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In questo terzo capitolo mi sono avvalsa della lettura di vari psicoanalisti:
Lacan con il concetto di sinthome, Bollas per quello di vissuto non pensato e
di oggetto trasformativo, Racalbuto e gli affetti-sensazione, Feliciotti e
Recalcati per quello di sintomo muto, infine Bergeret per la sua analisi
sull’identificazione.
Poi ho cercato di tracciare alcune linee di cura, sottolineando la priorità e la
centralità di un lavoro preliminare, in cui si lavora per sollecitare nel
soggetto una domanda di cura, quindi una qualche responsabilità rispetto alla
propria sofferenza. In questa parte mi sono fatta aiutare dalla lettura di altri
due psicoanalisti, Recalcati e Correale, e per concludere ho tentato di far
emergere l’importanza della dimensione gruppale nella cura
dell’adolescente.
Infine ho voluto mettere a confronto la logica capitalista e quella scientifica
(che nell’età contemporanea tendono ad intrecciarsi) con quella
psicoanalitica e tracciarne le profonde differenze, evidenziare come il
pensiero psicoanalitico sia alquanto in controtendenza rispetto all’attuale
proliferare delle tecniche psicologiche e oggi più che mai necessario per
poter dare agli adolescenti uno spazio in cui fermarsi, domandarsi e pensare.
Con la consapevolezza di non portare del materiale clinico, ma solo
bibliografico, in questa tesi ho cercato di riflettere sulla possibilità di un
lavoro attuale con un adolescente che soffre oggi, all’interno di questo tipo
di società che sempre più manca di limiti e perversamente incita i suoi figli
al godimento.
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CAPITOLO 1
Cambiamenti sociali che diventano cambiamenti individuali
1.1 Evoluzione storiche del concetto di adolescenza
Tutto fa credere che, ad ogni epoca,
corrisponda un'età privilegiata ,
e una certa periodizzazione della vita umana:
la giovinezza è l'età privilegiata
del diciassettesimo secolo,
l'infanzia del diciottesimo,
l'adolescenza del ventesimo
P. Ariès, Padri e figli
Mi sembrava necessario iniziare questo lavoro cercando di far luce sulle
origini del termine "adolescenza".“Adolescenza” infatti a differenza di
“pubertà”, non è un termine così strettamente legato ai cambiamenti fisici; è
un concetto molto più sfumato, che se inizia a partire dalla pubertà non trova
concordi gli studiosi su quando finisca, infatti il concetto di adolescenza
nasce in seno ad un certo modo di strutturarsi della società, di concepire la
famiglia e l’istruzione.
Nonostante il termine derivi dal latino "adolescens" (colui che incomincia a
crescere), nella Roma antica questo termine non designava nessuna età in
particolare e veniva utilizzato per indicare i giovani uomini tra i 17 e i 30,
ma non si trattava né di pre-adulti, né di post-adolescenti dato che la
cittadinanza veniva data a 17 anni e il diritto di sposarsi lo si aveva dalla
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pubertà. L’uso del termine scompare poi per qualche secolo per tornare
nuovamente nel Medioevo, seppur con un uso molto sporadico e comunque
per qualificare un’età imprecisa tra i 15 anni e i 60. Nel ' 500 non si
distingueva tra puer e adolescens, mentre nel ’700 il termine viene utilizzato
con un’accezione spregiativa.
E’ solo a metà dell’800 che il termine “adolescente” entra a far parte delle
principali lingue occidentali per designare i giovani collegiali ancora
economicamente dipendenti dalla famiglia.
Più nello specifico, come afferma Ariès (Ariès P., 1960), è all'inizio dei
tempi moderni che si incomincia a cogliere la differenza tra il mondo dei
bambini e quello degli adulti, passaggio che il Medioevo non sentiva, e
questo avviene attraverso il crescere di una preoccupazione educativa.
Tradizionalmente i ragazzi venivano educati in casa o in apprendistati e così
immediatamente immessi nel mondo adulto, ma all’inizio dell’800 nella
borghesia il giovane viene visto come un essere fragile, esposto al pericolo
di corruzione e per questo prima di entrare nel pieno del mondo adulto si
fece in modo che attraversasse un periodo di passaggio tra infanzia ed età
adulta, una moratoria (Erikson E., 1963) Ciò avvenne trasferendo
l’educazione fuori casa, nelle scuole superiori e nelle istituzioni per giovani,
e fu proprio grazie allo sviluppo della scolarizzazione, alla strutturazione in
classi di età che nel ‘900 il termine “adolescente” divenne un termine
generico, che non designava più i giovani di una classe sociale, ma una
classe di età e venne applicato sia ai maschi che alle femmine.
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L’adolescenza è quindi il frutto dell’esigenza di ordine sociale presente nel
XIX secolo, che crea le strutture e le istituzioni nelle quali inquadrare il lato
pericoloso e incontenibile dei giovani. Lo stato moderno inventa, se così si
può dire, il fenomeno dell’adolescenza e lo concepisce come un’età critica,
piena di potenzialità, ma anche insidiosa, piena del fascino della seduzione,
ma allo stesso tempo da allontanare nella sua entrata nel mondo adulto.
Foucault (1976), nel suo studio sulla storia della sessualità, descrive proprio
come questo tipo di preoccupazione, di discorso, servisse all’articolazione
dei nuovi-moderni meccanismi di potere e di controllo sociale.
In questo periodo, a cavallo tra 800 e 900, il fiorire di teorie psicologiche e
pedagogiche incarna proprio questa esigenza sociale. Emblematica e
specifica rispetto al discorso sull’adolescenza mi sembrano gli studi di
Stanley Hall (1904). Lo psicologo americano fu infatti il primo a
concettualizzare più estesamente in termini psicologici l’adolescenza. Egli se
da una parte condannava l’imposizione dell’autocontrollo e la repressione
degli istinti sugli adolescenti e si poneva in difesa dell’adolescenza
promuovendo la creazione di spazi da riservare ai giovani nel tentativo di
diminuire questa pressione, dall’altra concepiva l’adolescenza come un
punto di partenza per un’evoluzione teleologica dell’uomo verso “un
superantropoide” (una sorta di superuomo nietszcheano), cosicchè la sua
concezione di adolescenza liberale, incentrata sulla giovinezza perse di
valore. Hall (1904) temendo che le deviazioni adolescenziali potessero
condurre allo svilimento del genere umano piuttosto che al suo
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miglioramento era riluttante alla piena libertà dei giovani; l’adolescenza
secondo lui segnava un periodo di transizione tra l’egoismo e l’altruismo, e
ciò poteva avvenire solo attraverso la sottomissione agli altri e alle regole
sociali esistenti. La crisi adolescenziale viene vista come caotica e selvaggia
e i contrasti vissuti a livello fisico e psicologico come un qualcosa che
potesse minare l’ordine sociale, ed è questo in definitiva che giustifica la
costruzione di spazi che ritardassero l’entrata “prematura” nel mondo adulto.
Nell’età moderna l’adolescenza ha un suo carattere specifico dunque, è
considerata come un’età di passaggio controversa che si oppone ad un ordine
sociale, ma che posto assume invece l’adolescenza nella postmodernità?
Oggi che il disagio della civiltà non si configura più come repressione degli
istinti, ma come mancanza di limiti, l’adolescenza più che un’età critica
sembra proprio diventare il sintomo del malessere che l’uomo vive
(Feliciotti, 2005). La crisi dell’ordine sociale e l’instabilità delle strutture
istituzionali rende molto più difficile l’espressione di una sofferenza e così,
da una parte si assiste all’allungamento dell’adolescenza, al cosiddetto
fenomeno dell’adolescenza interminabile, dall’altra ad un’invisibilità
dell’adolescente, nel senso che la crisi adolescenziale prende connotazioni
sempre più sfumate.
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1.2 Dal disagio della civiltà al disagio della postmodernità
Dio è morto, Marx è morto e
anch'io oggi non sto molto bene!
Woody Allen
Per descrivere come sono cambiate le forme di espressione del disagio
sociale mi sembra importante far luce sui cambiamenti della società e sulla
crisi dell’ordine sociale. Per farlo mi avvarrò delle analisi compiute da Freud
a da Bauman.
Ne “Il disagio della civiltà”, pubblicato nel 1929, Freud compie un’attenta
analisi della società in cui vive, ossia della modernità potremmo dire.
Il tratto distintivo che cogliamo dalle parole di Freud rispetto alla cultura
della sua epoca è la regolazione delle relazioni degli uomini tra loro. Il modo
in cui gli uomini riescono a raggiungere questo obbiettivo è la sostituzione
del potere del singolo con il potere della comunità, dunque si impone una
limitazione del soddisfacimento del singolo. Il valore che la civiltà fa suo è
quello di giustizia, intesa come “sicurezza che l’ordine statuito non sarà
infranto a favore di nessuno”. La libertà individuale, che era massima prima
di qualsiasi civiltà, anche se in realtà priva di valore poiché l’uomo non era
capace di difenderla, subisce limitazioni, “viene barattato con un po’ di
sicurezza”. Come valori fondamentali si impongono la bellezza, l’ordine e la
pulizia, principi che si intrecciano tra loro e sono fondamentali per la
realizzazione e razionalizzazione della vita comunitaria.
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Il singolo individuo si trova costretto a limitare il soddisfacimento delle
pulsioni sessuali e aggressive in favore della sicurezza che la vita civile gli
permette. E’ da qui che, secondo lo psicoanalista viennese, nasce il disagio
dell’uomo, da questa repressione a cui si deve sottomettere.
Una delle cose che mi sembra più importante sottolineare dell’analisi
freudiana è come la natura di questo disagio abbia a che fare con il senso di
colpa. Freud (1929) collega infatti la rinuncia pulsionale imposta dalla
società alla nascita della coscienza morale. Riassumendo avverrebbe
pressappoco questo: la civiltà per frenare la spinta aggressiva dell’uomo fa in
modo che questa venga interiorizzata, che si ritorca contro sé stesso
sottoforma di senso di colpa, di bisogno di punizione, perché l’aggressività
interiorizzata viene assunta dal Super-Io e si scontra con l’Io. Il senso di
colpa scaturirebbe dalla tensione tra Super-Io e Io.
Freud scrive: “Dato che la civiltà obbedisce ad una spinta erotica interna che
le ordina di unire gli uomini in una massa collegata intimamente, essa può
raggiungere tale meta solo per la via di un sempre crescente rafforzamento
del senso di colpa” (Freud S., 1929, p.267)
Il senso di colpa così scaturito dalla società rimane inconscio o viene alla
luce come disagio. Il sintomo nevrotico sarebbe dunque segno della
rimozione della parte libidica della tendenza pulsionale, il senso di colpa
invece segno della rimozione della parte aggressiva. La civiltà moderna è
dotato di un Super-Io che “affaccia severe esigenze ideali, il mancato
conformarsi alle quali viene punito con l’angoscia morale”(ibidem, p. 277).
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Il Super-Io descritto da Freud emana un ordine e ha delle esigenze etiche che
presumono che l’Io dell’uomo abbia un potere sovrumano sul suo Es,
chiedendogli continua obbedienza. In questo tipo di civiltà esistono dunque
degli ideali forti ai quali identificarsi, il legame sociale, un ordine, una
sicurezza, pagate a caro prezzo, il prezzo di un disagio chiamato senso di
colpa.
Quello che Freud si chiede alla fine del suo scritto, ossia: “se, e fino a che
punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della
vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e
autodistruggitrice”(ibidem, p. 280), anticipa un po’ la direzione che la civiltà
ha preso in seguito.
Il sociologo Zygmunt Barman (1997), che ha analizzato a fondo la società
contemporanea, ne “Il disagio della postmodernità” tenta di dimostrare le
varie sfaccettature della crescente sofferenza dell’uomo dei nostri tempi
proprio prendendo le mosse da quello che scriveva Freud nel ’29.
Quella che Bauman descrive è una società nella quale i valori e gli ideali si
sono ribaltati; se infatti la garanzia della sicurezza una volta aveva la meglio
sul soddisfacimento pulsioni, oggi il valore numero uno è quello della libertà
individuale e della ricerca del piacere a scapito della sicurezza. Scrive
Bauman “Il principio di realtà deve difendersi davanti ad un tribunale
presieduto dal principio di piacere” (Bauman, 1997, p. 7). Oggi gli ideali, a
differenza di una volta, non hanno a che fare con un bene comune, con la
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convivenza civile, ma coincidono con una realtà particolare, individuale, che
permetta di sentirsi in primis liberi.
Ma “quanto è libera la libertà?” questo tipo di libertà, si chiede Bauman
(1999) ne “La solitudine del cittadino globale”. Quella libertà desiderata
attraverso le maglie del sacrificio in nome della sicurezza è stata raggiunta,
ma forse non è veramente il genere di libertà promesso. La libertà che
avevano in mente i pensatori moderni era infatti la libertà del genere umano,
un tipo di libertà che avrebbe permesso ai membri della specie umana di non
incontrare più ostacoli per agire secondo il loro istinto, insomma “solo
all’interno della onnipotente collettività umana l’individuo poteva essere
veramente libero: cioè non schiavo delle proprie passioni e della propria
avidità preumana e disumana” (Bauman, 1999, p.23).
Quella che invece si è realizzata non è questa libertà del genere umano, ma
si è tradotta in libertà di ciascuno dei suoi membri, cioè la forma di
individualità più comune nella società postmoderna è l’individualità
privatizzata. E questo cosa significa, cosa comporta? Per rendere l’idea mi
piace usare la metafora della banconota di Bauman: “La banconota di grande
taglio è stata cambiata con un barile di monetine, il che permette agli
individui di tenere il denaro in tasca. E farebbero bene a farlo, frugando
anche, se necessario, nelle tasche; infatti le banconote di grande taglio, che
un tempo erano affidate all’amministrazione della specie e garantivano la
solvibilità di ciascuno e di tutti collettivamente, non sono più al sicuro”
( ivi, p.75).
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E così la felicità non sembra neanche stavolta raggiunta una volta per tutte;
infatti è impossibile godere della libertà quando si vive con un grande
margine di insicurezza.
La nostra, Bauman la definisce “la società dell’incertezza”, infatti mentre gli
scenari moderni erano solidi, le istituzioni e le professioni parevano
immortali rispetto alla fragilità biologica e questo permetteva il rinvio del
soddisfacimento dei bisogni in vista di una pianificazione a lungo termine,
“gli scenari post-moderni non sono altrettanto solidi e compatti e la
costruzione dell’identità individuale cerca invano un fondale dove
ancorarsi”(Bauman Z., 1997, p. 25). Oggi le dimensioni dell’incertezza
riguardano vari campi, si tratta di un’incertezza refrattaria a qualunque
tentativo di ridurla ed il modo per convivere più “stabilmente” con essa è
quella di non avere un’identità solida, ma “un’identità palinsestale” che
sappia adattarsi con efficienza a più situazioni possibili. Un’identità solida
diventa addirittura un ostacolo alla sopravvivenza in un mondo in continuo
divenire. Nella post-modernità salta la chiarezza dei confini, in particolare
quelli che delimitano le posizioni sociali entro le quali l’uomo può sentirsi
veramente a casa sua, sapere chi è e decidere chi vuole essere. Per descrivere
questo sfondo della post-modernità Bauman si fa aiutare dal concetto di
“vischioso” che Sartre (1948) descrive in “L’essere e il nulla”: il vischioso
non è una sostanza fluida ma appiccicosa, è qualcosa nella quale si ha paura
di diluirsi, di affondare, di perdersi perché ostacola la libertà di movimento e
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dalla quale è necessario uno sforzo abnorme per liberarsene, se ci si riesce; è
una sostanza nella quale i confini tra sé e il resto sfumano.
Il dilagare di questa incertezza non permette più di considerare la verità
dell’esistere come qualcosa di non ancora compiuto, come un compito, una
responsabilità, come poteva essere ai tempi di Freud, ora che “l’autonomia
dell’uomo si è trasformata nella tirannia delle possibilità” (Arendt H., 1958)
il disagio non prende più le forme del senso di colpa, ma quelle di una
sofferenza molto meno specifica e più sfumata.
In una società così instabile, che non fa più della coscienza morale il suo
baluardo, costruirsi un’identità, crescere, separarsi dalle figure genitoriali per
diventare adulti, compiti che come vedremo meglio in seguito sono per
l’appunto quelli dell’adolescenza, si fanno molto più difficoltosi da portare a
termine, e poiché spesso questo non riesce, non rimangono prerogativa di
una fase specifica della vita, ma causa del malessere dell’uomo d’oggi.
1.3 Cambiamenti famigliari: dal futuro promessa al futuro minaccia
L’istituzione della famiglia, insieme quella della nazione, si è affermata
come modo per rispondere e contenere i tormenti dell’uomo sulla mortalità
individuale. La forma della famiglia è cioè un modo per pacificare la
domanda che da sempre l’individuo si pone “Che senso ha la mia esistenza?
Che succederà dopo la mia morte?”, la famiglia è una risposta collettiva a
questa domanda privata in quanto in seno ad essa si nasce e poi si ha la
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famiglia che si vuol costruire. La famiglia da cui si è nati e quella che si
genererà costituiscono una catena parentale che rappresenta la continuità
umana, questo è uno dei modi che la modernità ha prodotto per realizzare
una forma di “immortalità” per così dire. “La famiglia” infatti - scrive
Bauman - “porta in scena il dramma dell’immortalità costruito dagli atti di
creature mortali, affinché tutti assistano e partecipino allo spettacolo”
(Bauman, 1999, p. 76).
Una volta la solidità dell’istituzione famiglia era sostenuta dal fatto che il
futuro poteva essere concepito come una promessa, ossia il fatto di esser
nato, cresciuto, aver ricevuto una certa educazione solida, conteneva in sé la
promessa di poter far altrettanto con i propri figli. Oggi invece, la velocità
dei cambiamenti a cui assistiamo, il carattere globale di questi ultimi rende
precario e talvolta impossibile una previsione delle condizioni future, per cui
vediamo la nostra concezione di futuro cambiare di segno, ossia mutarsi da
speranza a minaccia (Benasayang e Schmitt, 2003). Di conseguenza la
famiglia non riesce più a rappresentare il porto sicuro nel quale gettare
l’ancora nei periodi di tempesta, poiché la famiglia non offre più la garanzia
di sopravvivere a coloro che l’hanno creata, o di migliorarsi, gettando
l’uomo in una condizione di estrema solitudine. L’uomo raggiunge una
condizione di autonomia, dove per autonomia si intende autosufficienza e
autoreferenzialità. L’uomo in pratica stenta a riconoscersi all’interno di
quell’orizzonte tracciato dalla collettività e, non trovando più solidità in essa,
la ricerca in sé stesso.