e il loro coinvolgimento
negli affari europei è stato sancito definitivamente in Costituzione, dove peraltro per
la prima volta è stato inserito un riferimento all’Unione europea quale limite e fonte
normativa. Regioni ed enti locali hanno mostrato la capacità e la voglia di assumere e
rafforzare il proprio ruolo a livello internazionale. Su questa spinta ha di certo
7
influito lo stretto rapporto con le istituzioni comunitarie, che hanno rappresentato la
prima sede di confronto con le altre realtà dei paesi membri.
Nel presente lavoro, spinti da un interesse nei confronti di un fenomeno in
continua evoluzione, si è voluto mettere in risalto il crescente ruolo esercitato dalle
regioni a livello comunitario, evidenziando la sinergia di azioni tra arene interne e
sollecitazioni esterne.
Lo si è fatto partendo dall’analisi separata dei due processi evolutivi: prima si è
analizzato il quadro europeo, mettendone in risalto le principali novità introdotte
negli anni e le tendenze dominanti; si è accennato al ruolo svolto in questi processi
dalle singole realtà regionali in ambito europeo: cosa chiedono le regioni e quali sono
le prospettive attuali di evoluzione. Al versante interno è stata dedicata la seconda
parte del primo capitolo: il ribaltamento del precedente assetto nella distribuzione
delle competenze legislative è stato analizzato prima nelle sue linee generali, per poi
concentrarsi sulle conseguenze della riforma in ordine alla partecipazione italiana
alla dinamica comunitaria, con particolare riguardo all’attività regionale.
Si è visto come dalle modifiche introdotte con la legge costituzionale n. 3 del
2001 le regioni si vedano garantita tanto la partecipazione alla fase ascendente
quanto quella alla fase discendente della produzione normativa comunitaria, e come
questa garanzia sia stata resa effettiva dalla legislazione ordinaria.
In particolare, si è voluto analizzare lo spazio concretamente assegnato alle
regioni nella formazione e nel recepimento del corpus normativo comunitario,
sempre in una prospettiva evolutiva e ponendo in risalto gli ostacoli incontrati e le
proposte per il futuro.
8
Alla partecipazione alla fase ascendente è stato dedicato il secondo capitolo:
dopo una breve introduzione sui modelli di partecipazione, la distinzione
fondamentale è stata operata tra partecipazione diretta e partecipazione indiretta. In
relazione alla prima ci si è soffermati sui principali istituti a ciò preposti, ovvero il
Comitato delle Regioni, gli Uffici regionali di collegamento e le possibilità introdotte
dalla nuova legge 5 giugno 2003, n. 131, la quale in attua il nuovo Titolo V della
parte seconda della Costituzione. La partecipazione regionale alla formazione della
“posizione” italiana in ambito europeo, la c.d. partecipazione indiretta, è stata
studiata distintamente, sulla base delle novità introdotte dalla modifica della legge
legge 5 febbraio 2005, n. 11, che, modificando sul punto la legge La Pergola, ha
inteso riformare il meccanismo di partecipazione dell’Italia all’Unione europea.
Particolare attenzione è stata di seguito dedicata alla disciplina della fase
discendente, la cui trattazione è stata suddivisa in due distinti capitoli: l’attuazione
vera e propria, al capitolo III, e il potere sostitutivo dello Stato, al IV.
In tutto il lavoro si sono tenute in particolare considerazione anche le pronunce
della Corte costituzionale, che ha avuto un ruolo importantissimo in questo campo,
poiché ha permesso adeguamenti della disciplina precedente alle nuove esigenze
poste dal rinnovato quadro costituzionale e dalle evoluzioni prodottesi a livello
europeo.
Il quadro emerso che ne è uscito è quello di sistema alquanto complesso,
descritto efficacemente, da A. D’Atena con l’espressione “il doppio intreccio
federale”. I cambiamenti realizzatisi negli anni sono risultati, sebbene graduali,
costanti e profondamente innovativi. I soggetti coinvolti, le regioni innanzitutto,
hanno avuto il merito di essere pienamente coscienti degli scenari che si andavano
9
aprendo e delle proprie potenzialità. Hanno quindi preso parte attiva a questo
processo, tentando di superare gli ostacoli derivanti da una concezione tradizionale
dei rapporti internazionali. Grazie a queste pressioni si è arrivati ad un superamento
della visione dei rapporti con l’Ue come meri rapporti internazionali: l’Unione,
proprio per la sua peculiarità, verrà, da un certo momento in poi, trattata
distintamente; le relazioni con la stessa verranno aperte alla partecipazione regionale,
e lo Stato rinuncerà a parte delle sue prerogative nell’ambito della politica estera.
Il processo evolutivo appare comunque ancora in atto. La bocciatura della
Costituzione europea, ad opera di paesi come la Francia e il Belgio, non deve essere
letta come una battuta d’arresto, ma piuttosto come una occasione: l’occasione di
fare il punto della situazione, di testare la volontà degli Stati membri e di procedere
maggiormente consapevoli del processo in atto.
Anche in Italia, le recenti modifiche del quadro normativo non sembrano un
punto d’arrivo ma piuttosto un punto di partenza. La disciplina posta in essere dalle
nuove norme, costituzionali ed ordinarie, sarà auspicabilmente applicata,
sperimentata, fino a renderla pienamente rispondente alle esigenze di un rinnovato
modello di governance. Probabilmente modifiche si renderanno necessarie per
rimediare alle lacune prodotte dal legislatore; altrettanto probabili saranno, come già
accaduto, conflitti tra lo Stato e gli enti sub-statali. Ma anche questi conflitti
mostreranno la propria utilità nella misura in cui permetteranno di chiarire aspetti
importanti di questi rapporti.
L’intenzione di questo lavoro è di mettere in luce questi delicati meccanismi in
movimento, di rendere percepibili le diverse istanze, le molteplici richieste poste sul
10
tappeto da tutti i soggetti, istituzionali e non, che si trovano ad operare nei rispettivi
ambiti nazionali e regionali, e al contempo in un unico quadro europeo.
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CAPITOLO I L’EVOLUZIONE STORICA DEI
RAPPORTI TRA L’UE E LE AUTONOMIE
REGIONALI
1) Il versante europeo
Nel dibattito sul futuro dell’Unione europea un posto centrale è occupato dalla
questione della legittimazione democratica dell’UE, ovvero dal problema di come
avvicinare i cittadini alle istituzioni europee, istituzioni percepite ancora troppo
lontane e quindi incapaci di cogliere e dare risposte efficaci ai loro bisogni.
Non è un caso che la questione si ponga proprio nel momento in cui l’UE
acquisisce poteri più penetranti nei confronti degli Stati membri e si allarga
inglobando nuovi territori. Il fatto di possedere competenze più ampie rende infatti
questo soggetto più presente nella vita dei cittadini in conseguenza, appunto,
dell’incremento dei campi d’azione ad esso assegnati; tuttavia, “l’incertezza su cosa
sia l’Unione, su cosa aspiri a divenire, i suoi limiti geografici, i suoi obiettivi politici
e il modo in cui i poteri sono ripartiti con gli Stati membri”
2
rischia di far percepire
l’Unione come qualcosa di estraneo, difficilmente afferrabile, e in ogni caso come
una questione che riguarda esclusivamente la classe politica, e al quale è difficile far
giungere la propria voce per comunicare esigenze specifiche.
Preoccupazioni al riguardo sono state espresse a più livelli tanto dagli Stati
membri quanto dai diversi organi comunitari nelle varie sedi di discussione. È la
Commissione presieduta da Romano Prodi a dare il via ad un primo dibattito sul
2
La governance Europea – Un libro bianco, COM/2001/0428.
12
punto. Il Libro Bianco sulla Governance europea (Commissione 2001) è una presa
d’atto del sentimento di estraneità che i cittadini europei nutrono nei confronti
dell’azione dell’Unione, manifestato anzitutto dal tasso decrescente di partecipazione
alle elezioni del Parlamento europeo, elezioni che nel complesso hanno registrato
una inesorabile e costante caduta della percentuale dei votanti dal 1979 al 2004
3
. Il
“no” irlandese in occasione del referendum per la ratifica del Trattato di Nizza
(trattato approvato in un secondo momento con il referendum dell’ottobre del 2002,
peraltro senza l’intervento di modifiche al testo originario) e la crisi, dovuta alla
mancata ratifica da parte di Francia e Olanda, di ciò che dovrebbe divenire la Carta
costituzionale europea, non sono segnali confortanti.
L’Unione non agisce efficacemente, le sue istituzioni sono poco conosciute e
gli atti che queste pongono in essere malvisti. L’allargamento dell’Unione ai paesi
dell’est non fa che acuire questo disagio rendendo ancora più urgenti modifiche che
ne legittimino l’operato. Il Libro Bianco propone a tal fine di rendere più trasparente
il funzionamento dell’Unione, attraverso una maggiore informazione e
comunicazione delle diverse fasi del lavoro, con consultazioni più frequenti con le
parti interessate che possano rendere partecipi le diverse componenti della società
civile.
Emerge così chiaramente la caratteristica principale dell’ordinamento
comunitario, un ordinamento caratterizzato non solo e non tanto dal rapporto tra le
3
Per un’analisi approfondita dell’affluenza alle urne in occasione delle tornate elettorali dal 1979 ad
oggi si veda il sito web www.europarl.it, all’interno del quale, nella sezione elezioni, sono registrate le
percentuali per ciascun paese membro. I dati non fanno che confermare il trend negativo che si
osserva in generale, con le sole eccezioni dell’Italia, in cui sebbene un calo sia osservabile la
percentuale rimane comunque alta (73.1% nel 2004 a fronte dell’84.9% del 1979), del Belgio, che
registra la partecipazione più alta d’Europa, e del Lussemburgo, dove occorre in ogni caso ricordare
che il voto è obbligatorio. Preoccupanti sono i dati relativi ai 10 nuovi Paesi membri, che nel
complesso vedono un’affluenza alle urne pari al 26.7%, abbassando così la media totale Europea, che
nel caso di un’Europa a 15 sarebbe stata del 49.1%.
13
sue istituzioni quanto piuttosto dalle interazioni che si vengono a creare tra soggetti
non istituzionali. L’Unione europea non è un Governo ma piuttosto una Multilevel
Governance
4
, che oltre alle relazioni strettamente istituzionali deve prendere
costantemente in considerazione anche le interazioni di soggetti non istituzionali e i
rapporti tra livelli istituzionali diversi. Riformare la governance europea significa
prendere atto del fatto che non c’è un singolo attore capace di dare risposte univoche,
risposte che invece vanno ricercate nella mediazione e nella composizione di più
voci in una sorta di patchwork
5
. In pratica ci troviamo di fronte ad un sistema
pluralistico e policentrico, in cui gli attori pubblici e privati prendono parte al
processo delle politiche: “in ciascuna area di policy ci sono più attori in gioco. A
volte sono gli attori pubblici (lo Stato e le Regioni politiche) ad avere il ruolo chiave,
a volte è l’industria, altre volte sono molto importanti anche le associazioni non
governative”
6
.
È in questo contesto che si inserisce la rivalutazione delle Regioni da parte
dell’Unione. Avvicinare l’Europa ai cittadini significa infatti necessariamente
dialogare con quei livelli istituzionali che questi sentono più vicini. E le Regioni, in
quanto enti di governo territoriale, possono essere portatrici di interessi collettivi ed
istituzionali.
Il riconoscimento di un preciso ed effettivo ruolo delle Regioni nel processo di
integrazione europea è condizione essenziale perché nello sviluppo di tale processo si
tenga conto delle peculiarità della realtà del nostro continente.
4
Il concetto di governance si oppone al concetto di government poiché, benché riguardante pur sempre
le relazioni interne ad uno Stato, non si limita alle relazioni di carattere istituzionale, ma ricomprende
anche le interazioni di tipo sociale che si realizzano attraverso procedure consensuali e non solo
autoritative.
5
F. MORATA, Come migliorare la governance democratica europea delle Regioni, in Le istituzioni
del federalismo, n. 1/2004, pp. 28 ss., part. p.31.
6
W. WALLACE, Collective governance, in H. WALLACE e W. WALLACE (a cura di), Policy
making in the European Union, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 523- 542.
14
Per molto tempo le Regioni sono rimaste ai margini delle riforme istituzionali
europee: l’Europa era composta di soli Stati che malvolentieri accettavano
interferenze di enti substatali (in particolar modo quelle incidenti sulla cura delle
relazioni con l’estero) ed erano poco disposti a concedere a questi ultimi spazi di
autonomia. D’altra parte era la stessa Comunità ad essere affetta da una sorta di
“cecità”
7
nei confronti degli stessi, forse ancora poco importanti ai fini del
perseguimento di obbiettivi tipici di “un’agenzia amministrativa”
8
più che di un ente
politico. Il numero limitato di materie devolute a livello comunitario e la natura
fondamentalmente tecnica delle stesse faceva ritenere che il sacrificio di competenze
dei governi infrastatali fosse trascurabile e che la legittimità delle decisioni
comunitarie assunte nei settori devoluti fosse adeguatamente garantita dal ruolo
determinante svolto nel processo decisionale dai governi nazionali.
E' indubbia la constatazione che nel corso degli ultimi decenni si sia
manifestata, nella maggior parte degli Stati membri dell'Unione europea, una
tendenza crescente alla regionalizzazione ed alla decentralizzazione. Questa tendenza
ha comportato l'attribuzione, in favore di soggetti esponenziali delle comunità locali,
di compiti, funzioni, responsabilità e poteri sempre più consistenti.
Da ciò deriva la necessità, per gli organi dell'Unione, di accrescere la
considerazione e l'approfondimento di tutti i temi che siano comunque connessi al
ruolo delle Regioni e degli enti locali nell'ambito comunitario. Questo rinnovato
interesse consente, altresì, di migliorare notevolmente il rapporto tra le istituzioni
7
Viene generalmente tradotta così l’espressione tedesca Landesblind-heit, utilizzata per la prima volta
da Hans Peter Ipsen nel 1966 nel celebre saggio Als Bundesstaat in der Gemeinschaft, apparso in
Probleme des Europäischen Rechts. Festschrift für Walter Hallstein zu seinem 65. Geburstag,
Frankfurt a.M., 1966, pp.248 ss., spec. 256.
8
G. AMATO, Il contesto istituzionale europeo, in Le istituzioni del federalismo, n.1/2004, pp.11 ss.,
spec. p.12.
15
comunitarie ed i cittadini dell'Unione, dando un'attuazione più concreta e più visibile
a quel principio della sussidiarietà che ormai costituisce uno dei pilastri fondamentali
del nuovo ordinamento comunitario. Sussidiarietà significa, infatti, che il livello
decisionale e di allocazione delle funzioni deve essere quello più opportuno in
relazione all'obiettivo da conseguire: l’autorità di livello superiore non deve
estendere il proprio intervento oltre quanto è strettamente necessario e, in particolare,
non deve esercitare attività che possono essere meglio svolte a livello inferiore. Le
Regioni e gli enti locali previsti negli ordinamenti dei vari Stati membri devono
assolvere, appunto, a questo ruolo fondamentale di cerniera e di raccordo tra i vertici
della Comunità e la popolazione: soltanto l'applicazione in sede locale della
legislazione dell’UE può consentire al cittadino di percepire e di apprezzare in tutta
la sua importanza il rapporto che oggi lo collega indissolubilmente alle istituzioni
comunitarie.
Non è un caso il fatto che nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali si
ritrovi questa affermazione: “l'Unione contribuisce alla preservazione e allo sviluppo
dei valori comuni nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli
d'Europa, nonché dell'identità nazionale degli Stati membri e dell'organizzazione dei
loro poteri pubblici a livello nazionale, regionale e locale”. Così come,
analogamente, non è un caso che il percorso di avvicinamento dell'Unione ai cittadini
abbia rappresentato un obiettivo fondamentale del processo di Nizza, e che il Libro
Bianco della Commissione sulla governance europea richieda espressamente una
stretta collaborazione tra le istituzioni europee, i governi nazionali, le
amministrazioni regionali e locali e la società civile.
16
La spinta verso una riconsiderazione delle Regioni è stata il frutto di stimoli
diversi riconducibili essenzialmente a due direttrici: da una parte l’Unione, dall’altra
le Regioni stesse. La loro formazione (o il loro rafforzamento nei paesi in cui queste
già erano presenti) è infatti sicuramente riconducibile a fattori endogeni quali la
cultura, la storia o l’economia, ma su questo processo ha necessariamente influito un
elemento esogeno come quello delle politiche regionali comunitarie.
Il passaggio dall’integrazione economica all’integrazione politica ha messo in
evidenza un grande paradosso tipico dell’Unione europea, cioè che alcuni stati come
il Lussemburgo, l’Irlanda o la Danimarca, meno popolati di famose regioni quali il
Baden-Wurttemberg, avessero, al contrario di queste ultime, potere di veto in seno
all’Unione.
Le maggiori e prime vittime di questa situazione, nel momento in cui il
processo di integrazione fu avviato, sono state i Läender tedeschi e le Regioni
italiane da poco istituite. Tali entità infatti, al pari degli Stati di appartenenza, sono
state interessate da importanti sottrazioni di competenze in favore delle Comunità,
ma, a differenza degli Stati di appartenenza, si sono viste completamente tagliate
fuori dai processi decisionali dell’ordinamento comunitario. Di conseguenza hanno
perso di significato i poteri di interazione, quali ad esempio l’iniziativa legislativa
statale che nell’ordinamento italiano spettava anche, in base all’art 121, comma 2,
Cost., ai Consigli regionali italiani, o i poteri dei Läender nel processo legislativo
federale tramite il Bundesrat, previsti nelle rispettive Costituzioni nazionali e che
operano esclusivamente nell’ordinamento interno, senza inoltre che le Regioni e i
Läender potessero fare affidamento su strumenti di tutela giurisdizionale a livello
comunitario, dal momento che questa veniva, ed è tutt’ora, riservata ai soli Stati.
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Le ragioni di quanto appena descritto vanno probabilmente ricondotte alle
strutture costituzionali degli Stati membri al momento d’avvio del processo
d’integrazione negli anni cinquanta. Strutture costituzionali che erano, nella maggior
parte dei casi, organizzate centralisticamente, con le uniche eccezioni costituite
appunto da Germania - Stato federale nato da un processo di unificazione - ed Italia,
la quale peraltro ancora aveva un “regionalismo a metà”, poiché le uniche Regioni
esistenti erano quelle speciali, mentre le Regioni ordinarie vennero attuate solo
successivamente negli anni settanta.
A conferma del fatto che fosse proprio la prevalenza di ordinamenti accentrati
a determinare una sorta di cecità della comunità stanno le prime aperture comunitarie
in favore degli enti sub-statali successivamente ad alcuni mutamenti costituzionali
interni alla gran parte degli Stati membri a partire dagli anni ’70.
Nel 1970 infatti il nostro ordinamento riesce finalmente a sbloccare la
condizione di impasse che aveva “congelato” le nostre Regioni ordinarie per venti
anni, dando loro concreta attuazione con la legge 16 maggio 1970, n. 281, che
prevede i provvedimenti finanziari per l’attuazione concreta delle Regioni ad
autonomia ordinaria e la delega al Governo per l’emanazione di norme per il
passaggio delle funzioni statali alle Regioni, nelle materie loro attribuite dalla
Costituzione. Due anni dopo, nel 1972, vengono emanati i decreti governativi
delegati che trasferiscono alle Regioni ordinarie le funzioni nelle materie loro
attribuite dalla Costituzione; contemporaneamente il Belgio procede ad una iniziale
regionalizzazione del suo territorio creando tre Regioni e tre Comunità dette
“culturali”, alle quali vengono attribuite diverse competenze.